Questo 2020 merita una chiusura con un post d’eccezione. Erano mesi – due, per essere precisi – che giravo intorno alla recensione di questa birra, imbottigliata a fine Ottobre. Ho voluto attendere un po’ più del solito per assaggiarla diverse volte e ragionarci un po’ su. È una birra strana, una delle diverse birre sperimentali che ho prodotto quest’anno tra sour saison con Philly Sour, birre con Kveik, addirittura una Flanders Red che è ancora in fermentazione. Tra tutte, questa Raw Ale è senza dubbio la più estrema. Almeno per i miei standard, che sono sempre piuttosto fedeli agli stili e alle birre più convenzionali.

Estrema non per contenuto alcolico o per tipologia di fermentazione, che rientrano nella normalità. È estrema in parte per il processo produttivo, che salta completamente la bollitura del mosto, ma soprattutto per l’impatto che questo particolare approccio ha prodotto nel profilo organolettico. L’ispirazione è alle farmhouse lituane, che ho avuto occasione di assaggiare in un breve soggiorno a Vilnius un paio di anni fa. Atmosfera e storia affascinanti, molto. Le birre? Mmh, non è che mi abbiano proprio entusiasmato (preciso che ne ho assaggiate solo un paio in città, non sono potuto andare in giro per fattorie). Del resto, come dice Lars Garshol nel suo bellissimo libro “Historical Brewing Techniques“, queste birre tradizionali del Nord Europa hanno caratteristiche organolettiche del tutto nuove per chi è abituato a bere altro, come me. Come molti di noi.

Ho voluto quindi ragionarci un po’ su. Assaggiarla diverse volte. Prendermi il giusto tempo prima di raccontarla. Ed eccoci qua.

COS’È UNA RAW ALE?

Raw Ale significa semplicemente “birra cruda”. Nel mondo delle birre industriali, l’aggettivo cruda si riferisce spesso all’assenza di pastorizzazione. Viene usato per invogliare l’ignaro consumatore all’acquisto, alludendo a un prodotto più genuino. La pastorizzazione è infatti un processo tipico dell’industria, volto a prolungare la stabilità microbiologica del prodotto. Purtroppo ne altera, a volte in maniera significativa, le caratteristiche organolettiche, rendendolo meno interessante. Basta pensare alla differenza tra il latte appena munto, quello a scadenza standard e quello pastorizzato (UHT) a lunga conservazione: sono tre prodotti completamente differenti. Stesso discorso vale per la birra, anche se la pastorizzazione veloce, se fatta bene, può non influire in modo significativo in certi casi. C’è da dire che le birre industriali, anche nella versione cruda, non sono generalmente molto diverse dalla versione pastorizzata. Il problema, in quel caso, è altrove. Ma questa è un’altra storia.

Nel campo delle produzioni artigianali, per birra cruda si intende altro, visto che la quasi totalità delle birre definite artigianali non viene pastorizzata (in Italia non si può definire artigianale una birra pastorizzata, ma in altri paesi sì). Nel nostro mondo, quello delle birre craft, in genere per birra cruda si intende birra prodotta saltando la fase di bollitura. La maggior parte delle farmhouse del Nord Europa non viene bollita, come le Kornol Norvegesi, le Kamiskas lituane e il Keptinis, sempre lituano, che prevede però un passaggio del mash in forno. Lars Garshol concede fino a un quarto d’ora di bollitura alle Raw Ales, ma in molti casi la si salta del tutto.

Non bollire porta necessariamente degli inconvenienti. Anzitutto è impossibile amaricare la birra con il metodo classico, ovvero aggiungendo luppolo in boil. Si può aggiungere in ammostamento, ma le temperature modeste rendono lentissima e poco efficiente l’isomerizzazione degli alfa acidi. In alcuni casi si preleva un po’ di mosto in cui si fa bollire il luppolo per una decina di minuti per poi aggiungerlo prima del raffreddamento; oppure si fa un hop tea (tè di luppolo) con acqua seguendo la stessa logica (io ho optato per questa seconda tecnica). C’è da dire che nel Nord Europa si usano molto i rami di ginepro durante mash e sparge, a volte sufficienti per conferire un bilanciamento amaro al mosto senza aggiunta di luppolo.

C’è poi il problema del DMS, che si inizia a formare dal precursore SMM quando la temperatura del mosto sale oltre gli 80-90°C, per poi dissiparsi con la bollitura. Anche a questo si può ovviare: se si tiene il mosto sotto gli 80°C, l’SMM non si converte in DMS e non c’è bisogno della bollitura per farlo evaporare.

Senza bollitura si riduce la coagulazione delle proteine. Attenzione: si riduce, ma non si elimina del tutto. Molte proteine, in particolare quelle insolubili in acqua come le prolamine (abbondanti in orzo e grano), precipitano già durante l’ammostamento. Una buona filtrazione in questa fase (con la classica procedura di sparge) garantisce una decente rimozione delle proteine. Un po’ rimangono nella birra, ma una concentrazione proteica superiore allo standard fa parte di questo tipo di birre. Non aiutano certo la stabilità della birra nel tempo, ma poco importa: queste birre sono nate per il consumo locale e per essere consumate in breve tempo.

Infine, ma non meno importante, le contaminazioni. Saltando la bollitura non si sterilizza il mosto, questo è noto. Tuttavia, se si conduce un mash a temperature abbastanza alte e poi si passa per il mashout (che dura almeno 15 minuti, senza contare il successivo sparge che avviene più o meno alla stessa temperatura, intorno agli 80°C) il mosto viene pastorizzato in modo significativo. I lieviti selvaggi li facciamo secchi sicuramente, qualche batterio termofilo potrebbe sopravvivere ma è difficile che faccia grandi danni. Un’ora e passa di pastorizzazione sopra i 70°C ne riducono fortemente la vitalità. Ci penserà poi il nostro lievito a rubargli tutto il cibo dalla tavola prima che possa nutrirsi e moltiplicarsi.

dal blog di Lars Marius Garshol: https://www.garshol.priv.no/blog/267.html

RICETTA

Per questa ricetta mi sono ispirato alle Kamiskas lituane, di cui l’esempio più noto è la birra prodotta da Jovaru Alus. Aldona Udriene, l’attuale birraia, utilizza un metodo di produzione tramandato da generazioni. Il lievito della casa è stato recentemente concesso in licenza agli americani della Omega Yeast, che lo commercializzano come JovaruLithuanian Farmhouse (OYL-033). In Italia i lieviti Omega Yeast si possono acquistare da Pinta.it.

Quando sono stato in Lituania non sono riuscito ad andare alla fattoria Jovaru, ma ho bevuto un paio di Kamiskas girando per i pub di Vilnius (almeno così credo di aver capito all’epoca 🙂 ). Non ne rimasi entusiasta, ma quei nuovi aromi e sapori mi incuriosirono molto così come le modalità di produzione tramandate da generazioni.

Per formulare la ricetta ho preso ispirazione dal libro di Garshol mettendoci un po’ di fantasia. Rami di ginepro non se ne trovano qui a Roma, quindi ho optato per il tè di luppolo. Ho fatto bollire i pellet in un po’ di acqua che poi ho aggiunto allo sparge per usare il letto di trebbie come filtro per fermare i residui di pellet. Gli IBU li ho stimati simulando al calcolatore una bollitura con acqua (densità 1.000) sul volume totale che avrei avuto a fine mash. Ho poi fatto bollire i pellet in un paio di litri di acqua, ottenendo una soluzione amarissima che si è successivamente diluita sull’intero volume del mosto. Sembra aver funzionato.

Nel grist ho usato segale e grano per un tocco “rustico”, insieme al Vienna e a un filo di malto Amber per ottenere un colore ambrato. Per la base avevo del malto Extra Pale della Pauls, ho usato quello.

Durante la produzione, ho seguito il processo standard fino alla bollitura: ammostamento (nella parte alta del range per rendere più efficace la pastorizzazione del mosto), mashout, sparge. Alla fine dello sparge, invece di accendere la resistenza della pentola della bollitura, ho inserito la serpentina (opportunamente sanitizzata) e ho raffreddato. Il mosto non è mai andato sopra agli 80°C.

FERMENTAZIONE

Non si trovano ancora molte informazioni su questo lievito. Si tratta di un diastaticus, quindi molto attenuante, simile ai ceppi saison. È uno dei pochi ceppi di lievito del Nord Europa in grado di produrre fenoli speziati (i lieviti kveik non ne producono). In genere, quando non conosco bene il comportamento di un lievito, preferisco tenermi basso. Trattandosi di un esperimento, ho preferito osare da subito.

Partito da 27°C, poi alzato a 28°C dopo due giorni. Al quarto giorno di fermentazione la densità era già a 1.008, che poi si è rivelata essere la FG. Avrei potuto fare un cold crash più breve (non aveva senso pulire troppo la birra) ma non ho trovato il tempo per imbottigliare prima di qualche giorno.

Come sempre ho aggiunto lievito da rifermentazione (anche se non credo ce ne fosse bisogno). Avendo usato un ceppo fenolico per la fermentazione, ho usato il T58 (0,03 gr/L) per la rifermentazione in bottiglia.

 

ASSAGGIO

Ho assaggiato la birra diverse volte prima di scrivere questa recensione. La cosa incredibile è che a volte mi piaceva, altre meno. Se siete curiosi, un assaggio in diretta lo trovate nella prima puntata di MashOut! Podcast, dove con Daniele parliamo di Raw Ale mentre io bevo proprio questa birra. La bottiglia oggetto di questo assaggio ha due mesi ed è stata tenuta a temperatura ambiente prima di passare in frigo qualche giorno prima dell’assaggio.

 ASPETTO  L’aspetto è bello, decisamente in linea con le attese. Si presenta nel bicchiere con un bel cappello di schiuma bianca, a grana fine, molto persistente. Non ha sovracarbonato per nulla in questi due mesi, segno che il lievito aveva raggiunto davvero la FG dopo 4 giorni di fermentazione. È velata ma non torbida, di un bel colore ambrato. Le prime bottiglie erano più torbide, con il tempo un po’ si è pulita pur rimanendo piuttosto velata, in linea con la tradizione farmhouse delle birre no-boil.  

 AROMA  Qui arrivano le prime stranezze. Mentre nel sottofondo si percepiscono bene le venature fenoliche (pepe nero) e un piacevole fruttato che ricorda l’arancia, il mandarino e il limone, il protagonista dell’aroma è uno strano odore che non è facilissimo descrivere. Rubando il descrittore a Garshol, lo definirei come un odore di piselli; piselli verdi, però, non cotti. C’è anche uno spunto di mais, ma non tipo DMS. Anche in questo caso si avvicina al cereale crudo, al mais della pannocchia, non a quello bollito. Non mi sembra il classico aroma di minestra vegetale o di broccolo che trovo spesso nelle Pilsner Urquell del supermercato e che associo al DMS. In questo caso è più un aroma “green”, vicino alla pianta, al vegetale, non qualcosa di cotto. Mi piace? Mmh, direi di no. Anche se c’è da dire che non è sgradevole. Sicuramente è strano e inusuale.   

 AL PALATO  Al palato si avverte maggiormente il fenolico, che vira più sul chiodo di garofano. L’amaro accompagna la bevuta, con un livello di intensità incredibilmente azzeccato, nonostante l’aggiunta non convenzionale dei pellet insieme all’acqua di sparge. L’amaro bilancia la dorsale maltata di biscotto e crosta di pane. Il fruttato è meno intenso rispetto all’aroma; ricorda nuovamente gli agrumi, soprattutto limone e pompelmo. La corsa gustativa non è lunghissima, si spegne presto, ma il bilanciamento tra le varie componenti è gradevole.

 MOUTHFELL  Corpo medio, me la sarei aspettata più strutturata visto l’alto contenuto proteico. Carbonazione media, azzeccata, che solletica la lingua ma non disturba. Alcol morbidissimo, i sei gradi non si sentono affatto. Nessuna astringenza. 

 CONSIDERAZIONI GENERALI  Complessivamente, lo ritengo un esperimento molto interessante. Non è una birra che mi fa impazzire, ma l’ho fatta assaggiare e nessuno l’ha trovata spiacevole. A qualche amico homebrewer è decisamente piaciuta. Io la trovo un po’ lontana dai miei gusti, non riesco a berne più di una pinta. Il fatto che sia rimasta tutto questo tempo sugli scaffali dello sgabuzzino è un segno evidente della mia posizione nei confronti di questa produzione. Il lievito mi sembra molto interessante, ha degli spunti fenolici delicati al naso e un agrumato estremamente piacevole. Lo vedrei davvero bene in una saison. Come diceva qualcuno: è un pezzo un po’ vecchio dalle mie parti, ma ai vostri figli piacerà. Ecco, diciamo che non sono ancora pronto per questo tipo di birre, ma l’esperienza è stata unica. 

 

9 COMMENTS

  1. Ciao Frank ho al fresco una RAW ale ho utilizzato un infusione di rami di ginepro (20g/L per 4h a 78°/80°) sia per il mash che per lo sparge. Bollire parte dell’infuso con il luppolo si può fare o si estraggono tannini?

  2. Ciao, sempre stimolanti le tue avventure brassicole!
    Dici che sia possibile ipotizzare una birra cruda fatta con il BIAB?
    Come potrei calcolare il rapporto grani acqua?
    Forse mi può aiutare Brewmate impostando a 0 l’evaporazione?
    Se volessi usare un lievito secco? Hai consigli?
    Grazie.

    • Non vedo nessun problema al riguardo. Basta mettere meno acqua inizialmente, esattamente quanta ne sarebbe evaporata con la bollitura.

        • Non esiste un lievito più adatto a una Raw Ale. La birra è caraterizzata dalla non bollitura, il lievito può essere uno qualsiasi. Nelle birre tradizionali del Nord Europa utilizzano di tutto, da s04 ai lieviti kveik, da quelli per il pane al farmhouse di Jovaru.

  3. Ciao, ancora io, come hai sanitizziato la serpentina per il raffreddamento visto che di solito si approfitta della bollitura?
    Starsan?

    Grazie.

  4. Ciao Frank io ho una mezza idea di fare una mini cotta di birra con il bimby…anzi con il mounsier cousine della lidl :-). Pensavo proprio di fare una raw ale e di usare il lievito madre che usa mia moglie per fare il pane…pochissimi litri…

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