Cantillon sourIl libro “American Sour Beers” di Michael Tonsmeire ha una grande qualità: è approfondito e dettagliato al punto giusto ma allo stesso tempo pacato e confortante. Ci racconta che produrre birre sour in casa non è impossibile e che, anzi, gli stili sour sono anche più semplici da produrre rispetto ad altri. Questo è vero finché non parliamo di fermentazioni spontanee: in quel caso  la questione si fa piuttosto difficile. Se invece utilizziamo lieviti selvaggi e batteri “domati” dai grandi laboratori di lievito (Wyeast o White Labs), la produzione di birre sour diventa alla portata di tutti. Servono indubbiamente tanta pazienza e dedizione, perché lieviti selvaggi e batteri richiedono tempi piuttosto lunghi per produrre un prodotto bevibile: si parla di un minimo di un anno, ma alcune produzioni diventano apprezzabili dopo due/tre anni o anche più.

Perché non provare anche noi?

Chiaramente, avendo appena iniziato con le nostre sperimentazioni, non siamo qui a darvi lezioni. Vi racconteremo piuttosto il nostro approccio e le nostre scelte, cercando di motivarle. Man mano commenteremo insieme i risultati. Sarà un viaggio lungo e pieno di imprevisti, ma sicuramente entusiasmante. Come sempre, siamo aperti a consigli e osservazioni di qualsiasi tipo.

L’APPROCCIO

Dato che ogni produzione impiegherà molto tempo prima di poter essere valutata, seguiamo volentieri il consiglio di Tonsmeire: ci metteremo a produrre mosto per birre sour ogni 3/4 mesi. In questo modo, nel giro di un anno, avremo un bel po’ di birre in cantiere. Per fare ciò abbiamo comprato dei piccoli fermentatori da 16 litri (questi di pinta.it) da dedicare esclusivamente alle birre sour. Per ora usiamo fermentatori in plastica, anche se siamo coscienti di rischiare una eccessiva acidificazione della birra dovuta alla permeabilità della plastica all’ossigeno. Vedremo come andranno le cose; nel caso acquisteremo dei piccoli contenitori in inox a cui applicheremo un gorgogliatore (tipo questi di Polsinelli). In futuro, quando avremo maturato un po’ di esperienza e avremo iniziato a capirci qualcosa, proveremo magari anche con delle piccole botti (o almeno con gli oak chips, che in realtà già abbiamo nel cassetto).

Per mantenere il più possibile lieviti e batteri lontani dal nostro impianto e da frigo e camera di fermentazione che usiamo per le nostra produzione abituale, abbiamo preferito fermentare il mosto inizialmente con un lievito qualsiasi non troppo attenuante (in questo caso un S-04 della Fermentis che avevamo in frigo) e inoculare lieviti e batteri dopo la fermentazione primaria direttamente nel fermentatore dedicato. Una volta chiuso, questo fermentatore lo terremo al box dove la temperatura si mantiene intorno ai 24C in estate e ai 16/20 in inverno. Di meglio non possiamo fare, vedremo come va.

LA PRODUZIONE DEL MOSTO

Ci siamo basatLambic wort productioni su un grist molto semplice, dato che i principali attori di queste birre sono i leviti e i batteri: 70% pilsner belga, 30% grano torrefatto (ma anche i fiocchi vanno bene). Il mash lo abbiamo tenuto appositamente alto (69C) in modo da generare carboidrati complessi non fermentabili dal lievito che useremo per la prima fermentazione. Questi carboidrati verranno invece fermentati lentamente dai lieviti selvaggi e dai batteri che inoculeremo successivamente.

Abbiamo letto che alcuni birrifici usano una tecnica chiamata turbid mash per la produzione delle birre sour. E’ una tecnica piuttosto elaborata che prevede diversi step aggiuntivi: l’obiettivo principale è quello di far passare una parte degli amidi non fermentati nel mosto finale per darli in pasto a lieviti selvaggi e batteri. Noi abbiamo optato per un mash semplice a temperatura più alta del solito per ottenere una composizione simile in termini di carboidrati complessi senza complicare troppo le cose (approccio suggerito anche da Tonsmeire nel suo libro).

Per quanto riguarda l’amaro, non abbiamo usati luppoli invecchiati (come fa ad esempio Cantillon) ma luppoli “normali”, prevedendo solo una gittata da amaro con un target di 8 IBU (una concentrazione troppo alta di luppolo tende a inibire alcuni batteri). Leggiamo sempre sul libro di Tonsmeire che l’unica ragione per cui Cantillon utilizza luppoli invecchiati è per contrastare l’azione di batteri indesiderati (a parità di amaro può utilizzare più luppoli rinforzando l’azione antisettica). Nel nostro caso questa azione antisettica non serve, dato che andremo ad inoculare solo determinati tipi di batteri selezionati a monte. Cantillon, invece, inoculando una parte del mosto con lieviti presenti nell’aria, rischia che altri microorganisimi abbiano la meglio sulla fermentazione rovinando la birra.

LA FERMENTAZIONE

Come già detto, abbiamo scelto di fermentare in due stadi: prima con lievito neutro, successivamente con lieviti selvaggi e batteri. Avremmo potuto anche inoculare direttamente entrambi i lieviti insieme ai batteri, ma abbiamo preferito avere un controllo più specifico sulle dinamiche di fermentazione per valutare meglio l’effetto dei vari microorganisimi sulla birra finita. La fermentazione con soli lieviti selvaggi l’abbiamo esclusa perché porta a risultati molto diversi e non è solitamente utilizzata per la produzione di lambic.

Sempre con l’obiettivo di valutare meglio l’effetto dei singoli ceppi di lievito e batteri, abbiamo scelto di acquistare singole colture e non un blend (come ad esempio il Lambic Blend della Wyeast). L’intenzione è quella di inoculare le prossime birre con batteri e lieviti selvaggi differenti e valutarne fianco a fianco le differenze. Le variabili in campo sono moltissime, per questo stiamo cercando di focalizzarci su pochi aspetti per volta.

Per questa prima prova abbiamo utilizzato S-04 della Fermentis per la prima fermentazione (terminata con una densità finale piuttosto alta, come del resto ci aspettavamo: 1,019), Brettanomyces Claussenii (lievito) e Pediococcus (batteri) per la seconda (inoculati insieme). Non abbiamo fatto alcuno starter per Brettanomyces e Pedioccoccus per evitare di contaminare l’ambiente in cui di solito facciamo birra. A ogni modo, trattandosi di fermentazione secondaria per soli 11 litri di mosto, una busta per ciascuna specie dovrebbe essere sufficiente.

I Brettanomyces Claussenii (anche chiamati Anomalus) sono lieviti selvaggi che dovrebbero contribuire al bouquet aromatico tipico delle birre sour: i caratteristici aromi funky come polvere, muffa, coperta di cavallo ma anche esteri come ananas o pera. I Brettanomyces da soli non generano molta acidità, per questa ragione abbiamo utilizzato anche dei batteri come i pediococcus che generano principalmente acido lattico (avremmo potuto usare anche i lactobacillus, ma da quello che leggiamo hanno maggiori difficoltà a lavorare in birra con IBU superiore a 3/4). I Brettanomyces inoltre riescono a trasformare alcuni composti non piacevoli prodotti dai Pediococcus nel corso della fermentazione secondaria.

CONCLUSIONI

Ad oggi non siamo ancora passati al box a controllare il fermentatore, quindi non sappiamo nemmeno se la fermentazione sia ripartita oppure no. E comunque non credo faremo assaggi a brevissimo. Ci piaceva comunque raccontarvi l’approccio che abbiamo utilizzato. Vi terremo aggiornati sulle evoluzioni del progetto.

AGGIORNAMENTO: cliccando qui troverete i primi sviluppi di questa prima sperimentazione.

4 COMMENTS

  1. In bocca al lupo.
    Il mio primo esperimento è finito con la produzione di 15 litri di aceto di birra. Lo sto utilizzando a casa al posto dell’aceto normale e sto pensando di fare un “aceto balsamico di birra” utilizzando del concentrato di malto e dei chip di quercia. Avevo utilizzato un Belgian Lambic Blend e probabilmente il contenitore in plastica o lo spazio vuoto sopra la birra ha causato una maggiore concentrazione di ossigeno che ha portato a produrre troppo acido acetico.
    Il secondo esperimento, sempre con un Belgian Lambic Blend, è in damigiana di vetro da più di un anno e mezzo; ho quasi paura a controllare co si è prodotto.
    Ciao

    • Vero Daniele, la produzione di quantità eccessive di acido acetico è uno dei maggiori rischi di questi esperimenti. Ho letto comunque che non è detto che succeda sempre con i fermentatori di plastica, per questo abbiamo fatto una prova. Incrociamo le dita.

      Un saluto,
      FranK.

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