A fine agosto è stato pubblicato un nuovo articolo di ricerca sulla rivista Physics of Fluids. Un articolo serio, scritto da persone di scienza, dal titolo: The hidden subtlety of beer foam stability: A blueprint for advanced foam formulations.

Probabilmente, il fatto che sia disponibile gratuitamente per la lettura ne ha amplificato l’eco mediatica: ne ho letto ovunque. Addirittura mio padre, che su WhatsApp non mi scrive mai, mi ha mandato il link a un articolo di Dagospia (a sua volta ripreso dall’Ansa) che parla di questo paper in termini sensazionalistici: “Finalmente rivelato il segreto della schiuma della birra!”.

Ma è proprio così? Sono andato a leggere.

La schiuma è un falso problema

Parto a gamba tesa. Lo so. Ma è davvero così.

Prima di entrare nel merito dell’articolo citato in apertura, vorrei ribadire, per l’ennesima volta, il mio punto di vista sulla schiuma nella birra. È molto semplice: se il processo di produzione è solido, la schiuma sarà quella che deve essere. Punto.

L’ho detto più volte e lo ripeto sempre nei corsi per homebrewer che curo per Fermento Birra. La ragione è semplice: la schiuma non è qualcosa che è stato pensato dopo la nascita della birra o di un determinato stile. La schiuma è una conseguenza del processo di produzione e degli ingredienti utilizzati. E, quindi, dipende dallo stile.

Non è un caso se, mediamente, una Weissbier ha più schiuma di un Lambic. Non posso fare nulla per ridurre la schiuma di una Weisse (se non sgasarla o versarla male) e non posso fare nulla per aumentare la schiuma di un Lambic. Quel tipo di schiuma è il risultato di un processo di produzione e di ingredienti che si sono consolidati negli anni.

Questo è un esempio estremo, ovviamente, ma il concetto è sempre valido: ogni stile ha la sua schiuma. Manipolarla significa manipolare lo stile. Se la schiuma non ha le caratteristiche previste dallo stile, c’è qualche problema nel processo di produzione.

Si potrebbero elencare mille cause che possono avere un impatto negativo sulla formazione e sulla tenuta della schiuma. La guida sui difetti dei London Amateur Brewers ne cita ben 23, tra foam formation e foam retention. Ma, a parte i pochi casi più ovvi (come grassi sul bicchiere derivanti dal cibo), il resto è tutto riconducibile al processo di produzione o agli ingredienti.

Cambiarli, secondo me, non è però un’opzione. Non andrei mai ad aggiungere dei fiocchi di grano in una Bitter perché ha poca schiuma, come previsto dallo stile. È vero, una quantità del 10% non si sentirebbe nemmeno dal punto di vista organolettico, ma perché farlo? Risolverebbe il problema? No. Se la schiuma fosse proprio assente, saponosa ed evanescente, il problema sarebbe altrove: i fiocchi non risolverebbero nulla.

L’articolo citato non dice nulla di diverso, se letto nel modo giusto.

Fiocchi di grano

Perché studiare la schiuma, allora? 

La domanda è legittima: se la schiuma non fosse un problema, perché esistono così tanti studi al riguardo?

Basti pensare che uno dei più grandi studiosi di birra, Charlie Bamforth, è conosciuto proprio con il soprannome “The Pope of Foam”. Beersmith lo ha intervistato più volte sul tema della schiuma, i video sono molto interessanti (link1, link2).

La risposta, secondo me, è semplice: il tema interessa all’industria, o comunque ai grandi birrifici. Ma come mai? Se l’industria è così tecnologica, possibile che non riesca a mettere una schiuma decente su una birra?

Eh, no. A volte non ci riesce. La ragione sta proprio nel processo e negli ingredienti: molto spesso vengono stravolti per ragioni economiche. È pratica comune, per i grandi birrifici industriali, accelerare i processi di produzione o cercare ingredienti di minore qualità per risparmiare sui costi di produzione. È legittimo, ma ha le sue conseguenze.

La tecnica dell’high gravity brewing, ad esempio (ovvero produrre mosti molto concentrati per poi diluirli dopo la fermentazione), è piuttosto diffusa. Così come la sostituzione di ingredienti costosi con altri più economici (malto con zuccheri, o con mais, o con riso). Questo approccio ha inevitabilmente un effetto deleterio sulla schiuma. L’industria, quindi, ha bisogno di metodi “artificiali” per risolvere il problema delle schiume evanescenti, che ai consumatori non piacciono.

Basta pensare alla schiuma della Duvel. Credete davvero che quella sia una schiuma normale per una Belgian Golden Strong Ale? Con quella tenuta? No, non lo è. Anche lì c’è sicuramente un trucco. Niente di male, eh, ma è bene capirsi: sulla schiuma della Duvel si specula da tempo. Quel che è abbastanza certo è che non sia una schiuma naturale per quello stile. Che sia azoto aggiunto in bottiglia o estratto di luppolo tetra, il trucco probabilmente c’è.

Così come non è una schiuma “normale” quella della Guinness spillata a carboazoto, o versata dalla bottiglia con il widget all’interno. Facciamocene una ragione: senza carboazoto, quella schiuma su una stout non viene fuori.

Leggendo sempre l’articolo citato all’inizio del post, è abbastanza chiaro che il target della ricerca sia l’industria, non i microbirrifici craft né tantomeno gli homebrewer. E non solo l’industria della birra, ma l’industria in generale: qualsiasi settore che produca bevande o alimenti schiumogeni e faccia uso di tensioattivi.

Entriamo nel merito dell’articolo

Eccoci, finalmente. Il paper, devo dire, è piuttosto complicato. Difficile da leggere: anche io – che mi ci sono messo con impegno – ho capito solo una piccola parte dei diversi passaggi spiegati.

Un buon riassunto l’ho trovato qui.

In sostanza, è stata monitorata la schiuma di 5 birre: 3 del birrificio trappista Westmalle (Tripel, Dubbel e Single) e 2 lager di birrifici svizzeri (marchi che non conosco).

Conclusioni: le schiume migliori sono state osservate sulla Tripel e su una delle due lager. E fin qui nulla di sconvolgente.

Incidentalmente – ma nell’articolo questo aspetto non viene preso in considerazione – si tratta delle due birre con IBU più alti. La letteratura ci dice che uno dei maggiori fattori che promuovono la tenuta della schiuma sono proprio gli iso-alfa acidi. Non so perché si sorvoli su questo: ci saranno delle ragioni tecniche che mi sono sfuggite.

Secondo i ricercatori, la ragione di questa migliore tenuta di schiuma risiede nella tipologia di proteine individuate: le LTP1. Anche qui, nulla di nuovo: che le proteine LTP1 e le proteine Z siano fattori rilevanti per la schiuma è noto da tempo.

Dove sta quindi la novità? I ricercatori hanno notato come le schiume a maggiore tenuta siano quelle in cui le proteine LTP1 sono state “lavorate” di più. Questo fenomeno viene ricondotto a una maggiore durata/intensità della fermentazione.

In sostanza, il lievito andrebbe a modificare queste proteine rendendole più efficaci nella stabilità della schiuma, grazie ad alcune interazioni dovute alle cosiddette forze di Marangoni (quelle che variano la tensione superficiale di un liquido, come si vede bene in questo video).

Nel testo, gli autori chiamano la fermentazione della Tripel “tripla fermentazione”. Qualcuno si è arrabbiato per questo, ma gli stessi autori hanno poi chiarito che non intendevano una fermentazione ripetuta più volte, bensì una fermentazione più intensa o più lunga – come sarebbe il caso per la Tripel e per la lager (anche se non è chiaro perché l’altra lager non presenti anch’essa un’ottima tenuta di schiuma).

Insomma, il succo dell’articolo riguarda le forze di Marangoni e il livello di degradazione delle proteine LTP1. Però, anche in questo caso, di suggerimenti pratici per i birrai non ne ho trovati. Dovremmo forse allungare la fermentazione delle Dubbel? Che senso avrebbe? Gli stessi autori consigliano di degradare maggiormente le proteine LTP1 (come, con un protein rest?), ma suggeriscono anche di fare attenzione perché questo potrebbe modificare altri elementi importanti per la schiuma. Anche questo, lo sapevamo già.

E quindi?

Insomma, articolo interessante ma di poca utilità pratica per noi homebrewer e, credo, anche per i birrai craft. Non ne metto in discussione il valore tecnico, ma i risvolti pratici sono trascurabili per chi fa birra in casa.

Nell’articolo non viene menzionato l’effetto deleterio che gli enzimi proteasi A, rilasciati dal lievito stressato, possono avere sulla schiuma (qui per saperne di più). Cosa che può avvenire in fermentazioni molto intense, magari gestite con lievito sotto stress (come, ad esempio, nelle produzioni in cui si segue l’approccio high gravity brewing).

In qualche modo, però, il paper conferma che la fermentazione ha un ruolo molto importante sulla tenuta della schiuma. E qui torno al consiglio che do sempre agli homebrewer quando mi raccontano di problemi di schiuma: hai fermentato bene? La temperatura era adeguata? Il tasso di inoculo anche?

Questo, secondo me, rimane il fattore che ha il maggiore impatto sulla schiuma e che si può – e si deve – correggere.

 

 

 

 

2 COMMENTS

  1. Domanda : riguardo il pitching del lievito è da fidarsi di quello che dichiarano le case oppure c’è qualche tool più affidabile di qualcun’altro secondo te…ho qualche problemino di ritenzione proprio con le ultime cotte ed effettivamente ho avuto fermentazioni veloci….nel mio caso sarebbe da levare un po la quantità del lievito per “rallentare” la fermentazione? Grazie

    • Difficiel dirlo. Tecnicamente, può far male alla schiuma sia un underpitching (poco lievito, stressato, rilascio di proteasi A), sia un overpitching (troppo leivito, pochi nutrienti, le cellule cominciano a smontare le proteine della schiuma).

      Il problema è che il tasso di inoculo ideale dipende da moltissimi fattori (tra cui il ceppo di lievito) e il conteggio cellulare in casa è molto difficile da fare.

      Per mia esperienza personale, tenderei ad andare più in over che in under, anche perché l’underpitching può avere impatto negativo sul profilo aromatico. Mediamente, per il lievito secco, mi posizioni leggermente sopra alle indicazioni dei produttori.

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