Ultimamente mi sto dedicando a stili che non ho mai provato a brassare. Un po’ per curiosità e per avere nuovi stimoli, un po’ per sperimentare nuove ricette da mettere sul sito e nel mio handbook. Oggi è la volta della California Common.

Arriverà anche il momento delle Weisse, lo prometto. Tutta colpa del mio amico Daniele e del suo concorso Pastorianus, che nell’edizione 2025 sarà dedicato proprio alle birre di frumento. In realtà una Weissbier la feci tanti anni fa con un amico perché a lui piacciono. Non venne granché, la ricetta non fu mai divulgata.

Le California Common mi hanno sempre affascinato. Sia perché la loro ri-nascita è legata a un birrificio che mi è molto caro, Anchor Brewing – purtroppo finito male, ma di questo ne parliamo tra poco – , sia perché in generale le birre luppolate ambrate con aromi resinosi e agrumati mi piacciono molto. Sono tratti organolettici passati un po’ di moda, ahimè, rimpiazzati dall’abbinata tra colore chiarissimo e aromi tropicali che amo decisamente meno.

Ma prima, come direbbe qualcuno, facciamo un passo indietro.

LO STORIA

Le California Common sono uno dei pochi stili originari degli Stati Uniti. Lo stile è nato sulla costa Est degli Stati Uniti intorno alla metà del 1800, nel pieno del periodo della corsa all’oro.

In quel periodo stavano iniziando a diffondersi le birre a bassa fermentazione – le lager – grazie all’immigrazione proveniente dall’Europa continentale che aveva trovato un solido bacino di accoglienza nelle zone centrali e più fredde dell’America, intorno al lago Michigan e alla cittadina di St. Louis. Qui, il freddo facilitava notevolmente la produzione di birre a bassa fermentazione.

La California era (ed è tutt’oggi) caratterizzata da un clima tutto sommato mite e piuttosto fresco, che però non arriva ai livelli delle brezze gelide che imperversano sulla riva del lago Michigan. Questo portò allo sviluppo di una tecnica produttiva che sfruttava l’attività di lieviti a bassa fermentazione, lasciati però fermentare a temperature più alte.

Il nome originale di questo stile – poi divenuto un marchio registrato dalla Anchor Brewing – è Steam Beer, ovvero birra a vapore. Si dice, ma è da verificare se sia effettivamente vero, che questo appellativo derivi proprio dal vapore che si innalzava dalle vasche di raffreddamento dei birrifici, dove il mosto veniva raffreddato prima della fermentazione.

Altre teorie, forse più verosimili, sostengono che l’aggettivo Steam sia stato scelto perché la birra veniva all’epoca imbottigliata prima che la fermentazione fosse completamente terminata, producendo bottiglie con altissima pressione al loro interno e birra molto carbonata.

In ogni caso, la ricetta venne completamente riformulata da Fritz Maytag intorno agli anni 70 del 900, poco dopo aver acquistato il birrificio Anchor di San Francisco, già attivo dalla fine dell’ottocento e in procinto di fallire. Una delle birre storiche con cui Maytag rilanciò il birrificio fu proprio la Anchor Steam.

Purtroppo, recentemente Anchor è stato acquistato dal colosso industriale giapponese Sapporo, che ha già fermato la produzione di un’altra storica birra del birrificio Anchor: la Christmas Ale. La storia non avrà probabilmente un lieto fine, ma la speranza è l’ultima a morire.

Fritz Maytag con i suoi dipendenti alla Anchor Brewing

LO STILE

La California Common (o Steam Beer) che mise in produzione Fritz Maytag è probabilmente diversa dalla birra diffusa a San Francisco nella metà dell’ottocento. Probabilmente, l’unica similarità tra le due versioni è il processo di produzione che prevede ancora l’utilizzo di un lievito lager lasciato fermentare a temperature da ale.

La descrizione dello stile che ne fa il BJCP (link) è praticamente basata sulla birra di Anchor ed è molto simile ad una American Amber Ale nel bilanciamento complessivo. La differenza principale, oltre al già citato processo di fermentazione, è la luppolatura: niente luppoli americani moderni, solo Northern Brewer.

Il Northern Brewer è un luppolo di origine inglese, nato come incrocio tra l’East Kent Goldings e il Brewer’s Gold. È molto caratterizzato dai terpeni e da un aroma resinoso, balsamico, a volte descritto anche come mentolato.

La componente luppolata e quella maltata sono piuttosto intense, così come l’amaro. L’aspetto più difficile nel produrre questa birra è trovare il giusto bilanciamento tra la dolcezza del caramello e l’amaro del luppolo.

Particolarmente pericolosa l’ossidazione: andrebbe a spegnere l’aroma luppolato ma soprattutto renderebbe poco espressiva le controparte maltata. Trovo che le birre ambrate ossidate siano terribili, forse anche peggio delle chiare ossidate.

Per saperne di più sulla Anchor Steam, consiglio questo approfondito post di Jeff Alworth sul blog Beervana.

La vecchia etichetta della Anchor, prima che venisse ridisegnata dalla nuova proprietà (Sapporo)

RICETTA

Per quanto riguarda lievito e luppolo sono stato ligio alla tradizione: San Francisco Lager Yeast della White Labs (WLP 810) e luppolatura 100% Northern Brewer. Niente dry hopping. Si potrebbe anche fare, ma non lo ritengo indispensabile in questo stile.

Acqua di Roma filtrata a carbone attivo con aggiunta di una adeguata quantità di acido lattico per arrivare al pH di ammostamento, sparge e bollitura desiderati. Piccole aggiunte di sali per aumentare i solfati e dare uno sprint al taglio amaro. A ogni modo, cloruri e solfati sono molto bassi: non so quanto possano realmente aver influito sul profilo organolettico della birra.

Il grist è leggermente più articolato con una base di malto Pale, due malti Crystal con diverso EBC e un tocco di Biscuit. Il Carafa III l’ho utilizzato solo per ottenere un colore leggermente più intenso.

FERMENTAZIONE

Come da tradizione per questo lievito, sono partito da 16°C. A fermentazione quasi ultimata ho alzato la temperatura, giusto per stimolare il lievito a consumare gli ultimi punti di densità.

Dopodiché, tre giorni di abbattimento e trasferimento nel fusto da 10 litri, che ho poi tenuto in frigo per 20 giorni prima di iniziare a spillare la birra.

Ho carbonato parzialmente togliendo il blow-off verso la fine della fermentazione. Ho completato la carbonazione fino a 2.4 volumi con la bombola di CO2 poco prima di attaccarla alla spina.

La bustina Pure Pitch Next Generation della White Labs era piuttosto nuova, aveva circa due mesi. Stando a quanto afferma la White Labs, con queste nuove confezioni la vitalità delle cellule rimane al 96% anche dopo 6 mesi. Probabilmente una stima un po’ ottimista, ma ero confidente che dopo due soli mesi le cellule fossero ancora in buone condizioni.

Considerando che in queste buste ci sono 200 miliardi di cellule vive e che dovevo fermentare a temperature quasi da alta fermentazione, quindi con un pitch tra 1,5 e 0,75 milioni di cellule/ml/Plato, ho usato la bustina senza starter. Ho stimato, con approccio conservativo, di avere a disposizione circa 150 miliardi di cellule, per un tasso di inoculo pari a 1,1 mln di cellule/ml/P.

Lo so che ho sempre consigliato di fare comunque lo starter (link) perché “non si sa mai”, ma ultimamente mi sono lasciato convincere dalla White Labs e per buste molto nuove non lo faccio. Ho fermentato già un paio di cotte con questo approccio e… indovinate? Non ho avuto problemi! Scherzi a parte, il risultato è stato buono. Quindi vado avanti.

Quando la busta è più vicina alla scadenza o sono al limite del pitching rate, faccio comunque lo starter, per sicurezza.

ASSAGGIO

L’assaggio viene da una delle bottiglie riempite direttamente dalla spina con il solito riempitore della kegland. La bottiglia ha circa una ventina di giorni ed è stata tenuta sempre in frigo.

 ASPETTO  Colore ambrato carico, quasi mogano. Buona limpidezza, come da stile. Schiuma leggermente beige, bolle fini, ottima persistenza.

 AROMA  Luppolo di media intensità, prevalentemente resinoso con note erbacee e una punta di agrumato nelle retrovie. Maltato di media intensità con note di caramello tostato e crosta di pane lievemente bruciata in secondo piano. Un filo di frutta secca (dattero) nelle retrovie. Non sento esteri. Aroma pulito, di buona intensità.

 AL PALATO  Ingresso maltato, torna il caramello tostato percepito in aroma senza derive dolci. Arriva subito l’amaro del luppolo in soccorso con una intensità medio alta che accompagna la bevuta evitando derive stucchevoli. L’amaro persiste nel finale secco, con note erbacee e resinose. Semplice, ben bilanciata.

 MOUTHFEEL  Corpo medio, morbido, leggera cremosità. Carbonazione media. Nessuna astringenza nonostante l’amaro deciso. Nessun calore alcolico.

 CONSIDERAZIONI GENERALI  Nonostante fosse il mio primo tentativo con lo stile, il risultato mi ha davvero soddisfatto. Il bilanciamento complessivo lo trovo centrato, nonostante mi fosse sembrata eccessivamente amara al primo assaggio dopo la fermentazione: direi che si è equilibrata piuttosto bene con il lungo cold crash. L’amaro è rimasto abbastanza deciso, si potrebbe ridurre ma c’è il rischio di perdere il bilanciamento. Qualche IBU in meno potrebbe anche starci.

Il lievito è piuttosto neutro ma non assente. Difficile dire quale sia il contributo esatto della fermentazione, ma è uno di quei casi in cui – a mio avviso – il lievito liquido e non neutro può aver fatto la differenza, anche se non si sente.

La luppolatura la trovo piuttosto in stile, non credo sia necessario un dry hopping. Ammetto di non averlo fatto principalmente per evitare rogne e potenziale ossidazione, ma anche per ridurre la componente resinosa che altrimenti avrebbe potuto risultare eccessiva.

Il nome della birra, Fritzco, è un omaggio a Fritz Maytag, fondatore di Anchor Brewing e alla città da cui tutto ha avuto inizio, San Francisco detta Frisco.

4 COMMENTS

  1. Ciao Frank Bella ricetta! Quale lievito secco consigli in sostituzione al San Francisco lager? Pensavo ad un classico W34/70 ma è la prima volta che lo avvicino ai lager sia usati propriamente che a temperature da ale quindi non so bene su quali orientarmi. Grazie mille

  2. ciao Frank, Northern Brewer USA?
    come lievito immagino potrebbe essere un buon banco di prova per il Novalager

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