Detto sinceramente, non credevo che sarei mai arrivato a imbottigliare le due sour beer che da qualche anno avevo dimenticato al box di Raf. Abbandonate a loro stesse per mesi e prodotte senza esperienza e con poca (e solo teorica) cognizione di causa, ero convinto che sarebbe finito tutto nel tombino del box. Invece, incredibilmente, ho trovato entrambe le birre in condizioni sufficientemente decenti per poter essere imbottigliate.

Premetto subito che questo post vuole semplicemente raccontare la mia prima esperienza con le fermentazioni acide, concludendo un ciclo iniziato più di due anni fa. Va quindi preso con relativa leggerezza. Ultimamente, la moda delle birre acide prodotte senza alcun criterio né base teorica si sta diffondendo troppo per i miei gusti; sta passando il concetto che lanciare due microbi in un fermentatore sia sufficiente per diventare degli artigiani di questo stile così tradizionale e ricco di storia. Non è così, ovviamente, ma ciò non toglie che ci si può divertire e sperimentare anche senza avere una botte in una cantina a temperatura controllata. Come vedremo dai risultati del mio primo esperimento, con un po’ di attenzione si possono limitare i rischi e produrre qualcosa di bevibile. Non me ne vogliano i puristi se non ho seguito un metodo tradizionalista: come faccio sempre, parto con un approccio semplificato per poi complicarmi la vita solo in seguito, se non sono soddisfatto dei risultati.

LBB1 Brewing Bad sour
I tre fermentatori al box

Chiaramente un processo semplificato non porta gli stessi risultati di una vera fermentazione spontanea. Come vedremo, la caratteristica principale delle due birre che ho prodotto è la mancanza di complessità. Seppure prive di difetti evidenti, sono entrambe caratterizzate da un profilo organolettico piuttosto monodimensionale. Senza entrare nei dettagli (che sono ben spiegati in questo post del SourBeerBlog), il processo di produzione tradizionale e la vera fermentazione spontanea (che coinvolge tantissime tipologie di organismi in fasi diverse) favoriscono la produzione di un bouquet aromatico complesso, caratterizzato da una moltitudine di sfumature aromatiche e tipico di questo stile di birra.

ASSAGGI

Come già detto, ho preferito partire semplice per avere maggiore probabilità di ottenere qualcosa di bevibile. Devo dire che è andata abbastanza bene. Prima di raccontare nel dettaglio il processo che ho seguito per l’imbottigliamento del blend delle due birre sour, vediamo ricetta e caratteristiche di ciascuna.

Schema-LBBB-blog-2

Dai valori misurati, risulta subito evidente la differenza tra le due birre: la prima, quella più vecchia, ha una acidità molto contenuta (praticamente quella di una birra “normale”). La densità è scesa molto poco, attestandosi su un valore piuttosto alto per una birra acida (è scesa da 1.018 a 1.011 in due anni). In questi due anni ho deciso comunque di non intervenire in nessun modo, per evitare di aprire il fermentatore in plastica e far entrare ossigeno (l’introduzione massiva di ossigeno porta i Brett a produrre acido acetico).

04 - Lambic Blend

Nella seconda, invece, batteri e Brett hanno lavorato molto meglio (e in minor tempo): acidità e FG sono nel range giusto. Evidentemente i fondi di Drie Fonteinen erano più in forma dei Pediococcus Damnosus nella busta della Wyeast. Probabile anche che lo starter abbia influito positivamente sulla vitalità dei microrganismi inoculati nella seconda birra. Come si evince dal profilo organolettico delle due birre, L’assaggio conferma le impressioni che mi ero fatto dalla misura di pH e densità..Profilo Organolettico.

Lambic Blend

05 - Lambic BlendBLENDING

Il blending è una attività complessa che richiede molta competenza, esperienza e pazienza. Non possedendo nessuna di questa tre caratteristiche (in particolare nel campo delle fermentazioni acide), ho affrontato questo step con un approccio ragionato mantenendo però uno spirito leggero. Il vero blending è spiegato molto bene in questo post del SourBeerBlog, non è certo quello che ho fatto io. Oggi racconto la mia interpretazione semplificata del blending.

Mi sono ricavato una mattinata libera da dedicare – da solo – a questa attività. Ho iniziato alle 11, orario in cui olfatto e palato sono più riposati e ricettivi. Sono arrivato al box, ho messo tutto in ordine e ho prelevato tre campioni: uno da ogni fermentatore. Ho misurato pH e densità, mi sono seduto e ho assaggiato le tre birre, prendendo più appunti  possibile. Una volta verificato che i due campioni delle damigiane in vetro fossero più o meno identici (avevo dosato lo starter “a occhio”), ho iniziato a pensare al blend.

La scelta limitata (due sole birre, di cui una con profilo acido molto blando) ha reso piuttosto semplice la costruzione del blend: da subito avevo pensato di usare la LBB1 in piccola dose, per lasciare spazio alle caratteristiche più marcate della LBB2. Ho fatto un paio di tentativi con assaggio versando i campioni in alcuni bicchieri: un blend 40%-60% e l’altro 30%-70%. Per il primo ho misurato un pH di 3.4, per il secondo 3.3. Dopo diversi assaggi, ho scelto il secondo.

Ho quindi travasato le giuste quantità in un altro fermentatore, lasciandomi dietro circa 5 litri del LBB1. Per un attimo ho pensato di imbottigliarlo comunque come monoblend, ma avrei dovuto travasare di nuovo e sanitizzare altre bottiglie: ho desistito ed è finito nel tombino.

Lambic Blend

Valutare il livello del priming non è stato facile. La LBB1, con una densità di 1.011, potrebbe avere diversi zuccheri residui che, per qualche ragione a me sconosciuta, non sono stati fermentati dai Brett inoculati nel fermentatore. Esiste il rischio concreto che una volta in bottiglia, i Brett (evidentemente più attivi) del LBB2 consumino questi zuccheri producendo CO2 in eccesso. La densità dopo il blend di 5 litri di LBB1 e 9 litri di LBB2 dovrebbe attestarsi su 1.005, un paio di punti sopra quella della LBB2. Se fermentati dal Brett in bottiglia, questi due punti produrrebbero all’incirca 1 volume ulteriore di CO2.

Per evitare esplosioni, ho puntato a un priming di 1.5 volumi.

Lambic Blend

Un ulteriore rischio è che gli zuccheri del priming vengano consumati dai Pediococcus invece che dai Brett. Questi batteri sono generalmente omofermentativi, il che significa che non produrrebbero C02, lasciando la birra piatta anche in bottiglia. L’aggiunta di lievito in fase di imbottigliamento dovrebbe evitare questo effetto e velocizzare la carbonazione. Prendendo spunto dalle indicazioni trovate nel libro American Sour Beers, ho aggiunto 1 grammo di lievito secco reidratato in acqua per i 14 litri da imbottigliare. Ho usato US05 poiché è quello che avevo in casa.

07 - Lambic Blend

CONSIDERAZIONI FINALI

Quando mi lanciai in questa avventura “sour”, l’idea era di produrre una birra ogni sei mesi e lasciarla al box ad invecchiare, per avere poi a disposizione un vasto range di birre per il blending. Nonostante i buoni propositi, mi sono fermato alle prime due cotte. Non è facile trovare tempo per brassare quando sai che assaggerai il risultato più di un anno dopo: la frenesia di sperimentare nuovi stili mi ha portato a produrre birre con un turnaround più breve.

L’esperienza tutto sommato la valuto positivamente: non so ancora come sarà la birra imbottigliata, ma già il fatto che non siano venute fuori delle bombe di aceto o di solvente mi ha reso alquanto soddisfatto. Ho anche provato con mano che la plastica non influisce negativamente sul profilo organolettico della birra: l’importante è non aprire mai il fermentatore. L’aria che filtra dalle pareti è infatti piuttosto trascurabile, mentre non lo è affatto quello che entra quando si apre il coperchio a bocca larga. A ogni modo, la damigiana in vetro è più interessante perché permette di osservare le pellicole che si formano durante il lavoro di lieviti e batteri. Ovviamente, vanno tenute lontano dalla luce diretta. La mancanza del rubinetto ostacola il prelievo di campioni, cosa in generale buona per non finire la birra prima che arrivi a maturazione. 🙂

Da questa prima prova è emerso chiaramente che birre di questo tipo prodotte con un processo semplificato portano a un profilo organolettico estremamente povero e monotono. Per carità, in entrambi i casi si tratta di birre piacevoli senza i tanto temuti difetti (solvente, plastica, aceto) ma poco interessanti (almeno al momento dell’imbottigliamento). Per guadagnare in intensità bisognerebbe passarle in botte e seguire un processo di produzione diverso, più complesso, passando magari da una vera fermentazione spontanea e da un turbid mash. Come si vede dalla tabella sotto (presa sempre dal SourBeerBlog), gli aromi fruttati tipici dei lambic derivano dalla combinazione successiva di alcol e acidi. Maggiore il numero di microorganismi che intervengono nella fermentazione, maggiore lo spettro di acidi prodotti: maggiore quindi la complessità.

Ester-Table-1

Non so se in futuro proverò qualche altro esperimento, per ora attendo la carbonazione di questo primo blend.

2 COMMENTS

  1. Ciao Frank, per la carbonazione procedi con l’inoculo di zucchero come una birra “classica”?

    Inoltre, per il blending, pensi che il metodo soleras possa dare risultati piu interessanti se applicato a fermentatori sovrapposti invece che a botti?

    • Ciao Marco, la tua prima domanda mi fa sospettare che tu non abbia letto tutto il post… 🙂 Sulla seconda non saprei dirti: so cos’è il metodo solera ma solo sulla carta.

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