Iniziamo il nuovo anno con un argomento che non mi molla e che non ho intenzione di mollare: come produrre in casa una buona pils ceca.
Perché questa fissazione? Le ragioni sono molteplici.
Oltre al fatto – scontato – che le birre ceche fatte bene sono deliziose, l’argomento mi interessa perché pone temi tutt’altro che ovvi da indagare. Apre spazi per ragionamenti complessi su ingredienti e processo di produzione, ma anche sulle mille sfumature organolettiche coinvolte nell’assaggio, troppo spesso viziato dai forti condizionamenti che ciascuno di noi si porta dietro.
L’ultimo post del 2024 l’ho interamente dedicato ad una analisi dettagliata delle ricette che avevo prodotto nell’anno, provando a ipotizzare i prossimi passi.
L’altro giorno, mentre ero a correre, mi sono messo a riascoltare una vecchia puntata del podcast di Craft Beer & Brewing Magazine. Nello specifico, l’episodio 352 (link) dove Chris Lohring racconta il suo approccio alla produzione delle lager ceche. Dopo anni di ritrosia, ha deciso di aprirsi. “Non posso portarmi i segreti nella tomba“, dice. E meno male, rispondo io!
Diversi gli spunti di riflessione interessanti.
Facciamo prima un passo indietro. Chi è Chris Lohring, fondatore e birraio di Notch Brewing? Io stesso non conoscevo l’esistenza – e l’enorme valore – di questo birrificio, fino a qualche anno fa.
Chris Lohring e Notch Brewing
Il nome Notch Brewing viene dai segni che a Colonia – in Germania – vengono fatti sui sottobicchieri per indicare gli Stange di Kölsch che sono stati bevuti. In inglese, questi segni vengono chiamati – appunto – notch.
Già questo la dice lunga sulla filosofia produttiva del birrificio, incarnata anche dal payoff Year-Round beer (birre per tutto l’anno). Bevibilità al primo posto, quindi.
Il birrificio ha due sedi produttive con taproom, entrambe nel Massachussets: una a Salem (a nord di Boston), l’altra a Brighton (un quartiere di Boston). Notch è stato il primo birrificio americano a installare i rubinetti Lukr, fabbricati in Repubblica Ceca, dove vengono utilizzati per la spillatura tradizionale (qui un video dettagliato).
Lohring è un tipo particolare, con una forte personalità. Fa le cose a modo suo. Le taproom di Notch sono spartane, così come la maggior parte delle birre prodotte dal birrificio. La maggior parte sono lager con ABV modesto, ma la produzione spazia anche su stili ad alta fermentazione come Kölsch, IPA e NEIPA, evitando però di sfornarne ottomila versioni diverse come fanno molti altri birrifici americani (e anche italiani).
Le birre per cui Notch è famoso sono le basse fermentazioni. In particolare, le varie declinazioni delle Pils. Tra cui quelle in stile ceco, ma anche Pils tedesche o Zwickl franconi.
Lohring si è formato in Inghilterra lavorando in birrifici locali, dove ha sviluppato una passione per le alte fermentazioni inglesi a bassa gradazione alcolica. Poi ha viaggiato in Germania e Repubblica Ceca, dove è scoccato l’amore per le birre a bassa fermentazione.
Tornato negli Stati Uniti, dopo alcuni anni come contract brewer, Lohring ha aperto la sede produttiva di Notch a Salem, subito a nord di Boston. In birrificio ha portato tecniche produttive tradizionali, in particolare per le birre ceche: doppie decozioni, fermentazioni pseudo-aperte (vedremo poi in che senso), lunghe lagerizzazioni, servizio tradizionale con spillatura tramite il rubinetto Lukr nel tipico boccale Tubinger ceco.
Un personaggio piuttosto integralista e determinato nel proporre il suo approccio alla produzione e al servizio. Non che questo sia un male, anzi, è segno di forte personalità.
Sebbene non sia ancora mai riuscito ad assaggiare le birre di Notch, è opinione universale che siano davvero ben fatte e centrate.
Come lo stesso Lohring afferma all’inizio del podcast, i metodi produttivi che ha adottato – pur prendendo forte ispirazione dalla tradizione – sono stati adeguati al contesto in cui Notch opera. Non è detto che siano gli unici che possano portare buoni risultati, e non è detto che vadano bene per tutti.
Vediamo alcuni spunti su cui vale la pena riflettere.
Fermentabilità del mosto
I lieviti a bassa fermentazione non attenuano molto. Trattandosi di ceppi nati da ibridizzazione e non diastatici, tendono a digerire poco il maltotrioso e per nulla gli zuccheri con catene più lunghe di tre molecole di glucosio.
Questo crea scompensi negli homebrewer quando misurano la FG, specialmente se si hanno in mente le Pils tedesche come esempio di stile: birre con finale abbastanza secco, a volte leggermente minerale. Il collegamento tra alta attenuazione e secchezza scatta immediato, ma non è così lineare (ne ho parlato qui).
Sebbene le Pils ceche siano leggere e centrate sulla bevibilità, la sensazione maltata non è quella delle Pils tedesche. C’è qualcosa in più.
Sono abbastanza convinto che una FG leggermente più alta possa aiutare il bilanciamento complessivo in una pils ceca. Più ho fatto prove di produzione, più questo elemento mi è sembrato centrale. Al punto da arrivare anche a fare mash a 69°C (nelle prove senza decozione) proprio per ottenere un mosto meno fermentabile.
Una maggiore quantità di zuccheri residui rende possibile spingere con l’amaro senza che questo diventi tagliente o invasivo. Questo mi sembra un elemento chiave.
Lohring racconta che Notch dedica particolare attenzione alla fermentabilità del mosto delle birre ceche (ne parla al min 28:00).
Durante gli step di decozione, che possono durare molto per via della complessità delle operazioni da gestire (tra cui portare il mosto alla temperatura di decozione), l’azione degli enzimi sul mosto che rimane nella pentola principale (nel primo step agiscono soprattutto le beta-amilasi), può produrre una eccessiva quantità di zuccheri semplici.
Se il mash si protrae troppo a lungo a causa degli step di decozione (in particolare se si sceglie di farne tre), il rischio è di produrre un mosto altamente fermentabile. Secondo Lohring, una eccessiva riduzione degli zuccheri complessi rischia di far emergere un amaro eccessivo e di portare fuori equilibrio la birra.
Lohring ha ridotto da 3 a 2 gli step di decozione, proprio per ridurre i tempi di ammostamento ed evitare di ottenere un mosto troppo fermentabile e, di conseguenza, una FG troppo bassa. Al minuto 30:00, sottolinea che le loro Czech Lager hanno una FG abbastanza alta.
Come questo si traduca in numeri, non lo so. Lohring non lo specifica, ma il fatto di aver trovato una conferma alle mie sensazioni mi ha fatto piacere. Continuerò su questa strada.
Utilizzo di malti crystal
Per la mia prima Czech Pils puntai su un grist 100% pils, convinto che la decozione avrebbe aggiunto il contributo di colore e l’intensità maltata che stavo cercando. Non è stato così.
Ho cominciato a pormi dei dubbi.
Dubbi che poi, in parte, hanno trovato conferma nei racconti di amici che, tornando dalla Repubblica Ceca, raccontavano di aver notato sacchi di malto Monaco nei birrifici che avevano visitato. Chiaro che vedere di straforo un sacco di malto Monaco non è in sé indice di nulla, ma un piccolo dubbio sul fatto che queste birre siano fatte solo con malto Pils lo accende.
Le mie pils successive, dove ho iniziato ad aggiungere – in dosi variabili e non ancora consolidate – malti Vienna, Monaco e addirittura Melanoidin, hanno assunto un colore dorato carico, più in linea con quanto avevo in mente.
Chris Lohring, al minuto 38:00 dell’intervista, conferma questo approccio. Molti pensano che le Pils Ceche siano SMASH beers (Single Malt & Single Hop), dice, ma nella realtà non è così. Secondo lui – e mi trova d’accordo al 100% – con la sola decozione non si riescono a produrre birre di quel colore e con quella intensità maltata.
Non accenna a malti Monaco e Vienna, piuttosto all’utilizzo di piccole dosi di Crystal. Secondo lui, i malti speciali danno il giusto livello di colore e quel filo di dolcezza necessaria a supportare l’intensa base luppolata. Indica un 2-3% di un malto crystal poco tostato come riferimento. Il che – ma questa è la mia interpretazione – potrebbe tradursi anche in un 10-15% di malto Vienna, o un 5-10% di Monaco.
Fermentazione e lagerizzazione
Per quanto riguarda il profilo di fermentazione, la versione di Lohring non mi ha particolarmente convinto. Non sto mettendo in dubbio le sue competenze e la sua esperienza: i fatti parlano chiaro sulla qualità delle sue birre; credo solo che, in questo caso, Lohring si sia lasciato un po’ guidare da convinzioni personali. Ci sta, per carità.
Del resto, nessuno ha ben chiaro quali siano tecnicamente gli effetti delle lunghe lagerizzazioni sulla birra. Ne parlai tempo fa in un altro post, citando un articolo pubblicato sul Technical Quarterly della Master Brewers Association (link).
In via del tutto generale, sull’approccio alla fermentazione mi trovo d’accordo con Lohring. Le loro lagerizzazioni non sono mediamente più lunghe di 30-40 giorni. Lohring racconta che, in ogni caso, la chiave per capire quando terminare la lagerizzazione è sempre l’assaggio della birra (min 52:00). Se è pronta, si può infustare; altrimenti, continua la lagerizzazione. Dare tempo al tempo.
Mi hanno convinto meno le considerazioni sulla fermentazione primaria.
Intorno al minuto 18:00, dice di non fare la pausa diacetile perché – secondo lui – il lievito viene indotto a produrre una maggiore quantità di esteri, sporcando il profilo aromatico della birra. Preferisce far riassorbire il diacetile a 10°C, semplicemente lasciando la birra in fermentazione primaria per un periodo più lungo.
Non ama l’approccio moderno con pausa diacetile, insomma. Quello rappresentato a grandi linee nel grafico qui sotto.
Tecnicamente, ha ragione: l’aumento di temperatura durante la fermentazione – anche se verso la fine – induce un leggero incremento nella produzione di esteri. Bisognerebbe tuttavia quantificare questo aumento, per capire se si arriva davvero oltre la soglia di percezione. Magari lo hanno fatto, ma non ne parla nell’intervista.
Il punto è che, poco dopo, racconta di condurre fermentazioni semi-aperte (minuto 45:00). Lo fa lasciando il coperchio del fermentatore loose, ovvero semi-aperto, perché in birrificio non hanno un ambiente di fermentazione separato e non se la sente di fermentare in vasche aperte (come fanno invece molti birrifici cechi) per eventuali rischi di contaminazione.
Il punto è che Lohring sostiene che la fermentazione aperta favorisce la produzione di esteri (tecnicamente è vero), rendendo il profilo della birra maggiormente complesso.
Quindi gli esteri della pausa diacetile no; quelli della fermentazione aperta sì. Questa parte mi ha confuso.
Di nuovo, non mi permetterei mai di dire che sbagli. Sicuramente non sbaglia. Avrà fatto le sue prove e i suoi assaggi. Come ben dice all’inizio dell’intervista, sta raccontando il suo approccio. Non è detto sia quello giusto per tutti.
Mi sento però di poter dire che siamo nell’ambito delle opinioni personali. Le motivazioni alla base delle sue scelte, in questo caso, non mi sembrano ben argomentate come in altri casi. Sicuramente è un ambito in cui indagare meglio, magari con qualche prova.
Del resto, ad oggi non è nemmeno chiarissimo quale sia esattamente il contributo della fermentazione aperta al profilo organolettico della birra. Sicuramente il lievito lavora meglio, principalmente per via della maggiore ossigenazione (che nella fase tumultuosa non è dannosa) e della ridotta pressione. Quanto questo influisca davvero sul profilo fermentativo è oggetto di ampia discussione nel mondo birrario.
Ci sono inoltre sensibili differenze tra farlo in casa su volumi ridotti, o in birrificio.
Una cosa è fermentare in vasca aperta – larga e bassa – in birrificio, dove altrimenti la pressione idrostatica sul fondo di un troncoconico sarebbe molto più alta. Tutt’altra è farlo in casa, dove i volumi in gioco sono decisamente ridotti e le pressioni idrostatiche ridicole. Anche aprire semplicemente il coperchio del fermentatore, mantenendone inalterata forma e struttura (come fa Lohring), mi chiedo quanto possa davvero influire.
Visto che l’unica contaminazione seria che mi sono beccato fu probabilmente dovuta a una fermentazione aperta (combinata con una pulizia non attenta del frigo in cui è avvenuta), non credo mi avventurerò di nuovo in fermentazioni di questo tipo. Potrei però provare a tenere leggermente aperto il tappo del keg per qualche giorno, magari rimpiazzandolo con un foglio di stagnola. E vedere l’effetto che fa.
L’equilibrio è la chiave
Al minuto 40:00 esprime un concetto chiave, a primo impatto piuttosto banale: non esiste un unico ingrediente magico per arrivare al risultato. La ricetta non si risolve con la scelta del luppolo, la decozione, l’aggiunta di un malto crystal.
Le variabili su cui lavorare sono tante: la tipologia dei malti, il produttore, il profilo di decozione, la fermentabilità del mosto, l’amaro, l’acqua, il profilo di fermentazione, la lagerizzazione.
Chiaramente questo è un concetto sempre vero quando si fa birra, ma in questo caso l’equilibrio tra i vari elementi è davvero fondamentale. Non c’è margine di errore, ogni piccola sbavatura può portare la birra nella direzione sbagliata.
Considerando le molteplici possibilità di combinazione delle variabili in gioco, è chiaro che si può arrivare al risultato seguendo strade diverse. Meglio non fissarsi su un solo elemento – tipo: non hai usato i malti cechi! vade retro!. Meglio valutare con serenità e attenzione il risultato finale, variando magari uno o due elementi per volta per capire l’effetto che producono.
La strada è lunga, non ci scoraggiamo.
Intervista interessantissima che consiglio vivamente di ascoltare per intero.
Ciao frank,
Sul tema malti ti confermo che spesso si utilizzano % dal 5 al 10 di malti monaco (no vienna) oppure piccole % di caramunich!
Salute!
Grazie, Nicola!
Non mi inoltro sulle differenze fra esteri dalla fermentazione aperta e quelli derivanti dalla sosta per il diacetile (ammesso che ci siano) pero’ potrebbe essere che Chris ricercando un approccio abbastanza fedele ai procedimenti cechi semplicemente quel tot di esteri che vuole ottenere gia’ li ottiene con la fermentazione semi-aperta e semplicemente non vuole aggiungerne di ulteriori con la sosta per il diacetile.
Certo, è possibile. A parità di risultato, però, se dovessi scegliere farei pausa diacetile e fermentazione chiusa. 🙂