Ci ho messo un po’, ma alla fine anche io sono caduto nel torbido turbine delle New England IPA (NEIPA) anche note come “juicy” o “hazy” IPA. Da poco entrate ufficialmente nelle linee guida della Brewers Association e come stile “provisional” in quelle del BJCP, sono ormai diventate un fenomeno di respiro mondiale. Uno stile in cui molti birrai e homebrewer si stanno cimentando, con risultati più o meno interessanti.

In molti sono ancora scettici di fronte a questo stile-non stile, nato dalle sperimentazioni dei birrifici della East Coast americana, in particolare nella regione del Vermont. La scarsa stabilità organolettica, l’eccessivo dosaggio di luppolo, l’aspetto visivo torbido, ma soprattutto le scene da assaggio compulsivo e da FOMA (Fear Of Missing Out) a cui spesso assistiamo hanno portato molti, tra cui il sottoscritto, a tenersi lontano da queste birre. Qualcuna ne ho bevuta (ahimé, non in America) e una vaga idea sullo stile me la sono fatta. Sebbene alcune bevute siano state più che soddisfacenti, ho sempre considerato le NEIPA come un fenomeno modaiolo che mi interessava poco.

Tuttavia, la mia innata curiosità di comprendere le dinamiche che sono alla base di tutto ciò che ruota intorno alla birra mi ha portato a leggere diversi articoli su questo tema, anche piuttosto tecnici. Piano piano mi sono appassionato e ho capito che questo stile, seppure discutibile dal punto di vista commerciale e filosofico, ha dato una spinta sensazionale alla ricerca sui processi di produzione, tanto da scuotere nel profondo i tradizionali modelli che siamo abituati a seguire.

A un certo punto il materiale era tanto, troppo, e ho quindi deciso di fermarmi e iniziare a rielaborarlo a modo mio. Anche perché sempre più spesso mi capita di vedere in giro ricette di NEIPA buttate lì a caso, seguendo il solito mantra dei cereali proteici, il lievito Vermont e la luppolatura a secchiate. Doppio, triplo, quintuplo dry hopping, senza una apparente logica e senza seguire dei criteri a mio avviso sensati.

Mi sono messo a studiare, tra articoli scientifici e blog, e ho scoperto che – spoiler alert – criteri precisi non ce ne sono. Che in questo nuovo mondo di lieviti “magici” e “luppolatura sconsiderata” le regole non sono ancora chiare né ben definite. Come sempre, però, procedere a caso è ben diverso dal procedere senza regole. Insieme scopriremo perché.

Una piccola premessa e poi iniziamo. Il post è molto lungo, e lo sarà ancora di più. Avevo intenzione di scriverne uno solo ma le cose da dire erano troppe, quindi lo divido in due. La prossima puntata seguirà tra qualche giorno. Non ho ancora prodotto nessuna NEIPA, quindi prendete quanto segue come approfondimento teorico. Ne farò una a breve, dove cercherò di mettere in pratica quanto appreso. Quello che scrivo non è verità incontrovertibile: in primis perché è una mia rielaborazione, ma soprattutto perché sappiamo bene che quando si parla di produzione di birra, anche gli articoli scientifici possono andare in contraddizione tra di loro o addirittura arrivare a conclusioni che poi si riveleranno errate. Specialmente in un ambito come questo dove cè molto ancora da scoprire.

La torbidità (haze)

Tutti ormai sappiamo che la torbidità è un elemento chiave nelle New England IPA. Il senso comune la associa a un mouthfeel morbido e setoso, collegato spesso all’utilizzo massiccio di avena nel grist. Se questo in parte è vero, la torbidità in questa tipologia di birre gioca un ruolo ben più articolato del semplice ammorbidimento del mouthfeel. Per approfondire questo particolare aspetto, consiglio di ascoltare l’intervista a John Paul Maye (Hopsteiner) pubblicata dalla Master Brewers Association of Americas (MBAA) in forma di podcast (link) alla fine del 2017. Questa intervista prende vita da uno studio che Maye ha portato avanti per diversi mesi, analizzando quantitativamente i composti che formano la haze di 12 esemplari di NEIPA disponibili sul mercato. I risultati, raccolti in un articolo pubblicato sempre dalla MBAA (disponibile solo per gli associati) sono molto interessanti.

Fonte: Hidden Secrets of the New England IPA (MBAA TQ vol. 55, no. 4, 2018, pp. 88–92)

Il primo elemento importante da notare è la ridottissima quantità di lievito in sospensione. Nell’analisi non viene nemmeno rilevato come elemento a parte, finendo nella categoria “altro” insieme a decine di altri composti meno importanti. Solo una delle 12 NEIPA conteneva una quantità significativa di lievito in sospensione, negli altri 11 casi la percentuale era del tutto trascurabile (concentrazione inferiore al milione di cellule per millilitro di birra). Ne ricaviamo quindi un primo elemento importante: la flocculazione del lievito non è particolarmente importante in questa tipologia di birre (il ceppo sì, ma lo vedremo più avanti).

Secondo elemento importante: la torbidità è dovuta per la maggior parte a proteine (malti), polifenoli (malti e luppolo) e altri composti del luppolo (principalmente resine tra cui alfa e beta acidi, anche di questo ne parleremo nel seguito).

Maye conclude quindi che il principale responsabile della torbidità nelle NEIPA è il legame che le proteine molto solubili (non tutte, attenzione, perché quelle più pesanti precipitano) formano con i polifenoli rilasciati in soluzione da luppolo e cereali. Singolarmente queste proteine sono molto piccole e non visibili a occhio nudo, ma quando si legano ai polifenoli formano una haze più o meno permanente (dopo qualche mese tende comunque a precipitare riducendo notevolmente la torbidità). La torbidità è così importante in questo stile di birra non tanto per arrotondare il famoso mouthfeel, ma soprattutto perché proteine e polifenoli mantengono in soluzione molti composti del luppolo che altrimenti precipiterebbero per la loro bassa solubilità (alfa-acidi non isomerizzati, umolinone, beta acidi, mircene e altri). Come vedremo nel seguito, sono proprio questi composti i maggiori responsabili della diversa percezione dell’amaro delle NEIPA rispetto alle classiche IPA: più morbido, meno pungente, meno persistente.

Raggiungere il giusto livello di torbidità è un’arte che non si riduce all’utilizzo sconsiderato di cereali molto proteici come grano non maltato. La tipologia e la quantità delle proteine introdotte con i malti è fondamentale: se troppo grandi o in concentrazione eccessiva precipitano facilmente durante il processo di produzione (ammostamento, bollitura, fermentazione). Come spesso accade, “di più” non è sempre meglio. Maye fa riferimento a una specifica tipologia di proteine, le prolamine, particolarmente solubili ed efficaci nella formazione di haze.

Scegliere i cereali

Da quando abbiamo iniziato a fare birra, ci è stato ripetuto incessantemente che le proteine generano torbidità. Grano e avena vengono da sempre additati come i cereali a maggiore contenuto proteico, specialmente rispetto all’orzo, da usare con parsimonia se non si vuole intorbidire la birra. Tutto vero in linea di massima, ma la questione merita qualche approfondimento.

Le proteine contenute nei cerali sono di moltissime tipologie (cfr. “Protein changes during malting and brewing with focus on haze and foam formation”) e variano per proprietà fisiche e struttura molecolare (anche in termini di grandezza). Alcune sono maggiormente solubili, altre meno. Quelle più grandi, spesso visibili a occhio nudo, tendono a precipitare durante ammostamento e bollitura; se riescono ad arrivare al fermentatore, precipitano a fine fermentazione insieme al lievito. Solo le proteine più solubili e più piccole, spesso non visibili a occhio nudo, rimangono in sospensione. Da sole non generano torbidità, ma quando si legano ai polifenoli formano dei composti che intrappolano la luce rendendo la birra torbida.

I legami che queste proteine formano con i polifenoli possono essere temporanei e generare chill haze, la quale si manifesta solo quando la birra raggiunge gli zero gradi; oppure essere permanenti, producendo torbidità più stabile, anche alla temperatura di servizio o a caldo. Se le proteine sono troppo grandi, precipitano sul fondo. Se sono piccole ma sono troppe, tendono ad aggregarsi e a precipitare comunque sul fondo. Vi siete mai chiesti perché la vostra Blanche è venuta limpida nonostante la grande quantità di grano non maltato usata in ricetta? La ragione si nasconde probabilmente nella natura delle proteine. Il grano non maltato contiene proteine a catena lunga, meno solubili e più pesanti: capita che dopo poco tempo precipitino fuori dalla soluzione lasciando la birra limpida.

Maye suggerisce di guardare a una specifica classe di proteine, le prolamine. La loro concentrazione varia notevolmente in relazione alla tipologia di cereale, in quanto costituiscono solo una parte delle tante tipologie di proteine che esso contiene. Integrando le informazioni recuperate da un articolo sul sito della FAO (“The role of high lysine cereals in animal and human nutrition in Asia”) con altre estrapolate dall’articolo di Maye sulle NEIPA, ho ricavato la seguente tabella, a mio avviso molto interessante. L’articolo della FAO è sui cereali prodotti in Asia, ma cercando su varie altre fonti i valori medi delle proteine non variano particolarmente. Esistono ovviamente varietà di orzo con diverso contenuto proteico che è funzione anche della regione in cui l’orzo specifico viene coltivato, ma il senso complessivo del ragionamento rimane invariato e i valori non cambiano moltissimo.

Rielaborazione da: “The role of high lysine cereals in animal and human nutrition in Asia”

Dalla tabella sopra notiamo subito come l’avena sia il cerale con maggior contenuto proteico (mediamente 15% sul peso del chicco) insieme al grano. L’orzo (in questo caso non maltato) non è poi così distante: al quarto posto dopo il sorgo. Tuttavia, per i nostri scopi, ovvero per generare torbidità, non ci interessa tanto il contenuto di proteine in se’, ma quante di queste proteine sono della tipologia classificabile come prolamine. Anche questa percentuale l’ho ottenuta dal sito della FAO, tranne il valore per il grano che Maye riporta come 80% mentre sul sito della FAO è 40%, ma il discorso non cambia granché. Nell’ultima colonna ho espresso in grammi il peso delle prolamine per 1000 grammi di cereale. Come vedete, la situazione cambia notevolmente. Il grano sale al primo posto, con più di cento grammi di prolamine, mentre l’avena balza al penultimo posto, lasciandosi dietro solo il povero riso. L’orzo rimane più o meno stabile.

Il grano è quindi un buon ingrediente per generare un livello decente di haze. Però Maye ci dice ancora di più: meglio il grano maltato, perché dovrebbe avere una percentuale più alta di proteine a catena corta, maggiormente solubili, che resistono in soluzione anche dopo la fermentazione.

Perché allora tanti produttori di NEIPA scelgono l’avena se ha così poca proteina solubile? La risposta che mi sono dato è che in questo caso entra in gioco un altro fattore: i beta-glucani. Questi non sono proteine ma carboidrati a catena molto lunga, dalla consistenza gommosa. Conferiscono rotondità e setosità al mouthfeel della birra ed è questo probabilmente il motivo per cui l’avena è così utilizzata per produrre questo stile. In molte ricette di NEIPA l’avena viene affiancata da grano (a volte anche da sorgo e segale) proprio per sopperire al suo scarso contributo di prolamine. I beta-glucani li troviamo nella colonna dei carboidrati del primo grafico in alto (quello che pesa per l’11% sul totale) e non in quella delle proteine.

Cosa fare, nella pratica? Un buon compromesso può essere quindi quello di usare avena maltata e grano maltato, entrambi in quantità non esagerate per evitare di creare aggregati proteici troppo grandi che renderebbero la torbidità instabile. Magari più avena che grano, per aumentare la concentrazione di beta-glucani senza esagerare con le prolamine. Direi un totale del 20-40%: magari 20% di avena maltata e 15% di grano maltato, o giù di lì. Per il resto del grist sceglierei semplicemente un malto molto chiaro, Pilsner o Pale, per evitare l’effetto “acqua di fogna” quando, inevitabilmente, la birra si scurirà un po’. Qualcuno aggiunge malto destrinico tipo Carapils per sostenere il corpo, ma con una buona percentuale di avena e un ammostamento a temperatura non troppo bassa secondo me si può tranquillamente evitare.

Ripensare gli IBU

Eccoci arrivati al punto più critico ma anche all’aspetto tecnicamente più interessante delle New England IPA: la luppolatura. Leggendo commenti e ricette in giro, mi sono reso conto che in molti, moltissimi, affrontano questo aspetto con un approccio “datato”. Per quanto ho avuto modo di approfondire, la ricerca scientifica non ha ancora elaborato risposte univoche e modelli matematici stabili per governare la luppolatura di queste birre. Molto c’è ancora da scoprire e studiare, ma una cosa è certa: concepire ricette di NEIPA seguendo il vecchio concetto di gettate e di IBU porta fuori strada. Bisogna sganciarsi dalle vecchie abitudini, ragionare diversamente e lasciare spazio all’imprevisto e alla sperimentazione. Quando le quantità di luppolo si fanno esasperate, i vecchi modelli non funzionano più. Ma andiamo per gradi.

La prima illuminazione mi venne leggendo un post dal blog di Scott Janish (link), dove racconta come il metodo classico di misurazione e quantificazione del livello di amaro nella birra (gli IBU) diventa particolarmente inefficace in birre pesantemente luppolate. Gli IBU, determinati tramite cromatografia, misurano infatti la concentrazione delle molecole che generano amaro disciolte in una soluzione, senza distinguere il tipo di molecola. La scala è semplice: 1 ppm = 1 IBU, ovvero ogni molecola disciolta e misurata apporta un amaro pari a una unità. Ma quali sono questi composti che apportano amaro? Gli alfa acidi isomerizzati, direte voi. Sì e no, vediamo perché.

Non ho riportato i beta acidi perché nel breve periodo non generano amaro (1 ppm = 0 IBU)

Secondo i modelli classici, solamente gli alfa acidi isomerizzati (iso-alfa acidi) contribuiscono all’amaro nella birra. Questi derivano dalla isomerizzazione degli alfa acidi indotta tramite la bollitura del mosto. La ragione è semplice: gli alfa acidi non sono molecole polari, quindi sono scarsamente solubili in acqua (e nella birra). Quando isomerizzano cambiano struttura molecolare, trasformandosi in molecole polari, maggiormente solubili e con un maggiore potere amaricante. Grazie alla loro polarità, gli iso-alfa acidi rimangono facilmente in soluzione. In una birra in cui non è stato fatto dry hopping (o ne è stato fatto poco, secondo i metodi standard), gli iso-alfa acidi sono praticamente gli unici composti amaricanti in sospensione. Misurando gli IBU si misura di fatto la concentrazione di iso-alfa acidi: 30 ppm di iso-alfa acidi corrispondo a 30 IBU. Facile.

Scott Janish nel suo post ci spiega però che il luppolo contiene anche altre molecole polari: gli umolinoni. Queste molecole derivano dall’ossidazione degli alfa acidi che avviene in parte durante l’asciugatura dei coni e la pellettizzazione, in parte durante la bollitura e addirittura nella birra finita (non parliamo ovviamente dell’ossidazione che distrugge il luppolo, ma di piccola micro ossidazione). Mentre gli alfa acidi, non polari e non solubili, sono presenti nel luppolo in quantità significativa (dal 2-3% nei luppoli nobili fino al 20% nei luppoli da amaro), la concentrazione degli umolinoni è bassissima: parliamo di meno dello 0,1%, il che rende il loro contributo agli IBU complessivi piuttosto trascurabile, anche perché hanno un potere amaricante pari al 66% degli iso-alfa acidi.

La questione cambia quando si praticano massicce luppolature a freddo: in questo caso, anche quel piccolo 0,1% di umolinoni può diventare significativo. Un dry hopping massiccio porta in soluzione molti umolinoni, che a volte vanno addirittura a scalzare gli iso-alfa acidi. Ecco allora che la classica misura degli IBU può perdere di significato. Inoltre, la sensazione di amaro generata dagli umolinoni è ben diversa da quella prodotta dagli iso-alfa acidi: più rotonda, meno persistente, meno tagliente. Guarda caso, questa descrizione corrisponde al classico profilo dell’amaro da NEIPA. Ed in effetti è così.

Ma torniamo al podcast di Maye. Il suo gruppo di ricerca ha analizzato la percentuale delle resine amaricanti presenti nelle 12 NEIPA di cui sopra, confrontando questi valori con quelli che mediamente si trovano nelle classiche West Coast IPA. Una nuova tecnica di misura, la HPLC (High Performance Liquid Cromatography) permette di discerne i diversi componenti amaricanti. Diventa quindi possibile attribuire a ciascuno il proprio livello di amaro: 1 per gli iso-alfa acidi, 0.1 per gli alfa acidi e 0.66 per gli umolinoni.

Indovinate un po’? Nelle NEIPA la concentrazione di umolinoni, alfa acidi e beta acidi (non isomerizzati) è nettamente maggiore, mentre è minore quella degli iso-alfa acidi. Come è possibile una presenza così massiccia di composti amaricanti anche non solubili, come gli alfa acidi non isomerizzati?

Rielaborazione grafica da:
Hidden Secrets of the New England IPA (MBAA TQ vol. 55, no. 4, 2018, pp. 88–92)

La risposta è sempre la stessa: haze. La torbidità si conferma quindi un elemento essenziale per mantenere in soluzione composti non solubili, contribuendo alla sensazione palatale caratteristica delle NEIPA.

Se proviamo a ricalcolare gli IBU medi delle NEIPA analizzate da Maye secondo il peso amaricante di ciascuno dei singoli componenti (rilevato tramite HPLC), otteniamo un valore molto diverso per gli IBU rispetto a quello che si otterrebbe con una “semplice” misura cromatografica: 42 IBU contro 85 IBU.

Gli umolinoni generano anche un altro effetto (link): in birre con molti IBU in partenza (orientativamente superiori a 40) tendono a sostituire gli iso-alfa acidi in soluzione, riducendo l’amaro. In birre con pochi iso-alfa acidi in partenza (orientativamente sotto i 10-15 IBU) gli umolinoni si affiancano agli iso-alfa acidi aumentando l’amaro. Questo è quello che avviene solitamente nelle NEIPA, luppolate prevalentemente durante il whirpool a temperature inferiori agli 80°C proprio per ridurre l’isomerizzazione degli alfa acidi.

Iniziamo quindi a capire perché i classici modelli per il calcolo degli IBU diventano poco affidabili e accurati nel caso delle NEIPA: alfa acidi, iso-alfa acidi e umolinoni concorrono insieme alla generazione dell’amaro, riducendo notevolmente l’utilità degli IBU misurati tramite il classico metodo cromatografico che abbiamo imparato a conoscere.

Ultima nota interessante: sebbene forniscano un amaro trascurabile, gli alfa acidi non isomerizzati sono dei potentissimi antiossidanti. Rimanendo in soluzione possono aiutare a limitare gli effetti negativi dell’ossigeno molecolare disciolto e quindi contenere l’imbrunimento del colore e il decadimento della carica luppolata.

Cosa fare, nella pratica? Ammetto che tutto ciò è molto complicato, ma a mio avviso il fascino di questo nuovo stile è proprio questo: apre nuovi e inaspettati mondi. Non so bene cosa bisogna fare, ma vi dico cosa farei (e probabilmente farò) io. Non aggiungerò luppolo in bollitura, per produrre una birra con 0 IBU “classici” e lasciare spazio all’amaricatura da parte dei composti “alternativi”. Farò una gettata da circa 10 g/L (litri a fine bollitura) con hopstand di 15 minuti dopo aver abbassato la temperatura del mosto a 75°C gradi, rimescolando di tanto in tanto per facilitare la sospensione di oli e resine (sono diffidente verso il whirpool casalingo perché con i nostri sistemi è difficile farne uno decente). Così facendo dovrei portare nel fermentatore una birra amara ma quasi priva di iso-alfa acidi. Il dry hopping farà il resto e vedremo cosa succede.

Nella prossima puntata

Sappiate che se avete letto fin qui vi stimo molto. Moltissimo. Interrompo, lasciando alla prossima puntata l’approfondimento su luppolatura da aroma, lievito e acqua. Commenti, esperienze, osservazioni sono i benvenuti!

Link alla seconda parte dell’articolo: click here

33 COMMENTS

  1. I miei complimenti. Cheapeaux davvero.
    (poi se metti in pratica vogliamo la ricetta che potrebbe uscire da questi studi!)

  2. Bellissimo articolo. Ti faccio i miei complimenti per la chiarezza espositiva e la facilità di lettura che rendi anche per argomenti complicati.
    Aspetto impaziente la seconda parte.

  3. Io mi sono perso un poco ai 100 ibu che sono 100 ibu e 100 ibu che sono 66 ibu, ma l’ho letto davvero di corsa e prometto di rileggerlo con un attimo più di calma 😉
    Per quanto riguarda l’attenuazione, pensi di puntare ad attenuare di meno per far emergere di più lo stesso quantitativo di amaro?

    • Devo riformulare quella frase, hai ragione. Lo stavo pensando poco fa. Per quanto riguarda l’attenuazione, riflessioni rimandate alla prossima puntata!

  4. Molto interessante! Oltre a quello che c’è scritto ho anche capito come mai alcune birre mal riuscite sembravano meno amare (oltre che buone) dopo un dry hopping esagerato!

  5. Articolo pazzesco, complimenti davvero.
    Vorrei fare delle considerazioni che probabilmente confermano quanto hai scritto. Quando scrivo le ricette delle mie luppolate ormai ho uno standard fisso. Nessuna gettata prima dei 15 minuti. Faccio in modo tale da avere una estrazione di amaro in bollitura che porta il rapporto BU:GU a 0,50 e poi con una massiccia hopstand di 10/15 minuti a 90°C raggiungo un amaro consono. In questi calcoli considero poi anche l’amaro portato dal DryHop. Con questi accorgimenti le mie birre luppolate ,a mio modo di vedere, risultano avere un amaro meno tagliente e più elegante ma sempre consono allo stile. La facilità di beva poi si amplifica drasticamente.
    Infine, per confermare uno degli ultimi passaggi dell’articolo, da quando adotto questa tecnica l’ossidazione visiva si è quasi annullata. Ho stappato birre luppolate con 5 mesi alle spalle e il colore era ancora quello iniziale ( a differenza dell’aroma e del sapore).
    Detto questo, grande Frank.

      • Ahahahah…dunque a quando la fase alterna per una weiss/weizen allora?
        Ovviamente scherzo, mi permetto di commentare scherzosamente, non certo di giudicare. 😉
        Il mio amico in Australia di cui ti raccontavo, mi dice spesso che non ne può proprio più di fare ste birre (fanno anche conto terzi), la sua definizione a questo (pseudo) nuovo stile qua non posso proprio scriverla…ma diciamo che non e lusinghiera ecco.
        Io non ne ho mai nemmeno assaggiata una in vita mia, fai tu.
        Buon divertimento comunque. 😉

          • L’ho compreso, articolo e ben esaustivo al riguardo. 😉
            Avevo già letto qualcosina quando uscirono primi esemplari, cos’era un paio di anni fa forse?
            Con chiaccherate virtuali con mio amico, mi sono ulteriormente fatto un idea di massima.
            Ma la cosa in se a me ad essere sincero non interessa gran che ora come ora, ma comprendo e conosco la tua sete di sapere, di info, dati e controprove, dunque fai benissimo. 🙂
            Anche se ammetto che mi hai spiazzato un po’…ahahahah

  6. Ottimo approfondimento! Da tenere sempre sottomano per l’utilizzo delle nozioni apprese anche in altri stili.
    Grazie

  7. Ottimo come sempre! Ti segnalo ( nel caso te lo fossi perso) un riferimento interessate al riguardo, nella puntata n 123 del podcast mbaa, in cui si fa riferimento al fatto che le aggiunte in kettle (di luppolo) possano interagire negativamente sulla stabilità dell’haze.

  8. Grande articolo, tanto per cambiare, da leggere e rileggere e che insegna molto non solo per brassare delle NEIPA, grazie Frank per ciò che condividi e per il modo in cui esponi gli argomenti che sono frutto di uno studio ed una ricerca piuttosto difficile. Grazie ancora ed a presto su questi schermi per scavando net torbido 2. 🙏🍻

  9. grande Frank, aspetto il post con la ricetta..

    p.s. a margine, trovata da Johnny Off License a Roma in via Veio una latta da mezzo litro della Panoptic di La Pirata (birrificio spagnolo): favolosa! probabilmente non avendo fatto viaggi lunghi era piuttosto in forma…

  10. Grande Frank, bell’articolo da leggere tutto d’un fiato. Complimenti.
    Aspetto il seguito con impazienza.

  11. Altro articolo molto interessante, l’ho letto avidamente. Una parte però non mi è chiarissima. Ad un certo punto accenni al metodo tradizionale di analisi dell’amaro nella birra, e al fatto che non faccia differenza tra le diverse molecole responsabili dell’amaro. Tu parli a riguardo di un metodo cromatografico. Non sono quindi sicuro che parliamo dello stesso metodo, ma che io sappia quello tradizionale è il metodo EBC 9.8, che consiste in un’estrazione con solvente seguita da misura spettrofotometrica. Il suo limite e la sua non specificità sono dati appunto dal fatto che sia l’estrazione che la lettura non sono specifiche solo per gli iso-alfa acidi ma anche per altre molecole (tra cui alcune non derivanti neppure dai luppoli). Tuttavia permette di esprimere un valore di IBU che è (per birre “tradizionali”) abbastanza correlato con metodi più accurati (come appunto il metodo con HPLC, che è invece una tecnica cromatografica e permette la separazione e l’identificazione dei diversi composti).
    Ergo, se come “metodo tradizionale” intendi quello, occhio che non si tratta di una tecnica cromatografica, ma spettrofotometrica. Infatti essa dà un semplice risultato in IBU, senza dare alcuna informazione specifica su apporto di alfa acidi, iso alfa acidi, beta-acidi, etc etc.
    Infine, non sono sicuro che il metodo “tradizionale” dia come risultato in IBU la semplice somma di iso-alfa-acidi, alfa-acidi, umulinoni e beta-acidi riscontrati con HPLC (come traspare dal confronto finale tra ipotetica misura “tradizionale” per una NEIPA e HPLC “pesata”).
    Però mi hai incuriosito, quindi appena potrò vedrò di procurarmi una NEIPA e fare qualche analisi a riguardo e vedere cosa salta fuori

    • Sì, il metodo classico è quello che dici t. Non essendo un esperto in materia, non riesco sempre ad essere preciso al 100% con i termini 🙂 Grazie per la correzione. Per quanto riguarda la somma degli IBU per i vari composti, le ricerche riportate da Scott Janish (scottjanish.com) portano in quella direzione. Possibile che sia una approssimazione, non saprei. Ma il senso generale e gli effetti rimangono.

      • Figurati, i tuoi articoli sono comunque sempre molto ben fatti e completi. Complimenti ancora per il blog

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