Torno a scrivere sul blog dopo un paio di settimane di pausa. In questo periodo natalizio ho fermentato le mie prime due birre in fusto: una ricetta consolidata, la Cuppocofee Extra Stout e una sorta di APA/NEIPA molto luppolata, pensata proprio per testare il nuovo processo di infustamento in contropressione. Entrambe sono ancora nei Jolly keg: la prima in cold crash, la seconda in fermentazione. Nei prossimi giorni finiranno in bottiglia e/o in un piccolo fustino da 5 litri, con passaggio in isobarico. Per l’imbottigliamento userò la Beergun della Blichmann, in contropressione ma senza isobarico. Ma di questo avremo modo di parlare in seguito.
Come molti avranno intuito dall’esordio di questo primo post del 2020 e dalle foto pubblicate sul blog nelle ultime settimane, ho deciso di salire sul treno della contropressione/isobarico. A modo mio, ovviamente, per piccoli step e con una analisi ragionata dei risultati. L’approccio rimane invariato: ottenere il miglior prodotto con il minimo sforzo. Vorrei evitare di passare ore a imbottigliare e lo spazio a disposizione in casa è sempre troppo poco: il mio obiettivo è limitare il più possibile l’attrezzatura da gestire e il tempo da dedicare alla produzione. Tutto ciò cercando costantemente di migliorare le mie birre casalinghe.
Voglio inaugurare questo nuovo anno di post e questa nuova sezione del blog, che con grande fantasia ho chiamato “contropressione”, parlando di teoria. Questo non significa che non parlerò di attrezzatura: lo farò e parecchio, ma i miei racconti saranno sempre intervallati da post più teorici, dove ragioneremo e – spero – discuteremo insieme sulle dinamiche fisiche e chimiche che entrano in gioco quando si parla di contropressione, ossidazione e sistemi isobarici. Senza preconcetti, senza dogmi e con la birra sempre al centro di tutto. L’attrezzatura per me resta funzionale all’obiettivo, non è l’obiettivo in sè.
Proviamo quindi a capire insieme cos’è l’ossidazione e come agisce. Premetto che il campo è estremamente vasto, per molti aspetti ancora in divenire, fuori dalla mia portata e in generale da quella di un appassionato di birra che non abbia un solido background scientifico alle spalle. Non potremo capire tutto nel dettaglio, ma è importante chiarire dei concetti che spesso vengono male interpretati nell’affannoso – e difficile – tentativo di evitare in tutti i modi possibili il contatto della birra con l’aria. Non userò un linguaggio ipertecnico perché non ho il background tecnico/scientifico per farlo. Spero tuttavia di evidenziare i concetti principali senza sparare castronerie. C’è sempre spazio nei commenti per discutere insieme, qualsiasi osservazione è benvenuta.
Seguirò le slide di un breve intervento che ho tenuto lo scorso Novembre alla BrewCon London 2019. Si tratta solo di alcuni spunti, nulla di particolarmente approfondito, che saranno oggetto di post dedicati in seguito. Gli articoli scientifici su questo tema disponibili in rete (molti anche gratis) sono tantissimi. Sebbene alcuni punti fermi esistano, capita sovente che nuovi articoli e ricerche cambino completamente le carte in tavola. Siamo qui per imparare, senza certezze assolute.
Per quanto l’ossidazione possa sembrare un tema recente per chi fa birra in casa, a livello industriale viene studiato da moltissimi anni, e non solo nella produzione di birra o vino. Tra i produttori casalinghi la consapevolezza è arrivata con le birre luppolate e in particolare con le New England IPA, su cui gli effetti dei fenomeni ossidativi hanno un impatto evidente sia sul versante aromatico che su quello visivo.
È infatti piuttosto facile rendersi conto dell’effetto dell’ossidazione su birre cariche di luppolo come le NEIPA: tendono ad acquisire un colore marrone scuro, tipo acqua sporca, o anche rosato e in genere a scurirsi dopo poco tempo. A volte, anche in assenza di malto crystal in ricette, prendono un colore ambrato immediatamente riconducibile all’ossidazione.
Tuttavia, l’ossidazione non ha effetto solamente sul luppolo, ma anche sugli altri ingredienti che compongono la birra. E non tutta l’ossidazione è negativa, basta pensare alle note fruttate di un buon barley wine invecchiato: sfumature aromatiche molto piacevoli che ricordano la frutta rossa, i vini fortificati o gli sherry. Ma cos’è, esattamente, l’ossidazione?
Dal punto di vista meramente elettrochimico, l’ossidazione avviene quando c’è un passaggio di elettroni tra due elementi. Può quindi coinvolgere diversi composti chimici, non necessariamente l’ossigeno. Esistono alcuni elementi più instabili, o più attivi, che tendono ad attrarre con più facilità elettroni da altri elementi. Tra questi c’è appunto l’ossigeno, ma anche il cloro presenta questa caratteristica.
Quando due elementi sono coinvolti nello scambio di elettroni, quello che li perde viene definiti “ossidato”, mentre quello che li riceve viene definito “ridotto” (gli elettroni hanno carica negativa, riducono quindi la carica complessiva dell’elemento che li acquisisce). In una reazione di ossidazione c’è sempre un elemento che viene ossidato e uno che viene ridotto. il primo perde elettroni, il secondo li acquisisce.
Quando un elemento perde elettroni, le sue proprietà chimiche possono variare, anche drasticamente. Basta pensare al ferro, in origine duro e quasi indistruttibile; quando perde elettroni (ovvero quando si ossida) forma ossido ferrico, ovvero ruggine. Stesso discorso per una mela tagliata a metà: i polifenoli esposti all’aria si ossidano velocemente, formando catene più lunghe che catturano la luce creando una superficie marroncina.
In realtà, al contrario di quanto si pensi, l’ossigeno in sè, nella forma in cui si trova disperso nell’atmosfera, non è particolarmente ossidante. È questa la ragione per cui il ferro non arrugginisce in presenza di sola aria secca: la ruggine si forma a contatto con aria umida, mentre il ferro si preserva in ambienti privi di umidità anche se a contatto con l’aria. L’ossigeno ha bisogno dell’acqua per formare i radicali liberi che ossidano il ferro. Nella birra avviene la stessa cosa: a reagire con gli elementi della birra sono le forme attivate dell’ossigeno dette ROS (Reactive Oxygen Species). Queste, che sono dei radicali liberi, si formano quando l’ossigeno molecolare (ovvero l’ossigeno che dall’atmosfera passa nella birra) reagisce con i metalli come ferro o rame; oppure in presenza di luce o calore, che forniscono energia sufficiente per stimolare la formazione di ROS. Ferro e rame possono provenire dall’acqua utilizzata in produzione, ma anche dal contatto con serpentine o scambiatori in rame, ad esempio.
L’ossigeno è uno dei composti che possono ossidare gli elementi della birra, ma non l’unico. Come vedremo meglio nel seguito, le melanoidine ossidate possono agire a loro volta da elementi ossidanti (ovvero ricettori di elettroni) anche in assenza di ossigeno molecolare disciolto nella birra.
I possibili percorsi ossidativi nella birra sono moltissimi e piuttosto difficili da comprendere e seguire nel dettaglio, anche perché in molti casi gli effetti organolettici non sono facilmente identificabili. Alcuni aromi indesiderati possono derivare dall’interazione di diversi fenomeni, sia ossidativi che degenerativi, causati dai più disparati fattori e difficili da individuare.
Possiamo però provare a isolare alcuni legami causa-effetto piuttosto evidenti e dimostrati, tracciando un collegamento tra ingrediente, composti sensibili all’ossidazione ed effetto sul profilo organolettico e visivo della birra. I composti presenti nella birra potenzialmente soggetti a ossidazione sono tantissimi, ma è possibile raggrupparli in cinque macro-categorie riconducibili ai tre ingredienti principali: malto, luppolo e lievito.
MELANOIDINE
Le melanoidine sono composti aromatici che si formano a seguito della reazione di Maillard. Perchè questa avvenga devono essere presenti zuccheri, amminoacidi (proteine), acqua e calore. Gli aromi liberati dalle melanoidine sono molteplici e complessi: dal panificato alla crosta di pane, dal pane bruciato al miele ma anche nocciola, prugna, frutti rossi e molto altro.
La reazione di Maillard avviene principalmente durante il processo di produzione del malto, quando il chicco ancora umido che contiene amidi, zuccheri e proteine viene sottoposto al calore per l’asciugatura e/o la tostatura. I malti base, specialmente il pilsner, hanno un contenuto basso di melanoidine, che aumenta con il livello di tostatura del malto.
La reazione di Maillard procede velocemente a temperature sopra i 100°C, ma avviene anche a temperatura ambiente, sebbene molto lentamente, purché in presenza dei tre elementi fondamentali: zuccheri, amminoacidi e acqua. È proprio questa la ragione per cui l’estratto di malto liquido, anche se lasciato chiuso nella sua confezione, con il tempo scurisce. La reazione di Maillard avviene anche durante la bollitura del mosto e addirittura durante l’invecchiamento della birra, specialmente se esposta a temperature elevate.
L’aspetto curioso delle melanoidine è che in realtà si comportano come antiossidanti (oxygen scavengers). Sono composti che tendono facilmente a interagire con i radicali liberi, cedendo elettroni e ossidandosi. Si comportano quindi come protezione contro l’ossidazione nella birra. Le melanoidine ossidate hanno però effetti negativi sulla stabilità della birra per diverse ragioni:
- perdono espressività aromatica
- possono unirsi e formare composti più lunghi che assorbono la luce scurendo la birra
- possono produrre aromi non molto piacevoli che ricordano la muffa e la cantina (musty)
- una volta ossidate, possono agire esse stesse da agenti ossidanti, ovvero acquisire nuovamente elettroni da altri composti presenti nella birra.
Quest’ultimo punto è molto importante, perché introduce un elemento critico per il processo di produzione: anche in assenza di ossigeno disciolto in bottiglia, la birra può ossidarsi proprio a causa delle melanoidine: “Melanoidins in the reduced state are flavor protectors (known as reductones), but in their oxidized forms are often able to oxidize other compounds into staling compounds” (cfr. Staving Off The Staling Compounds, by Scott Bickham).
L’ossigenazione a caldo (HSA, Hot Side Aeration), ovvero l’ossidazione che avviene durante la fase di produzione del mosto (ammostamento, sparge e trasferimenti vari di mosto caldo) può ossidare molto velocemente le melanoidine. Se da un lato il mosto caldo tende a respingere l’ossigeno (che è molto poco solubile nei liquidi caldi), d’altro canto il calore velocizza la formazione di ROS (radicali liberi) che possono ossidare le melanoidine nel giro di pochi secondi durante la produzione a caldo.
Questo tipo di ossidazione (HSA) non si manifesta con effetti evidenti nell’immediato (a meno di un imbrunimento e di una perdita nell’intensità “maltata”), ma le melanoidine ossidate possono portare danni nel lungo periodo, anche in assenza di ossigeno.
L’ossidazione delle melanoidine a caldo è anche la ragione per cui birre con una piccola percentuale di malti crystal (come le IPA di vecchia scuola) sono poco stabili nel tempo: una volta che le melanoidine vengono ossidate a caldo (è quasi impossibile evitarlo del tutto), agiscono a loro volta da agenti ossidanti rendendo la birra instabile. Tuttavia, quando la concentrazione delle melanoidine aumenta (come ad esempio nelle birre scure), l’azione antiossidante diventa preponderante e la birra si mantiene stabile più a lungo.
Spesso si legge che l’ossidazione delle melanoidine produce quegli aromi di frutta rossa e vini fortificati tipici dei barley wine invecchiati, ma dalle letture che ho fatto non mi sembra sia esattamente così. In realtà questi aromi derivano dall’azione che le melanoidine esercitano su un altro composto presente nella birra, formando aldeidi. Parliamo degli alcoli superiori.
ALCOLI SUPERIORI
Gli alcoli superiori (fusel alcohols ) vengono prodotti dal lievito durante la fermentazione, in misura maggiore in condizioni di stress quali alta densità iniziale (alta OG), alta temperatura di fermentazione, scarsità di nutrienti nel mosto (alta concentrazione di zuccheri semplici). Gli alcoli superiori danno una sensazione di bruciore alla gola, che tende a ridursi con il passare del tempo grazie alla loro trasformazione in aldeidi.
A differenza dell’esterificazione che unisce alcoli superiori e acidi per formare esteri e che può avviene in tempi ragionevoli solo in presenza di lievito attivo (e degli enzimi transferasi che esso produce), le aldeidi si formano per ossidazione partendo dagli alcoli superiori, anche in assenza di lievito attivo.
Un aspetto molto interessante dell’ossidazione degli alcoli superiori è stato esplicitato in un articolo di Nahoki Hasmimoto pubblicato addirittura nel 1971 dal titolo Oxidation of higher alcohols by melanoidins in beer: “Molecular oxygen does not oxidize alcohols in the absence of melanoidins, but accelerates their oxidation by melanoidins“. Nel piccolo grafico nel riquadro dell’immagine in alto, estratto dall’articolo di Hashimoto, viene ben evidenziato come l’ossigeno molecolare, in assenza di melanoidine, non induca alcuna ossidazione degli alcoli superiori (seconda colonnina orizzontale, praticamente a zero). Le melanoidine da sole portano alla formazione di aldeidi dagli alcoli superiori (terza colonnina), mentre melanoidine e ossigeno insieme aumentano ulteriormente la formazione delle aldeidi aromatiche.
Le aldeidi che possono formarsi per ossidazione degli alcoli superiori sono molteplici, ma le più comuni producono i famosi e conosciuti aromi di madera, sherry e frutta rossa. È anche importante che l’invecchiamento avvenga a temperature moderate (15/20°C), onde evitare che altre ossidazioni dagli effetti aromatici negativi (ad esempio cartone bagnato, di cui parleremo nella prossima puntata) prevalgano sull’effetto positivo delle aldeidi fruttate.
Ovviamente nessun birraio sano di mente introdurrebbe volutamente ossigeno nella birra per promuovere l’ossidazione degli alcoli superiori, ma è chiaro che processi controllati e lunghi come il passaggio in botte, che se ben gestito favorisce uno scambio lento di ossigeno con l’ambiente, possono indurre lo sviluppo di questo tipo di sfumature aromatiche. Questa visione dà anche un senso pratico alla lunga bollitura tipica dei barley wine prodotti partendo da solo malto base, in quanto favorisce lo sviluppo di melanoidine in malti che per loro natura ne contengono molto poche.
NELLA PROSSIMA PUNTATA…
…parleremo di ossidazione con riferimento a lipidi, polifenoli e composti aromatici del luppolo (link alla seconda parte).
Bravo, un articolomolto interessante. Aspetto con interesse il seguito.
Grazie!
Complimenti vivissimi per il tuo blog, che ho conosciuto da poco e apprezzato sin da subito. Articolo molto molto interessante. Mi chiedevo una cosa: quanto può incidere l’ossigenazione del mosto subito dopo aver inoculato il lievito? Personalmente sono un novizio e ho brassato da poco la mia terza birra. Effettuo l’ossigenazione del mosto attraverso il famoso ossigenatore da acquario, e purtuttavia non ho trovato dati certi sulle tempistiche in tal senso (su alcuni forum ho addirittura trovato che andrebbe effettuata per 30 minuti!). A questo punto la domanda a mio avviso diviene ancora più pregnante: se con l’ossigenazione del mosto non è possibile incamerare più di un tot (nella migliore delle ipotesi 8-10 ppm), quanto questa può incidere sui processi da te descritti? Saluti
Ciao Francesco, buona domanda (me la sono posta anche io tante volte). Le informazioni che ho raccolto da diverse fonti (libri e articoli) sono le seguenti:
– con la pompetta da acquario (e in generale con l’aria) non si arriva oltre le 10-12 ppm di ossigeno disciolto, quindi il problema non si pone perchè il lievito è un grado di assorbirlo senza problemi nel giro di poche ore
– se si ossigena con bombola di Ossigeno, invece, si può arrivare anche a valori molto più alti (30-35 ppm, c’è un articolo su MoreBeer.com dove riportano le misure). Siamo ben oltre il massimo limite di solubilità dell’ossigeno nel mosto a temperatura ambiente, quindi l’ossigeno in eccesso tenderà a uscire e tornare nell’aria
– a 20°C le ossidazioni nel mosto procedono molto lentamente, quindi è molto probabile che nel breve periodo di sovrasaturazione (ore) non accada nulla anche avendo esagerato con il dosaggio.
Spero di aver chiarito i tuoi dubbi.
Chiarissimo come sempre. D’altronde sotto un certo profilo, la mia domanda era retorica, essendo comunque sostanzialmente necessario ossigenare in quella fase per permettere alle cellule di lievito di prepararsi adeguatamente alle successive fasi della fermentazione. In realtà la cosa riveste comunque interesse “scientifico” e pertanto a mio avviso meritevole di approfondimento. La tua risposta è stata chiara e puntuale. Diciamo che se anche non si volesse ossigenare il mosto dopo l’inoculo, questo non porterebbe ad alcuna prevenzione degli effetti deleteri ossigeno-dipendenti… Thanks!
Ciao Frank ottimo articolo, come sempre. Mi sembra di capire che quindi i sistemi All in One (e io ne posseggo uno) avrebbero il problema di ossigenazione a caldo durante lo sparge. In questa fase infatti si solleva il cestello contenente i grani e il mosto viene raccolto nello stesso tino dove si è eseguito l’ammostamento. Successivamente si introduce l’acqua dello sparge dall’alto sul cestello dei grani mantenendo comunque un battente che dovrebbe mantenere i grani stessi immersi e protetti dall’aria. Ma l’acqua che passa attraverso le trebbie, lascia il cestello e arriva per gravità nel tino sottostante è esposta all’aria… molto esposta in quanto si tratta di gocce. Quindi non c’è modo di evitare l’ossigenazione a caldo in questa fase.
Io ho la fortuna di avere un tino accessorio. Secondo te avrebbe senso utilizzarlo a mo di sistema a 3 tini durante la fase di sparge? L’unico problema è che poi da questo tino accessorio dovrei rimettere il mosto
Nel tino originario per fare la bollitura. Cosa ne pensi? Ne varrebbe la pena?
L’ossidazione a caldo dà problemi molto limitati, nella maggior parte dei sasi ininfluenti. Se cerchi di ridurla ma poi ti rimetti a spostare il mosto, secondo me non vale la pena. Io sono passato a un tre tini classico perché mi diverte e non ci metto tantissimo tempo in più, ma non credo che l’ossidazione a caldo che si introduce con gli AIO possa influire così tanto, specialmente se poi la birra viene conservata bene e bevuta in tempi ragionevoli. L’ossidazione a caldo, se non estrema, è un problema dei grandi birrifici che poi pastorizzano le birre e le lasciano magari in giro al caldo nei magazzini della GdO. Per noi hb non la reputo così influente sul risultato finale.