La rilevazione del pH è da sempre una scocciatura per l’homebrewer. Rispetto alle misure con il densimetro, richiede strumentazioni più costose. Il misuratore di pH deve essere inoltre tarato frequentemente con soluzioni specifiche, anch’esse non proprio economiche.
Le cartine di tornasole, decisamente meno costose, sono purtroppo poco accurate. L’impossibilità di distinguere variazioni di pH al di sotto delle 0.2-0.3 unità le rende poco pratiche e abbastanza inutili.
Nonostante le difficoltà e l’impegno economico, ho iniziato presto ad acquistare misuratori di pH più seri, provandone diversi nel giro di pochi mesi (qui un articolo approfondito).
Poi è arrivato anche in Italia il misuratore MW-101 della Milwaukee, uno strumento abbastanza economico (per lo standard dei misuratori di pH, che arrivano a costare centinaia di euro), duraturo e molto stabile nelle misure. In breve tempo, questo è diventato il mio strumento di riferimento per la misura del pH.
I principali effetti del pH
Senza ripetere per l’ennesima volta gli stessi concetti e facendo riferimento ai principali punti esposti nei due testi How To Brew di John Palmer e Technology Brewing and Malting di Wolfgang Kunze, possiamo riassumere così i principali effetti del pH.
Durante l’ammostamento, la regolazione del pH influenza l’azione catalizzante dei vari enzimi e in generale le reazioni che avvengono tra le sostanze contenute nei cereali (principalmente amidi, proteine e tannini) e l’acqua.
Come specifica John Palmer nel suo libro How To Brew (nuova edizione, pag. 340), non tutte le reazioni che avvengono durante l’ammostamento hanno lo stesso pH ottimale. Per esempio, il pH ideale per l’estrazione degli amidi (idrolisi) si posiziona tra 5.5-5.9. Mentre questo range coincide con quello degli enzimi alfa-amilasi, che producono un mosto meno fermentabile, non è invece quello ideale per gli enzimi beta-amilasi, che convertono l’amido principalmente in maltosio, i quali lavorano meglio a un pH più basso (tra 5.4-5.5).
Sempre Palmer scrive che le birre chiare riescono in generale meglio con un pH di ammostamento più basso, tra 5.2-5.4, mentre quelle scure con un pH leggermente più alto, tra 5.4-5.6.
Nel contempo, un pH troppo alto (dai 5.8 in su), tende a favorire la solubilizzazione dei tannini, che potrebbero favorire l’astringenza (link).
Meglio quindi posizionarsi nel range 5.3-5.5, spostandoci in alto se la temperatura di ammostamento è più alta e si vogliono favorire le alfa-amilasi, più in basso se si vogliono favorire le beta.
In bollitura, in assenza di attività degli enzimi, Palmer consiglia generalmente di portare il pH intorno a 5.2-5.3, per ridurre l’estrazione di polifenoli dal luppolo, favorire la coagulazione delle proteine e ridurre l’intensificazione delle reazioni di Maillard e il conseguente imbrunimento della birra. Anche Kunze, a pagina 292 della sesta edizione del suo libro, scrive che con un pH di bollitura ridotto (inferiore a 5.4) si riduce la formazione di colore e si estrare un amaro più morbido e rotondo (deduco minore astringenza).
Questa la teoria. Veniamo alla pratica.
Una cotta andata storta – o quasi
Con queste premesse, è chiaro che la mia raccomandazione universale per i produttori casalinghi è di acquistare un buon pH-metro e regolare sempre il pH, durante le varie fasi della produzione (qui un precedente articolo al riguardo). Del resto, è quello che faccio anche io, ormai da anni. Con buoni risultati.
Ma questi buoni risultati sono davvero merito del controllo del pH?
Qualche settimana fa, mentre ero davanti ai pentoloni per produrre una Scotch Ale, è successo un imprevisto. Ho impostato la ricetta su Brewfather (questa, nello specifico), con cui ho calcolato anche – come faccio sempre – le quantità di acido lattico da aggiungere in ammostamento e nell’acqua di sparge, per raggiungere un pH di 5.3 e 5.0, rispettivamente.
Giorno della cotta. Inizio come al solito misurando sali e acido lattico. Aggiungo sali e acido all’acqua di ammostamento, butto i grani macinati in pentola, accendo il ricircolo e lascio andare per una decina di minuti.
Nel frattempo, passo all’acqua di sparge. Aggiungo l’acido nelle quantità calcolate da Brewfather, misurando la quantità di acido con una siringa da 10 ml. Misuro il pH con il mio fido Milwaukee: 6.2 (quello previsto era 5). Impossibile. Prendo di corsa le soluzioni di calibrazione a pH 4 e pH 7, calibro il pH-metro. Non mi pare sballato, ma lo calibro lo stesso.
Torno all’acqua di sparge. La misura dell’acqua di sparge è ancora 6.2, Aggiungo altro acido, fino ad arrivare a una quantità doppia. Non scende sotto al 6. Prendo un campione dalla pentola di ammostamento, sta a 6 pure questo. Impossibile.
Il misuratore di pH è vecchiotto. Ormai ha almeno un paio di anni, forse tre. Mi aspettavo che la sonda mi avrebbe abbandonato da una cotta all’altra. Non ho altri misuratori in casa. L’unica spiegazione possibile è che il misuratore abbia sballato. Ne deduco che è andato. Fa niente, farò la cotta senza misurare il pH, fidandomi dei calcoli di Brewfather. Mi metto l’anima in pace e vado avanti.
Tutto procede alla grande. Mosto limpidissimo dopo il mash. Test dello iodio negativo. Lascio bollire due ore, come previsto dalla ricetta. Coagulazione a fine bollitura ottima.
Vado a sanitizzare il fermentatore e arriva la sorpresa.
La colpa – ovviamente – era mia
Per misurare la quantità di Starsan da utilizzare per sanitizzare il fermentatore, uso la stessa siringa con cui misuro l’acido lattico per mash e sparge. Guardandola bene, mi rendo conto che la siringa – recuperata dalla confezione dell’antibiotico somministrato a mia figlia qualche settimana prima – aveva diverse scale.
Stavo utilizzando la scala dei Kg (il peso della bambina a cui somministrare l’antibiotico) anziché quella dei ml. Avevo fatto la stessa cosa con l’acido lattico di mash e sparge. Questo significa che avevo usato molto meno acido rispetto a quanto previsto dal software, sia nell’acqua di mash che in quella di sparge.
Insomma, per farla breve, il pH-metro non era rotto. Avevo quindi fatto l’ammostamento a pH 6 (totalmente fuori dal range) e lo sparge allo stesso pH. E anche, probabilmente, bollitura con pH simile.
A questo punto, a fine cotta, misuro il pH del mosto dopo averlo trasferito nel fermentatore. Lo trovo a 5.3. A conferma che il pH-metro funziona. Con la bollitura di due ore, il pH è probabilmente sceso più del solito (in genere passa da 5.3-5.2 a 5.2-5,1). Tutto sommato, non è nemmeno altissimo per l’inoculo del lievito. Amen. Inoculo il lievito e vado avanti.
Dal punto di vista delle dinamiche di ammostamento e bollitura, almeno per quanto ho potuto rilevare misurando efficienza e assaggiando il mosto post-bollitura, non è assolutamente cambiato nulla rispetto al solito. La conversione degli amidi è andata a buon fine, l’efficienza era in linea con le attese, il mosto non mostrava astringenza degna di nota. Nonostante il pH decisamente alto.
Una botta di fortuna? Può darsi.
E la birra, come è venuta?
Al momento la Scotch Ale è in lagerizzazione. Dal primo assaggio, però, non è affatto male. La limpidezza è media, probabilmente si pulirà bene tra qualche settimana.
Ho misurato il pH post fermentazione, è arrivato dove doveva arrivare: 4.1 (il range normale, post-fermentazione, è 4.0-4.5). Curiosità: ho misurato anche il pH della Golden Ale che avevo prodotto qualche settimana prima. Per un errore, il pH post-bollitura di quella birra era sceso a 4.9 (quello della Scotch Ale era a 5.3). Anche la Golden Ale, a fermentazione finita, l’ho trovata a pH 4.1. Segno che, come pensavo, il lievito autoregola la produzione di acidi durante la fermentazione in base al pH di partenza, approdando – più o meno – sempre allo stesso pH post fermentazione.
Qualcosa di strano, tuttavia, nella Scotch Ale l’ho trovato. L’amaro. Mi sembra alto e persistente. Non è astringente, ma è decisamente più intenso di quanto mi sarei aspettato. Ho sbagliato il dosaggio del luppolo? Potrebbe darsi, a volte capita. Ma forse non è questo.
L’isomerizzazione degli alfa acidi viene influenzata dal pH (link). Maggiore il pH, maggiore l’isomerizzazione (ovvero l’estrazione di amaro dal luppolo). Nel range di pH 8-10 può addirittura raggiungere il 90% (normalmente siamo intorno al 30%). Questa è la ragione per cui gli estratti di luppolo vengono prodotti con pH molto alto.
Nel mio caso, avendo anche bollito per due ore con un pH che è partito da 6 per scendere piano piano a 5.3 a fine bollitura, è molto probabile che l’isomerizzazione sia stata maggiore del previsto. Ed ecco spiegato l’amaro così intenso e persistente.
Non che la birra sia sgradevole, anzi: mi sembra molto buona. Ma, al momento, è più vicina a una British Strong Ale piuttosto che a una Scotch Ale. Probabile che con un mesetto di lagerizzazione l’amaro si riduca e si arrotondi un po’. Vedremo.
C’è anche da dire che non si trattava di una birra luppolata né di una birra con dosi massicce di malti scuri, dove è probabile che l’astringenza sarebbe venuta fuori con maggiore forza senza una corretta gestione del pH.
Ah, ovviamente il buon Brülosophy non ha evidenziato alcuna differenza tra una birra prodotta con pH altissimo e una con pH nel range normale (link). Ci sta. Se l’incidente del pH si fosse verificato mentre producevo una birra più amara in partenza, con bollitura classica di un’ora, probabilmente non me ne sarei reso conto nemmeno io.
Quindi, per concludere: abbiamo capito che il mosto è più resistente ai nostri errori di quello che pensiamo. A ogni modo, è meglio fare le cose per bene, gestendo al meglio il pH. Possiamo però stare tranquilli se qualche volta sbagliamo, i danni non sono così eclatanti.
Ciao Frank, hai scritto che per le birre chiare meglio il range più basso, mentre quelle scure quello più alto. Però poi in bollitura va portato nella parte bassa. Perciò se ad esempio faccio una stout, nella fase di mash la tengo a 5.5- 5.6 per poi portarla a 5.2-5.3 in fase di bollitura? Oppure siccome è una birra scura va comunque tenuta alta anche in fase di bollitura?
Penso intendesse pH di mash.
Ciao Frank , al.PennyMarket vendono 10 siringhe da 5 ml ( divisione 0,1 ) a 99 centesimi…