Era un po’ che dovevamo fare questa cena. Simone finalmente trova il tempo, prende la carne per gli hamburger al supermercato e mi invita da lui. La birra la porto io, gli dico, perché delle sue preferenze in campo birraio non mi fido ancora granché.
Gran bravo ragazzo, Simone, però: oh.
Mi presento alle nove e mezza con una “Zona Cesarini” del birrificio Toccalmatto (un concentrato di luppolo nipponico che già avevo assaggiato e gradito) e una “Surfing Hop”, sempre del Toccalmatto, che mi riservavo di assaggiare quella sera con lui.
Non avevo molte altre idee in testa, oltre alla voglia di raccontarci le nostre solite elucubrazioni tecnico/sentimentali e sognare viaggi in Islanda.
Si inizia a bere (c’era anche l’amico Panzone a cena) e i discorsi si fanno confusi, mentre il buon Simone palleggia gli hamburger sulla padella con la solita lentezza che lo caratterizza (lentezza che lui ama piuttosto definire “attenzione ai dettagli”, vabbè).
A questo punto ci viene l’idea. Mentre mi metto a criticare la Surfing Hop, che mi pare eccessivamente dolciastra o fruttata o qualsiasi diavolo di aggettivo in grado di descrivere la sensazione che si prova a succhiare un attaccapanni ricoperto di marmellata d’arance, Simone mi fa: e facciamola noi la birra, lanciamo una startup.
Io lo guardo, ripenso a tutti gli anni passati a bere Forstainer (ovvero Warsteiner con residui di Forst nell’impianto di spillatura del buon publican italo/libanese Jerry) e gli rispondo: lo sai che ti dico? Facciamola sta cosa.
Da lì tutto procede caotico, in un equilibrio sempre precario tra la mia frenesia isterica e la cosiddetta “attenzione ai dettagli” di Simone.