Quando si hanno ingredienti da smaltire, le birre più comode per buttarci dentro un po’ di tutto sono quelle scure. Una volta definita la dose dei malti roasted, ci si può infilare sotto più o meno qualsiasi ingrediente (ovviamente in dosi controllate) senza snaturare totalmente lo stile.

In genere lascio confluire le rimanenze in una Porter, stile piuttosto ampio in termini di bilanciamento e profilo organolettico, anche come ABV se si sconfina nelle più alcoliche American Porter (le quali, lo ricordo, non necessariamente richiedono luppolatura americana).

Stavolta però avevo un po’ di avena avanzata e addirittura dei fiocchi d’orzo – che uso solo nelle Irish Stout, in dosi massicce – il che mi ha spinto a indirizzarmi verso una Oatmeal Stout. Prima esperienza con la produzione di questo stile, vediamo cosa è venuto fuori.

LO STILE

Le Oatmeal Stout nascono come variazione “salutare” delle Stout/Porter, intorno alla fine del 1800, in Inghilterra. L’aggiunta di avena deriva dal trend, piuttosto comune all’epoca, che cercava di rendere più salutare una bevanda che di giovevole per la salute aveva ben poco: la birra.

In questo trend rientrano anche le Milk Stout (con aggiunta di lattosio), oggi in UK ridenominate Sweet Stout proprio per non indurre il consumatore al fraintendimento salutista. Lattosio e avena venivano entrambi visti come ingredienti che rendevano queste birre benefiche per la salute, tanto che i birrifici le pubblicizzavano come tali.

Anche la Guinness cavalcò l’ondata della birra scura salutista con i famosi slogan “Guinness is good for you” e altri sulla stessa lunghezza d’onda.

Alcuni tratti organolettici derivanti dalle aggiunte si sono poi consolidati a tal punto da posizionare queste variazioni di birre scure all’interno di cornici stilistiche ben definite.

Delle differenze tra alcuni sottostili di Stout e le Porter ho già parlato ampiamente in un precedente post. In particolare, ho approfondito il profilo organolettico e gli ingredienti di uno degli esempi tipici dello stile, la Oatmeal Stout del birrificio inglese Samuel Smith’s.

Riprendo i diagrammi a ragnatela del post prima citato, dove ho cercato di dare maggiore risalto ai profili aromatici di quattro stili di birre scure: le classiche Porter, le Irish Stout, le Oatmeal Stout e le Sweet Stout. I descrittori e le intensità seguono le indicazioni del BJCP. Certamente non è la bibbia, ma almeno ha fatto uno sforzo per differenziare questi stili al di là della citazione dell’ingrediente speciale di turno.

Premesso che in questo caso non si può chiaramente parlare di differenze nette né di barriere invalicabili tra uno stile e l’altro, le Oatmeal Stout sono forse le birre scure inglesi più vicine alle Irish Stout (o anche alle Extra Stout, leggermente più alcoliche), almeno a livello aromatico. Prevalgono le note di caffè, la complessità è ridotta, a meno di uno spunto, opzionale, di aroma di nocciola nelle Oatmeal Stout; che dovrebbe derivare – almeno secondo il BJCP, ma ho i miei dubbi – dall’utilizzo dell’avena.

La differenza con le Irish Stout è maggiore al palato, dove le Oatmeal presentano un bilanciamento decisamente meno amaro, un corpo mediamente più pieno e la famosa “scorrevolezza” e “setosità” dovute all’utilizzo di avena. Anche qui: sarà vero? Ho i miei dubbi, visto che l’avena è l’ultimo degli ingredienti sull’etichetta della Oatmeal Stout di Samuel Smith’s, indice di una dose di avena molto ridotta anche nell’esempio tipico dello stile.

Proviamo a vedere come ho inserito questi elementi nella ricetta.

RICETTA

Come anticipato nell’introduzione, ho dei seri dubbi che l’avena possa dare, di per sé, un contributo significativo allo stile. Tuttavia, se usata, ha senso impiegarla in dosi significative. Ho messo in ricetta tutta quella che avevo, se ne avessi avuta di più sarei arrivato al 20%-25%. Ho compensato con i fiocchi d’orzo: non sono la stessa cosa, ma anche loro dovrebbero dare una mano alle sensazioni boccali (si usano per questa ragione nelle Irish Stout, ragion per cui ne avevo in dispensa).

A causa dell’avena maltata (che si macina malissimo) e dei fiocchi di orzo (che non vanno macinati), ho perso 5 punti di OG. Inoltre, l’attenuazione non è arrivata al valore atteso, rimanendo qualche punto sopra. La birra, che inizialmente era pensata per arrivare a circa 6% ABV, si è fermata a 4,6 ABV%. Siamo sempre nei limiti dello stile, ma nella parte bassa.

Per il resto ho usato malti scuri fino ad arrivare a un colore che mi sembrasse adeguato scegliendo il Carafa III che avevo in dispensa, e che dovrebbe limitare l’alstringenza, e il malto Chocolate, che – come ormai sanno tutti – non necessariamente apporta aromi di cioccolata ma piuttosto di caffé o cacao amaro. Entrambi hanno una fermentabilità quasi nulla perché contengono zuccheri fortemente tostati e denaturati, quindi tutti i punti di OG finiscono necessariamente nella FG indipendentemente dalla temperatura di ammostamento e del lievito utilizzato (almeno che non si utilizzino lieviti fortemente diastatici, ma non è questo il caso).

Il malto Vienna lo avevo in dispensa, ci può stare per stemperare i toni torrefatti. Probabilmente non apporta un contributo decisivo, ma lo dovevo finire.

Per stemperare, ho aggiunto una buona dose di Crystal, ho tenuto piuttosto basso l’amaro e condotto un mash a temperatura più alta del solito. Cloruri più alti dei solfati, sempre per la stessa ragione. Ho aggiunto anche un po’ di sale da cucina  che alza i cloruri ma anche il sodio, il che il dovrebbe aiutare ad arrotondare il tutto. L’idea era, appunto, di contrastare i tostati e produrre nel complesso una sensazione più morbida al palato rispetto ad una Irish Stout.

Ho usato un lievito neutro. Un po’ di fruttato da fermentazione ci sta sicuramente bene in questo stile, ma ho preferito andare tranquillo con un classico US-05 che ha attenuato però meno del previsto. Lo vedremo dopo.

Nel complesso, un’ottima ricetta svuotadispensa.

FERMENTAZIONE CON SORPRESA

Ormai, a meno di casi eccezionali, evito di misurare la densità mentre la birra fermenta. Per gestire la temperatura, che alzo dopo 3-4 giorni per favorire l’attenuazione, mi baso sull’attività delle bolle che escono dal blow-off: man mano che diminuisce la frequenza, alzo leggermente la temperatura.

Ho fatto la stessa cosa con questa birra, fermentata con il mio fido US-05. Quando però sono andato a misurare la densità, dopo una decina di giorni, sono rimasto sorpreso. La densità era a 1.020 rispetto a 1.014 previsto da Brewfather. Ben 6 punti di FG in più mi hanno davvero spaventato. Che fare? Volevo bere la birra per San Patrizio, non c’era tempo per aspettare ancora. Inoltre, non credo che una ulteriore attesa avrebbe potuto cambiare qualcosa visto che il lievito era fermo da giorni.

Fortunatamente, non avevo intenzione di rifermentare la birra: tenendola sempre in frigo sarei stato comunque al riparo dalla sovracarbonazione. In fin dei conti era buona e ben bilanciata, ho deciso di travasare e andare avanti con la carbonazione forzata (che avevo già fatto in parte, togliendo il blow-off a fine fermentazione).

Come mai ha attenuato così poco? Non so rispondere. Ogni tanto mi capita, l’aspetto curioso è che quando mi capita – di rado – mi succede con le birre scure fermentate con US-05. Mi è successa la stessa identica cosa in occasione del San Patrizio del 2021 con una Irish Stout: non ne ha voluto sapere di attenuare oltre il 61%. Incredibile. In quel caso inoculai anche una intera bustina di M44 West Coast Yeast, ma niente.

Senza dubbio ammostamenti più alti, insieme a dosi massicce di malti scuri, che contengono per la maggior parte zuccheri non fermentabili, producono mosti con una maggiore quantità di zuccheri complessi. Proprio per questo avevo fatto un mash a 69°C, per avere un filo di dolcezza in più. La FG prevista da Brewfather mi sembrava troppo bassa (1.014). Mi aspettavo qualche punto in più, diciamo intorno a 1.016-1.017: devo ammetttere che 1.020 mi è sembrato un filo alto.

A ogni modo ho travasato in un fustino da 10 litri, messo in frigo e finito di carbonare forzatamente arrivando a circa 2.0 volumi. Dopo una settimana ho attaccato il fusto alla spina per celebrare San Patrizio.

ASSAGGIO

Prima della serata di San Patrizio – avevo invitato un paio di amici a cena – ho fatto qualche bottiglia; al solito, riempiendo direttamente dalla spina in contropressione. La birra alla spina è piaciuta molto, sia a me che agli amici. L’assaggio seguente viene da una bottiglia, bevuta circa un mese dopo San Patrizio, tenuta sempre in frigo.

 ASPETTO  Questo è il classico caso in cui la schiuma, quando la birra viene versata in un quantitativo piccolissimo nel bicchiere da assaggio, si presenta male. Cosa che invece non avviene, come è evidente dalle foto, quando la birra viene versata dalla bottiglia (foto sopra) e dalla spina (foto sotto). Versando dalla spina in più tempi, la schiuma si compatta ed esce sempre meglio rispetto alla bottiglia. Si forma comunque una bella schiuma di colore marrone chiaro, a bolle fini e con una buona persistenza in entrambi i casi. La birra è di colore marrone con riflessi rubini, sembra abbastanza limpida. Voto all’aspetto 3/3 da bottiglia; 4/3 dalla spina; 2/3 nel piccolo bicchiere da assaggio. 🙂

 AROMA  L’intensità è buona. Prevalgono le note dei malti torrefatti, incentrate sul caffè e sulla liquirizia. La complessità è discreta, man mano che la birra si scalda fanno capolino sfumature di caramello/toffee e un tocco di crosta di pane tostato. Luppolo non percepito. Esteri assenti. Naso pulito, con discreta complessità e molto piacevole. Niente diacetile.

 AL PALATO  Ingresso maltato con intensità medio-alta. Spiccano nuovamente i malti torrefatti con maggiore presenza della liquirizia sul caffè, che appare nel retrolfatto insieme a un leggero tocco nocciolato e a un finale leggermente terroso. Il caramello sostiene la corsa gustativa a metà palato, per integrarsi con le sfumature tostate verso il finale risultando in una piacevole impressione di cioccolato al latte. Leggerà acidità da malti torrefatti che, insieme a un amaro medio, accompagna verso un finale di media secchezza. No luppolo e no esteri. No diacetile. Bilanciamento verso i malti torrefatti, come è giusto che sia.

 MOUTHFEEL  Corpo medio-basso, un po’ troppo scarno per lo stile che lo vorrebbe leggermente più pieno. Carbonazione medio-bassa. Leggera astringenza che a me non dà nessun fastidio, ma non è proprio in stile e – sono sicuro – in un concorso toglierebbe qualche punticino al voto generale. Nessun calore alcolico. Cremosità molto bassa, troppo bassa per lo stile ma non completamente assente.

 IMPRESSIONI GENERALI  Dal punto di vista dell’esperienza generale di bevuta, questa birra mi è piaciuta moltissimo sin dal primo goccio che ho assaggiato a fine fermentazione. Come faccio spesso ultimamente, ho prima assaggiato e poi misurato la FG: non avrei mai detto che fosse rimasta così alta, il bilanciamento mi è sembrato subito azzeccatissimo. E in effetti lo è: la birra scende giù che è un piacere.

Venendo invece allo stile, siamo vicini ma non centratissimi. La complessità dei malti c’è, mi sembra in linea con le aspettative. Ridurrei un filo i tostati, anche se non li trovo particolarmente ingombranti. La leggera astringenza a me non dà fastidio, ma in mancanza di un corpo più rotondo può far storcere il naso. Probabilmente, se fosse riuscita con il grado alcolico inizialmente pianificato, sarebbe leggermente più piena al palato.

Non sono un grande esperto dello stile, anche perché lo stile offre interpretazioni piuttosto ampie. Ho bevuto diverse volte la Oatmeal Stout della Samuel Smith’s, dove la tanto decantata morbidezza dello stile a mio avviso è quasi impercettibile. Nella prossima versione ridurrei di un punto percentuale il Chocolate a favore del Crystal, toglierei i fiocchi d’orzo a favore dell’avena che porterei al 20-25% sul totale del grist. Probabilmente userei un lievito inglese liquido, magari il London Ale III. Il mash lo rifarei a 69°C, sperando in una attenuazione simile perché secondo me ci sta tutta.

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