Siamo arrivati alla fine del 2025. Con questo post, il terzo e ultimo dedicato alla maturazione della birra (qui gli altri due: link1, link2), chiudo le pubblicazioni dell’anno. Gli aggiornamenti del blog torneranno lunedì 12 gennaio.
Mi prendo un mesetto di pausa per ricaricare le batterie, ma soprattutto per riprendere in mano un progetto che negli ultimi tempi ho lasciato un po’ morire di freddo, ma che secondo me merita di tornare in campo con una bella rinfrescata. Chi sa, sa. Chi non sa, vedrà.
Non fermerò la produzione casalinga, anzi. Ho in fermentazione la Helles Export in versione Rauch, che andrà a breve travasata e passata in lagerizzazione. Se verrà una birra decente, la porterò con me a Pastorianus il 31 gennaio, così ce la beviamo insieme. Durante le vacanze, dovrò a un certo punto imbottigliare l’American Barley Wine, che al momento è in frigo a maturare. In programma, durante le vacanze di Natale, ci sono una cotta di Extra Special Bitter e una di Pils.
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Ma torniamo a noi e al tema del post: meglio lasciar maturare la birra al caldo o al freddo? Cosa cambia? Proviamo a capirlo meglio.

La maturazione a freddo
Il freddo, in generale, rallenta le reazioni che portano al deterioramento della birra e, più in generale, degli alimenti. Rallenta sia le reazioni biochimiche, inibendo o riducendo l’attività dei microrganismi, sia quelle puramente chimiche, diminuendo la velocità con cui avvengono.
Questo può essere un vantaggio o uno svantaggio. Un rallentamento generale può essere positivo per frenare le reazioni che generano off-flavour, come quelle ossidative legate all’ossigeno disciolto o ad altri composti ossidanti. È invece limitativo per le reazioni che favoriscono evoluzioni aromatiche positive: per esempio la trasformazione degli alcoli superiori in esteri o la loro ossidazione in aldeidi piacevolmente fruttate. Nel primo caso il freddo svolge un’azione protettiva, nel secondo rallenta il processo di maturazione.
C’è però un fenomeno che il freddo accelera: l’aggregazione e la successiva precipitazione delle sostanze solide sul fondo del fermentatore. Il calo di temperatura riduce l’energia cinetica delle molecole, rendendole meno solubili e favorendone l’aggregazione. Con il freddo, scendono sul fondo del fermentatore particelle solide come proteine e tannini, spesso legandosi tra loro.
A basse temperature, inoltre, le cellule di lievito tendono a flocculare formando agglomerati più grandi e pesanti, che precipitano più facilmente insieme al resto.
Il freddo può inoltre stimolare la formazione di legami deboli, come i legami a idrogeno tra polifenoli e tannini, che causano chill-haze (torbidità a freddo). Se gestita subito con una maturazione a freddo, anche la chill-haze alla fine tende a precipitare.
In generale, la rimozione di queste particelle sospese rende la birra più limpida e contribuisce a smussarne gli spigoli. Un effetto senza dubbio positivo.

Perché e quando la maturazione a freddo?
Partiamo dalla differenza tra maturazione e cold crash. Non è una distinzione rigida: ciascuno la interpreta a modo suo, l’importante è capirsi. Quello che io chiamo cold crash è la classica settimana di freddo (circa 0-2°C), effettuata dopo la fermentazione. Non mi sentirei di considerarla una vera e propria maturazione, è troppo breve e repentina.
In un periodo così breve, precipitano principalmente le molecole più grandi. Si pratica soprattutto per evitare di trasferire troppi residui solidi in bottiglia o nel fusto di maturazione. Sicuramente il profilo della birra ne beneficia, ma raramente si verifica una maturazione completa. Per alcune birre, un veloce cold crash può anche essere sufficiente.
Mi riferisco in particolare a birre poco alcoliche e con basso contenuto di luppolo, o a birre fermentate con lieviti che precipitano facilmente, come alcuni ceppi inglesi. Premesso che, secondo me, un mese di freddo fa bene praticamente a qualsiasi stile birrario (anche a una NEIPA), in molti casi un breve cold crash è più che sufficiente per raggiungere condizioni di bevuta ottimali. Ripeto: parlo di birre poco alcoliche (sotto 6% ABV) e poco luppolate, magari senza dry hopping o con quantità ridotte di dry hopping.
Maturazione o lagerizzazione?
Per me, sono la stessa cosa. Mi spiego meglio. La lagerizzazione è una maturazione a freddo. Sebbene il termine lagerizzazione sia in genere attribuito alla maturazione a freddo delle birre lager, il passaggio al freddo si può applicare sia alle basse che alle alte fermentazioni. Con benefici significativi in entrambi i casi.
Nelle basse fermentazioni, è possibile che il lievito continui a lavorare anche durante la maturazione a freddo. Questo dipende da diversi fattori, come ad esempio la velocità con cui si arriva alle basse temperature (abbassamenti repentini possono bloccare il lievito), la salute del lievito, la presenza di zuccheri residui e di nutrienti.
Se il lievito è ancora attivo, durante la maturazione a freddo si possono verificare anche evoluzioni legate all’attività del lievito, quindi riduzione di diacetile, acetaldeide, solfuri, perfino abbassamento della densità di qualche punto per il consumo degli zuccheri residui. Queste possono essere evoluzioni positive, ma se si è lavorato bene a monte (magari con una pausa diacetile per stimolare il lievito verso la fine della fermentazione), non sono necessarie.
La maturazione al freddo – anche senza lievito attivo – aiuta a pulire la birra, sia visivamente che organoletticamente, preservandone le caratteristiche positive. Una maturazione a freddo di uno o due mesi, a mio avviso, può migliorare il profilo organolettico di una pils come quello di una Tripel. Non è solo una questione di limpidezza, ma di rimozione di alcune sostanze solide (lievito, tannini, proteine) che possono rendere il profilo organolettico della birra meno brillante.

Meglio in bottiglia o nel fermentatore?
Probabilmente non cambia moltissimo, in termini di precipitazione delle sostanze, tra i due contenitori. Se però si imbottiglia dopo la maturazione al freddo in fusto (o in un secondo fermentatore), si porteranno in bottiglia meno residui solidi. Anche questo è un bene, quindi tenderei a preferire la maturazione in bulk (ovvero in un contenitore grande).
I birrifici che producono lager con lunga maturazione a freddo utilizzano spesso i maturatori orizzontali. Essendo bassi e lunghi, riducono il percorso che gli agglomerati solidi devono percorrere per arrivare sul fondo, riducendo i tempi di maturazione.
Se però parliamo di birre molto alcoliche, specialmente quelle ad alta fermentazione, ha forse più senso una maturazione al caldo. Ovviamente non al caldo caldo, diciamo intorno ai 15-20°C al massimo.
La maturazione a temperatura ambiente
Quando la birra viene lasciata a temperatura ambiente (ovvero intorno ai 20°C), le reazioni, sia chimiche che biologiche, avvengono a velocità maggiori. Questo è un bene per quelle reazioni che migliorano la birra, come la già citata conversione degli alcoli superiori in aldeidi o esteri, ma lo è meno per quelle negative, come ad esempio la formazione del trans-2-nonenale, responsabile dell’aroma di cartone bagnato o, più in generale, di “vecchio” (stale, in inglese).
Lasciando maturare la birra a temperatura ambiente, possiamo sfruttare l’attività residua del lievito, che andrà a ripulire la birra da piccoli difetti come diacetile o acetaldeide, a stimolare la formazione di esteri a partire dagli alcoli superiori (arrotondando la birra), o ancora a consumare gli ultimi punti di densità residua (è bene che questo avvenga nel fermentatore e non in bottiglia, altrimenti si rischia la sovracarbonazione).
Con la maturazione a temperatura ambiente la birra tenderà comunque a illimpidirsi, anche se i tempi saranno più lunghi rispetto alla maturazione a freddo.
Avverranno anche molte altre razioni non legate al lievito, come ad esempio l’idrolisi parziale degli esteri (che tenderanno a ridursi) o la comparsa di aromi che ricordano sostanze dolci come miele e caramello, dovute principalmente all’ossidazione (ma non solo).
Come sempre, però, occorre trovare il giusto compromesso tra gli effetti negativi e quelli positivi della maturazione. Non è facile e non esistono formule predefinite. L’unica cosa che si può fare è assaggiare la birra ogni due o tre settimane, per verificare a che punto è arrivata la sua evoluzione. Se la riteniamo pronta, o quasi pronta, è bene passarla al freddo per preservarne l’equilibrio il più a lungo possibile.
Non è necessario che la temperatura di maturazione a caldo sia controllata in modo rigoroso, ma è bene mantenerla in un range ragionevole: volendo essere larghi, si può stare tra i 15 e i 25°C. Al di sotto si rischia di rallentare troppo il lievito, mentre al di sopra il rischio è di accelerare eccessivamente i processi di invecchiamento con effetti negativi, o addirittura di portare il lievito a produrre composti indesiderati.
Le basse fermentazioni, in genere, maturano solo a freddo. Quelle più alcoliche, come le Doppelbock, potrebbero beneficiare anche di una fase di maturazione a temperatura ambiente, magari nella parte bassa del range, ma generalmente la loro maturazione avviene al freddo.

Un paio di esempi pratici
Provo a fare un paio di esempi pratici. Non è detto che ciascuno di essi rappresenti l’approccio migliore, ma sono pratiche che ho affinato nel tempo, con cui mi trovo bene e che mi sembrano funzionare.
Birre luppolate
Non le lascio mai a temperatura ambiente, nemmeno per un giorno. Non le rifermento e le tengo sempre in frigorifero. Dopo la fermentazione le travaso in un fustino da 10 litri, dove le lascio al freddo per almeno due settimane, più spesso un mese. Le bevo alla spina e faccio qualche bottiglia direttamente dal fusto; anche le bottiglie vengono sempre conservate in frigorifero. Quando rifermentavo le luppolate, lasciavo comunque le bottiglie fuori solo per il tempo necessario alla rifermentazione (in genere un paio di settimane e comunque a temperature non superiori ai 20–22 °C).
Belgian Blonde / Tripel / BDSA / BGSA
Dopo la fermentazione, travaso la birra nel fustino da 10 litri (senza cold crash). Lascio il fustino a temperatura ambiente (20–22 °C) per un paio di settimane, più spesso per circa un mese. In questa fase la birra matura, evolve, si assesta ed eventualmente termina la fermentazione (a volte i lieviti belgi impiegano settimane per consumare gli ultimi 2–3 punti di densità). Successivamente sposto il fusto in frigorifero, dove lo lascio per alcune settimane, o comunque fino a quando la birra non raggiunge una buona limpidezza. A questo punto imbottiglio, faccio rifermentare a temperatura ambiente o in cella calda (24°C), a seconda del periodo dell’anno e della temperatura in casa; poi lascio le bottiglie fuori dal frigorifero, finché non le ritengo pronte.
Barleywine / Imperial Stout
Il procedimento è praticamente identico a quello delle belghe, ma spesso non rifermento. Nelle Imperial Stout il passaggio al freddo è più breve; a volte, non lo faccio affatto. Se da un lato è vero che il lievito potrebbe dare un contributo durante la rifermentazione e soprattutto durante l’evoluzione organolettica della birra, per la mia esperienza questo contributo non è così marcato. Però, c’è da dire che non ho mai fatto birre ad alta gradazione da invecchiare per anni. La rifermentazione, poi, quando il grado alcolico è alto, può essere molto faticosa. Diciamo che ormai, in genere, la evito per questo tipo di birre e mi trovo bene.
Basse fermentazioni
Maturano sempre e solo in frigorifero dopo il travaso nel fusto da 10 litri, in genere per almeno un mese.
Stout a basso grado alcolico
Talvolta effettuo un cold crash dopo la fermentazione, per due o tre giorni, prima di travasarle nel fusto da 10 litri o di imbottigliare. In questo caso mi importa meno della limpidezza. Possono però beneficiare di qualche settimana di maturazione a temperatura ambiente: mi sembra che i malti scuri riescano a integrarsi meglio. Successivamente, comunque, le conservo sempre in frigorifero.



