Con l’assaggio di oggi tendiamo un ponte virtuale tra un birrificio fondato nel 2016 in Italia da due amici, Francesco e Manuel, e uno stile che intreccia i destini di altri due amici, Anton e Gabriel, circa 200 anni prima. I primi sono i fondatori del birrificio marchigiano Godog (da leggersi con l’accento sulla seconda “O”, per farlo suonare come un incitamento: Go Dog!); i secondi, erano due giovani appartenenti a famiglie birrarie d’eccellenza che hanno fatto storia: Anton Dreher, dell’omonima Dreher, con base a Vienna, e Gabriel Sedlmayr, della dinastia Spaten, con base a Monaco.
Francesco Campomagi e Manuel Piergiorgi iniziano, come molti, con i kit casalinghi. Quando decidono di spostare la produzione in birrificio, partono con le idee chiare e acquistano da subito un impianto isobarico. Questo approccio alla produzione è tipico della scuola tedesca e ben si adatta allo stile Vienna Lager, che andremo ad assaggiare oggi. Ma la scuola tedesca, divenuta famosa nel mondo per le fermentazioni a bassa temperatura – la famose lager che dalla fine del 900 invasero il mondo – deve molto ai birrai inglesi. Fu proprio durante un viaggio a Londra, intorno al 1820, che Dreher e Sedlmayr carpirono i segreti dei birrai d’oltremanica. La rivoluzione industriale aveva introdotto nuova tecnologia nel processo di produzione della birra a Londra, tra cui una speciale tecnica per l’asciugatura del malto senza contatto diretto con la fiamma: questo ne evitatava l’imbrunimento e permetteva di produrre birre più chiare senza spunti affumicati. Fu proprio in Inghilterra che vennero prodotte le prime birre dorate, impiegando i nuovi malti asciugati con getto di aria calda. Dreher e Sedlmayr tornarono nelle rispettive città, Vienna e Monaco, e per alcuni anni cercano di replicare quello che i maltatori inglesi facevano a Londra. Fino a quel periodo, siamo agli inizi del 1800, tutte le basse fermentazioni tedesche erano più o meno scure, perché l’asciugatura dei malti a fuoco diretto dopo la fase di germinazione li imbruniva inevitabilmente.
I due compagni di viaggio iniziarono a sperimentare quanto appreso a Londra nei propri birrifici. Nacquero così le Vienna Lager, prodotte a Vienna con il nuovo malto “Vienna” (grande fantasia nei nomi) e le Märzen, prodotte a Monaco con il nuovo malto “Monaco”, leggermente più tostato del malto Vienna. La Märzen prodotta a Monaco dalla Spaten divenne poi la prima birra ufficiale dell’Oktoberfest, ragion per cui spesso lo stile viene indicato con il nome di Märzen/Oktoberfest. Oggi le birre dell’Oktoberfest non sono nemmeno più Märzen, ma piuttosto delle simil-Helles (più bevibili a litrate, più consumo, più soldi).
Il nome Märzen fa riferimento anche a un processo produttivo che esisteva in Baviera ben prima del nuovo malto introdotto da Sedlmayr. Correva infatti l’anno 1553 quando, con un decreto, Alberto V vietò di produrre birra nel periodo caldo, nello specifico dal 23 Aprile al 29 Settembre. Con il caldo era infatti difficile evitare la contaminazione da parte di batteri e lieviti selvaggi, che rendeva molte birre imbevibili. Da qui l’appellativo “Märzen”, per indicare birre prodotte a ridosso del periodo di blocco delle attività, lasciate maturare nelle fredde caverne sotto le colline e bevute qualche mese dopo (generalmente a Ottobre). Ma le Märzen, per come le intendiamo oggi, ambrate e solitamente prodotte con una buona dose del malto Monaco creato da Sedlmayr, sono quelle nate nel’800.
Il BJCP, che amo citare come riferimento per la caratterizzazione degli stili, inserisce le Vienna Lager nella categoria delle “lager ambrate europee amare”, mentre le Märzen le troviamo nella categoria “lager ambrate europee maltate”. Come macro generalizzazione ci sta, anche se entrambe le birre sono ovviamente incentrate sul malto. Ma le Vienna sono mediamente meno alcoliche, meno maltate, più secche e amare delle sorelle Märzen. Dove il BJCP non eccelle nel caso delle Vienna Lager, è nella descrizione degli aromi e del flavour: non andiamo oltre a descrittori generici come “caramello”, “tostato” e “maltato”, con uno sforzo descrittivo non proprio entusiasmante.
Basta chiacchiere, è arrivato il momento di stappare questa “Say Goodbye To Vienna”.
La birra scende nel bicchiere con una bella schiuma bianca. Inizialmente forma bolle medio grandi che si compattano molto bene se la birra viene versata nei giusti tempi. È limpidissima, di un suadente colore ambrato chiaro. L’aroma è mediamente intenso, con note di caramello (ma va!?) che arrivano subito al naso. Il bouquet si apre poi su sfumature di miele di acacia e tonalità agrumate e tostate che ricordano una crostata con marmellata di arancia. Mi tornano in mente i lecca-lecca di zucchero che facevo con mia mamma da piccolo e che noi chiamavamo “zucchero d’orzo”. Il caramello è di quel tipo lì: secco, preciso, cristallino, non dolce e corposo come il toffee. Chiudono lo spettro olfattivo note erbacee con un leggero spunto speziato. Al palato è decisamente scorrevole, con il caramello che si mette da parte per lasciar spazio, nel retrogusto, a piacevoli note di frutta secca a guscio come noce e nocciola. Fanno capolino nella corsa palatale venature di biscotto e crosta di pane, chiudendo con una secchezza esemplare, un filo astringente ma con accezione piacevole, di pulizia. L’amaro bilancia ma non disturba, l’alcol è morbido e non si sente. Nonostante la base maltata e la connotazione dolciastra, se ne possono bere diverse senza stancarsi.
A mio avviso una gran bella Vienna Lager questa di Godog. Un birrificio un po’ fuori dall’hype social che produce esempi di stile veramente centrati con la bevibilità sempre al centro. A questo proposito consiglio di assaggiare anche la Extra Special Bitter, che ha colpito il mio animo anglosassone.