Eccoci giunti alla seconda parte di questa panoramica sull’ossidazione (link alla prima parte). È utile ripetere che le mie considerazioni, basate sulla lettura di diversi articoli e testi tecnici (alcuni dei quali citati nei post) non hanno la pretesa di essere esaustive né incontrovertibili. Il tema è molto complesso, calibrare le azioni in base a tutte le possibili conseguenze è impossibile. Alcune cose è utile saperle, ma non è detto che occorra per forza mettere in campo delle contromisure immediate. Mi riferisco soprattutto all’ossidazione a caldo, allo splashing, all’utilizzo di acqua non deaerata per lo sparge e l’ammostamento.

Se è vero che questo tipo di ossidazione ha delle conseguenze in genere negative sul profilo organolettico della birra, è bene anche ricordare che l’applicazione di contromisure adeguate, a livello casalingo ma a volte anche nei birrifici più grandi, può essere talmente oneroso (e complicato) da non bilanciare il rischio. C’è chi ha votato la propria esistenza da homebrewer alla riduzione delle ossidazioni a 360 gradi (ne è un esempio il blog Low Oxygen Brewing) ma è una visione estrema che personalmente mi lascia molto perplesso.

Come vedremo nella parte finale di questo post, esistono dei piccoli compromessi più che accettabili per produrre buona birra, senza necessariamente sconfinare nella paranoia totale. L’importante è conoscere, sapere, e poi valutare il da farsi. Soprattutto, è importante procedere per piccoli passi: avere la pretesa di costruire l’impianto atomico da subito, senza aver magari nemmeno mai fatto una cotta all-grain, non porta buoni risultati. Ma questo lo vedremo in fondo al post. Procediamo con ordine riprendendo da dove avevamo lasciato.

LIPIDI

I lipidi, detti anche grassi, costituiscono una classe di composti chimici piuttosto ampia. Nell’ambito birrario, quando si parla di lipidi solitamente ci si riferisce ad acidi grassi o steroli. Gli acidi grassi che possono finire nel mosto o nella birra derivano principalmente da due fonti: i cereali utilizzati in fase di ammostamento e le cellule di lievito.

I primi si trovano nel germe dei chicchi e sono per la maggior parte acidi grassi insaturi come l’acido linoleico e oleico. Nel chicco sono presenti anche acidi grassi saturi come l’acido palmitico. Gli acidi grassi insaturi sono maggiormente reattivi e più sensibili all’ossidazione, specialmente quella a caldo.

Il lievito, durante la fermentazione, sintetizza acidi grassi che utilizza per la costruzione delle membrane cellulari (steroli) e per altri processi metabolici. Alcuni si legano agli alcoli durante la fermentazione, formando esteri, ovvero quegli aromi fruttati tipici delle alte fermentazioni. Durante la fermentazione non c’è pericolo che questi acidi grassi vengano ossidati perché il mosto è praticamente privo di ossigeno e radicali liberi, ma può accadere che dopo la fermentazione le cellule di lievito si rompano (lisi) liberando gli acidi grassi nella birra. A questo punto possono avvenire scambi di elettroni con altri elementi (ossigeno,ma anche melanoidine ossidate) che ne determinano l’ossidazione con effetto negativi sul profilo organolettico della birra.

L’ossidazione degli acidi grassi è un processo che è stato studiato in modo approfondito in diversi campi che spaziano dalla medicina alla tecnologia alimentare. Difficile comprenderlo a fondo senza avere basi adeguate, ma alcuni aspetti possiamo semplificarli circoscrivendoli agli effetti che l’ossidazione degli acidi grassi produce nella birra.

Gli acidi grassi vengono attaccati dai radicali liberi (i ROS, di cui abbiamo parlato nel post precedente) scatenando reazioni a catena che possono portare alla formazione di aldeidi di diverse tipologie. Difficile elencarle tutte e ancora più difficile associare a ciascuna aldeide un particolare aroma, ma in genere gli aromi associati a queste aldeidi hanno un impatto negativo sul profilo organolettico della birra. Si parla di aromi di “vecchio” (stale), tra cui i più conosciuti e studiati sono il cartone bagnato (prodotto dall’aldeide trans-2-nonenale) e quello di erbaceo/cetriolo (generato dall’aldeide esanale).

Diverse ricerche hanno evidenziato come la formazione di queste aldeidi venga scatenata dall’ossidazione degli acidi grassi a caldo, per poi svilupparsi nel tempo indipendentemente dalla presenza o meno di ossigeno molecolare nella bottiglia o nel fusto. La brutta notizia è che gli acidi grassi insaturi sono molto reattivi e facilmente ossidabili alle temperature di ammostamento e di sparge. L’ossidazione degli acidi grassi è inoltre accelerata da alcuni enzimi chiamati Lipossigenasi (LOX), che fortunatamente sono termolabili e vengono disattivati dalle alte temperature. Le LOX si formano nel malto durante la maltazione ma vengono denaturate dalla tostatura; sopravvivono, in piccole dosi, solo nei malti poco tostati come il pilsner. Riescono a ossidare gli acidi grassi nel giro di qualche secondo in presenza di ossigeno nella sua forma non attivata (quindi anche in assenza di ROS), ma fortunatamente si denaturano sopra i 50-55°C. È quindi praticamente impossibile ossidare gli acidi grassi per via enzimatica se si fa mash-in alle tipiche temperature di ammostamento, mentre si rischia passando per il protein rest o ancora peggio per altri step sotto i 50°C.

Tuttavia, l’ossidazione degli acidi grassi può avvenire ugualmente grazie ai ROS (radicali liberi dell’ossigeno) che sono presenti nell’acqua riscaldata se non viene deaerata o se entra a contatto con l’atmosfera durante i vari passaggi produttivi a caldo. Questa ossidazione non produce effetti immediati, ma produce lipidi in stato ossidato che possono successivamente attivare ossidazioni a catena, sia di altri acidi grassi che di polifenoli. E questo, è bene ripeterlo, avviene anche in assenza di ossigeno molecolare disciolto nella birra. Ne fa una ottima rappresentazione Fix nel suo libro “Principles of brewing science”.

Da “Principles of Brewing Science”, George J. Fix

Che l’ossidazione degli acidi grassi a caldo sia praticamente inevitabile è evidente dal fatto che il cartone bagnato (aldeide trans-2-nonenale) è un difetto molto comune nelle lager industriali che acquistiamo al supermercato. Possibile che impianti così all’avanguardia non riescano a eliminare del tutto l’ossidazione degli acidi grassi a caldo? Evidentemente non è cosa facile. Tuttavia il difetto cartone bagnato si riscontra molto raramente nelle birre casalinghe, anche nei casi di splashing selvaggio durante la produzione (tipo sistemi All-In-One quando si alza il cestello). Questo può essere spiegato considerando che l’ossidazione a caldo è solo il primo degli step che portano alla formazione di aldeidi; i passaggi successivi avvengono durante la conservazione, con o senza ossigeno, e vengono accelerati dal calore. Una conservazione al caldo per molti mesi (come ad esempio le birre industriali nei magazzini non refrigerati) accelera queste reazioni e quindi la formazione delle aldeidi che tendono ad emergere di più in birre dall’equilibrio aromatico delicato come le lager industriali.

Come ridurre la concentrazione di lipidi ossidati nel mosto?

  • macinare non troppo finemente per evitare di rompere il germe del cereale che contiene la maggior parte degli acidi grassi
  • ridurre lo splashing
  • evitare inutili protein rest o step a temperatura più basse (a meno di casi eccezionali dove realmente se ne ha bisogno)
  • filtrare bene il mosto dopo il mash
  • lasciare più trub possibile nel fondo della pentola di boil.

C’è da dire che un po’ di trub aiuta il lievito durante la fermentazione. Le cellule infatti utilizzano gli acidi grassi presenti nel mosto per il proprio metabolismo. Tuttavia, valutare esattamente il quantitativo di acidi grassi da portare nel fermentatore è impresa ardua. Quindi, meglio evitare del tutto e ossigenare per bene, lasciando che il lievito produca da sé i lipidi di cui necessita.

Per quanto riguarda gli acidi grassi liberati dalla lisi delle cellule di lievito, l’effetto è più o meno lo stesso. In presenza di ROS o di agenti ossidanti (come le melanoidine ossidate) possono produrre aldeidi con impatto aromatico non proprio gradevole sulla birra. In molti sostengono che il famoso aroma di “salamoia” che spesso emerge nelle birre scure derivi proprio dall’ossidazione di acidi grassi fuoriusciti dalle cellule di lievito (maggiori dettagli qui). Non ho trovato approfondimenti scientifici che confermino questa teoria, che trovo tuttavia molto interessante e alquanto verosimile, anche se c’è da dire che in letteratura l’ossigeno a freddo viene considerato poco reattivo nei confronti dei lipidi (ma se ci sono in giro altri lipidi ossidati, potrebbero indurre ossidazione da lipidi a lipidi).

POLIFENOLI

I polifenoli sono una categoria molto ampia di composti (Wikipedia ascrive a questo grande gruppo circa 5.000 molecole divers3). Sebbene i luppoli siano ricchi di polifenoli, quelli presenti nella birra derivano per la maggior parte dai malti (mediamente intorno al 75%).Questo perché nelle ricette il peso dei malti è maggiore di uno o due ordini di grandezza rispetto a quello dei luppoli. Semplificando al massimo, i polifenoli possono essere ricondotti a due sotto famiglie: quelli semplici (a catena corta) e quelli complessi (a catena lunga). Nella birra, la maggior parte dei polifenoli sono a catena lunga, tra cui i più frequenti sono i tannini che derivano dalle glumelle (bucce) dei malti. Tra i polifenoli troviamo anche le antocianine, responsabili del colore delle piante e lo xantumolo, un flavonoide studiato in particolare nelle ricerche sulle New England IPA per via della sua tendenza a rimanere in soluzione nelle birre con pesante dry hopping aumentando gli IBU misurati senza apportare significativo amaro.

Come le melanoidine, anche i polifenoli (specialmente alcune tipologie come i flavonoidi) sono antiossidanti. Per questo si dice che l’avena fa molto bene al corpo per le sue proprietà antiossidanti, dovute all’alta concentrazione di acido ferulico e cumarico, appartenenti alla famiglia dei polifenoli e in particolare agli acidi fenolici. I polifenoli vengono aggrediti dai radicali liberi presenti nel corpo che altrimenti andrebbero a ossidare altre cellule con effetti negativi per la salute.

Il problema è che i polifenoli ossidati tendono a formare polifenoli a catena più lunga. Questo, nella birra, produce effetti indesiderati, tra cui:

  • assorbimento maggiore della luce e imbrunimento del colore
  • chill-haze, ovvero torbidità a freddo. Questa è dovuta al legame che i polifenoli più lunghi tendono a creare con le proteine quando la birra si raffredda. Questo tipo di torbidità compare a freddo ma sparisce a temperatura ambiente (i legami si sciolgono con il calore). Successivi e numerosi passaggi caldo-freddo tendono a solidificare questi legami producendo torbidità permanente
  • aumento dell’astringenza percepita al palato.

Come e quando si ossidano i polifenoli? L’ossidazione può avvenire sia a caldo che a freddo, ad opera dell’ossigeno attivato (ROS) o anche di altri composti ossidati (lipidi, melanoidine). La solubilità dei polifenoli nell’acqua cresce con il calore e con l’aumentare del pH: meglio quindi evitare uno sparge troppo caldo e tenere il pH di mash e sparge sotto a 5.6. Valgono sempre le stesse raccomandazioni per limitare l’ossidazione a caldo e l’ingresso di ossigeno in bottiglia.

COMPOSTI AROMATICI DEL LUPPOLO

Ed eccoci arrivati all’elemento più blasonato: il luppolo. Quando si parla di ossidazione, in genere si parla di luppolo. In particolare, dei composti aromatici del luppolo che, nemmeno a dirlo, sono migliaia. Impossibile (e anche poco utile, direi) fare una trattazione approfondita, anche perché non esistono molti studi specifici sull’ossidazione di ciascuno di questi composti.

L’aspetto curioso è che il luppolo contiene già dei composti ossidati che si formano durante la crescita della pianta, la raccolta, l’essiccatura, la pellettizzazione (ovvero la riduzione a pellet), la bollitura del mosto. Derivano per lo più dall’ossidazione dei terpeni e vengono chiamati genericamente terpenoidi, ma troviamo in questa classe di composti “ossigenati” anche epossidi, alcoli, esteri, aldeidi, chetoni.

Questi composti ossigenati hanno aromi fruttati molto piacevoli che spaziano dagli agrumi, ai fiori, all’erbaceo. Scott Janish, nel suo libro “The New IPA”, ha addirittura ipotizzato che i luppoli, se conservati bene (al freddo e comunque sottovuoto), possano beneficiare di micro ossidazioni (anche sottovuoto una minima percentuale di ossigeno rimane) amplificando il ventaglio aromatico dovuto ai terpeni ossidati.

Tuttavia è impossibile controllare questo tipo di ossidazioni “positive” che vengono sovrastate da quelle negative quando nella birra che imbottigliamo è presente ossigeno disciolto o altri composti già ossidati che possono agire a loro volta da ossidanti. Quando i composti aromatici del luppolo vengono ossidati cambiano struttura molecolare dando luogo a molecole differenti, spesso con soglie di percezione molto più alte e quindi non percepibili in aroma a parità di concentrazione.

Ne risulta un aroma generalmente spento, poco vivace, spesso monocorde su note fruttate che sembrano quasi artificiali. Una virata aromatica tipica delle birre luppolate molto ossidate viaggia verso la marmellata, le caramelle alla frutta (quelle aromatizzate artificialmente), la frutta rossa. Si perdono gli aromi freschi dei terpenoidi come il linalolo (floreale), il geraniolo (floreale), il limonene (agrumi). L’unica raccomandazione che si può fare in questo caso è evitare il più possibile il contatto dell’ossigeno con le birre luppolate. Purtroppo la perdita di aroma è molto veloce in presenza di ossigeno, anche se la birra viene conservata a basse temperature.

Una piccola nota finale sull’ossidazione degli alfa acidi nei luppoli: questa reazione produce acido isovalerico che rilascia il famoso aroma di formaggio/piedi che spesso si riscontra nei luppoli mal conservati. Questo tipo di ossidazione avviene soprattutto nel luppolo prima del suo utilizzo in produzione e della conseguente isomerizzazione degli alfa acidi.

E QUINDI?

A questo punto potrebbe sembrare praticamente impossibile produrre una birra decente senza un sistema di produzione tecnicamente avanzato. Fortunatamente, non è così. Che l’ossigeno (e in generale i composti ossidati) siano nella maggior parte dei casi deleteri per la birra, è una certezza. Fortunatamente, l’impatto dell’ossidazione sul profilo organolettico della birra varia in relazione a molteplici fattori: ingredienti utilizzati, stile prodotto, modalità di conservazione, tempi di consumo. Come produttori casalinghi possiamo esercitare un controllo puntuale su tutta la filiera del nostro prodotto, cosa che i grandi birrifici si sognano. Possiamo scegliere come conservare la birra, quando berla, quando farla assaggiare, quando spedirla a un concorso. Ha senso quindi adeguare i mezzi al fine, evitando di sparare alla formica con una testata nucleare. Per far questo, è fondamentale agire con cognizione di causa: conoscere, capire, sperimentare.

È quindi importante procedere per gradi. Io stesso mi sto muovendo con calma, pesando i vari upgrade all’impianto. E lo sto facendo dopo più di 90 cotte e sei anni di “impianto standard”. Ho cercato prima di migliorare le mie produzioni con i mezzi che avevo, concentrandomi su ingredienti, stili e fermentazioni. Partire da subito a razzo con impianti iper-tecnologici distoglie l’attenzione dal prodotto, dai meccanismi base della produzione, dalla birra che abbiamo nel bicchiere.

Chiudo con un paio di riflessioni pratiche su come iniziare a ridurre gli effetti negativi dell’ossidazione, senza necessariamente dotarsi di attrezzature complesse. Nei prossimi post racconterò come sto applicando queste raccomandazioni nell’evoluzione del mio personale processo produttivo.

Diverse ricerche ed esperimenti evidenziano come le due maggiori criticità delle operazioni di produzione siano lo spazio vuoto che rimane sopra la bottiglia quando viene tappata e la temperatura di conservazione delle bottiglie. Secondo Hasmimoto, una bottiglia con 25ml di spazio di testa vuoto (pieno d’aria) conservata a 50°C per 10 giorni mostra un tasso di deterioramento doppio rispetto alla stessa bottiglia conservata per 3 mesi a temperatura ambiente. Conservare le bottiglie al fresco riduce quindi molto il tasso di deterioramento. Un birrificio non ha grande controllo sulle modalità di conservazione delle proprie bottiglie una volta uscite dal magazzino, un homebrewer sì.

Un altro interessante esperimento mostra come la quantità dell’ossigeno che rimane nello spazio di testa (che per riempimenti standard può variare tra 15ml e 20ml) rimane elevata anche pre-evacuando la bottiglia con una pompa da vuoto, mentre si riduce drasticamente inducendo la schiumatura della birra prima di tappare.  Potrebbe quindi avere più senso concentrarsi sulle strategie per togliere l’aria dallo spazio vuoto dopo aver riempito la bottiglia (es. jetting) piuttosto che sullo svuotamento della bottiglia dall’aria prima del riempimento. Ma di questo avremo modo di parlare nel seguito.

Altro punto importante, la rifermentazione. Imbottigliare birra già carbonata è affascinante, ma non permette errori sulla gestione dell’ossigeno. La rifermentazione in bottiglia garantisce una buona protezione contro eventuale ossigeno residuo (non totale, ma decente). Più velocemente l’ossigeno residuo viene consumato, meglio è. Aggiungere lievito da rifermentazione in birra a temperatura ambiente velocizza la rifermentazione e il riassorbimento dell’ossigeno (link). Ovviamente la rifermentazione non è la soluzione definitiva, specialmente per alcuni stili, ma porta dei benefici che è bene non dimenticare.

Ultimo, ma non meno importante, i diversi effetti dell’ossidazione dipendono dagli ingredienti e quindi dagli stili. Non esiste un unico approccio alla produzione ottimale per tutti gli stili: in alcuni casi non ha senso imbottigliare birra già carbonata, anzi, può ridurre l’espressività del profilo aromatico della birra. Molto spesso un approccio combinato (rifermentazione + riduzione dell’ossigeno) funziona meglio di un approccio estremista, dove un piccolo errore può portare grandi danni. Calibrare il proprio approccio, sempre.

Nel seguito un mio intervento video per la Brasseria Veneta, dove ripercorro i principali passaggi di questi due post.

 

39 COMMENTS

  1. Complimenti Francesco per i tuoi articoli, sempre ben argomentati tecnicamente, ma senza perdere il focus sul fatto che si parla di home brewing, ovvero un hobby in cui tempo e risorse sono limitati. Riguardo all’ossidazione a caldo del mosto, di cui parlavi nella prima parte, avrei un dubbio relativamente al whirlpool. Per effettuarlo, io utilizzo un avvitatore a cui attacco il classico mestolo inox. Ho letto che il whirlpool andrebbe eseguito per 15 minuti, compresa la successiva decantazione. Questa durata ti torna, oppure visto che riesco a fare un bel vortice in pochi secondi con l’avvitatore, posso ridurre questo tempo per limitare il tempo di esposizione del mosto caldo all’aria? Viceversa, secondo te questo sistema potrebbe essere troppo “violento” per il mosto, rischiando di ossigenarlo? Come lo fai tu il whirlpool? Grazie!

    • Ho poca esperienza con il whirpool perché sono anni che l’ho completamente eliminato. Siccome faccio pochi litri e freddo con serpentina a immersione, trovo molto più comodo passare dalla pentola di bollitura al fermentatore con un sifone pescando dall’alto. In questo caso il whirpool non serve perché mi fermo con il trasferimento non appena arrivo ai depositi a fondo pentola. Detto ciò, secondo me fare whirpool con l’avvitatore è eccessivo, rischi davvero ossidazione. In genere si fa delicatamente girando con la paletta, oppure con una pompa che crea ricircolo e vortice. Inoltre 15 minuti mi sembrano tanti, hanno senso se aggiungi luppolo in whirpool, altrimenti basta qualche decina di secondi probabilmente. Cmq puoi provare a ridurre il tempo e vedere che effetto ha. Io mi trovo benissimo con il sifone, ho addirittura la pentola di bollitura senza rubinetto. 🙂

  2. Ciao Frank, chiarissimo come sempre! Volevo sapere cosa ne pensi del travaso prima di imbottigliare (utile per pulire la birra da residui vari ma va ad ossidare enormemente la birra). Grazie

    • Non lo faccio ormai da tempo. Il problema dei sedimenti si risolve sifonando dall’alto. Per lo zucchero faccio priming in bottiglia.

  3. Ciao,
    grazie per il prezioso contributo, a cui vorrei aggiungere anche il mio su questo aspetto.
    Per quanto riguarda la fase calda per ovviare le ossidazioni, aggiungo un grammo di bisolfito all’ acqua necessaria per il mash (faccio cotte da 50 lt.) e ovviamente cerco di splashare il meno possibile durante il procedimento.
    Per la fase post fermentazione faccio da sempre ( sono HBrewer da una ventina di anni) imbottigliamento con spunding con lieviti lager, che non ho mai rifermentato in bottiglia, e recentemente anche con lieviti ale. Devo dire che i risultati ci sono, soprattutto in termini di durata dei aromi luppolati. Con questo metodo si imbottiglia direttamente dal primario, quindi si salta un travaso e relativo ossigenamento della birra. Il prossimo passo sarà fare un priming di bisolfito con spunding nelle IPA, sempre più complicato 😉

    • Grazie per il contributo! L’idea di aggiungere metabisolfito non mi fa impazzire perchè modifica i valori dell’acqua se non è dosato alla perfezione, cosa che è difficile fare se non si misura l’ossigeno disciolto. Ma non escludo di provare altre strade in futuro, il viaggio è ancora lungo!

  4. Ciao Frank! Domanda forse stupida: quanto può incidere il ricircolo in pompa del mosto sull’eventuale ossigenazione? Da questa domanda potenzialmente potrebbe nascere la domanda seguente, ovvero qual è il corretto utilizzo della pompa da ricircolo?
    Thanks!

    • Se i tubi sono ben collegati e il flusso viene immesso sotto la superficie del mosto, non vedo problemi di alcun tipo relativi all’ossidazione.

    • Ne avevo letto, ma leggendo meglio ho capito che sono utili per assorbire l’ossigeno che entra dal tappo, non quello che c’è nel collo. Del resto, se fossero davvero così efficaci non staremmo tutti qui a impiccarci a tappare sulla schiuma, questi tappi avrebbero risolto direttamente il problema anche per l’industria.

  5. Complimenti per l’articolo Frank e grazie per gli approfondimenti che ci regali e il modo in cui li tratti.
    Riguardo al rallentamento dell’ossidazione col diminuire della temperatura, vorrei condividere questa mia esperienza:
    nell’ultima cotta che ho fatto ho provato a mettere alcune bottiglie in frigo a 4 °C dopo la rifermentazione.
    In realtà, assaggiando bottiglie tenute a Temp. ambiente e quelle tenute in frigo, mi è sembrato di avvertire maggiormente l’ossidazione in quelle tenute in frigo…. Mi sono dato come spiegazione il fatto che diminuendo la temperatura, ho favorito la solubilizzazione dell’aria dello spazio di testa all’interno della birra…. Nella prossima.cotta proverò a rifare l’esperimento. Volevo sapere se avevi mai fatto questa prova e se questa spiegazione ti sembra plausibile (nonostante vada in contrasto con quanto scritto sui libri)

    • Il ragionamento potrebbe anche starci, ma mi sembra poco probabile. Puoi verificare cmq aspettando un tempo maggiore e verificando se anche quelle tenute al caldo si ossidano. Il punto è che è difficile stimare quale effetto prevalga: è vero che il freddo favorisce la solubilizzazione, ma è anche vero che il caldo accelera (e di molto) l’ossidazione.

  6. Ciao, complimenti per l’articolo che va studiatopiù che letto , e grazie per evitarci di leggere una montagna di libri. :-). Ti volevo chiedere quando dici che alcuni stili di birre non hanno senso di essere imbottigliate già carbonate, vale lo stesso discrso vale anche se infutate ?

  7. Ciao Frank, avrei un’altra domanda: sto fermentando una birra che vedo essere molto torbida e quindi dovrò necessariamente fare un travaso prima di imbottigliare, anche se solitamente seguo il tuo consiglio di evitare, ove possibile, i travasi proprio per limitare il rischio di ossidazione. La domanda è: è meglio travasare quando la fermentazione tumultuosa è terminata oppure è meglio travasare un pò prima della sua conclusione, per essere sicuri di portarsi dietro ancora lieviti in grado di consumare l’ossigeno presente nel secondo fermentatore? Grazie come sempre

    • Non vedo assolutamente nessuna correlazione tra il numero dei travasi e la limpidezza della birra. Quello che deve precipitare precipita già nel primo contenitore (più velocemente con il freddo) quello che non precipita non precipita lo stesso, anche se cambi contenitore. L’unica cosa che cambia è che, se non travasi, avrai un sedimento più alto vicino al rubinetto. Ma per questo basta sifonare dall’alto o inclinare leggermente il fermentatore durante il cold crash.

  8. Ciao Frank, ho letto che uno dei tanti espedienti per ridurre l’ossidazione è anche quello di ridurre l’ossigeno nell’acqua di sparge, ovvero bollire l’acqua e poi raffreddata velocemente a 78 gradi prima di effettuare lo sparge. Io non l’ho mai fatto, ma volevo sapere se è un’attività che tu o gli esperti lettori di questo blog fate. Grazie mille.

  9. Ciao Frank, seguo sempre il tuo blog e ti ringrazio per tutte le informazioni utili che ci si trovano! Mi chiedevo cosa pensassi delle basse fermentazioni e dei possibili rischi di ossidazione legati ai lunghi periodi di lagerizzazione. C’è il rischio che il sanitizzante splashi nella birra e il mosto rimanga esposto all’ingresso di ossigeno se nel gorgogliatore non c’è più “nulla”… Pensavo che alla fine potesse utile gestire questo lungo periodo tramite un blow off, che ne pensi?

    • Fortunatamente a freddo l’ossidazione rallenta molto. Certo, quando si abbassa la temperatura in un fermentatore non isolato l’aria esterna tende a entrare, e qualche piccolo danno nel lungo periodo può farlo. Mettere un tubo lungo di blow-off può aiutare, ma nella mia esperienza (prima che passassi alla fermentazione in keg) ho notato che il liquido non veniva risucchiato nel tubo di blow-off, dinamica che indicava chiaramente la non perfetta tenuta del fermentatore che, in caso di pressione negativa, faceva probabilmente entrare aria da qualche altro “spiffero” (probabilmente dalle guarnizioni del blowoff o del pozzetto porta sonda). Prova, e vedi come va. PS. metti semplice acqua nel barattolo di blow-off, non serve che sia soluzione sanitizzante (magari chiudi il barattolino con carta stagnola). In questo modo, nel caso venisse risucchiata, non dovresti buttare la birra.

      • Grazie per le spiegazioni e per le dritte, Frank!
        Ultima domanda… Probabilmente ho sbagliato nelle ultime tre cotte (su cui ho il controllo di temperatura e ho potuto fare il cold crash), perchè penso che un pò di sanitizzante (Saniclean al 2.5%) dal gorgogliatore possa anche esserci anche finito nella birra (15 litri)… Ho imbottigliato pensando che in una tale diluzione non potesse essere nocivo… Sbaglio? Ricorro alla strategia “butta tutto” accompagnandolo anche dal mitico hashtag #buttatutto?

  10. Ciao Frank, non so se lo hai già scritto altrove, ma volevo sapere se, per ridurre l’ossidazione è meglio imbottigliare la birra a bassa temperatura o temperatura ambiente. In pratica, dopo il cold crash è meglio imbottigliare subito o aspettare che la temperatura risalga? Immagino che la temperatura possa influenzare il grado di solubilità dell’ossigeno. Però è anche vero che la birra imbottigliata se molto fredda potrebbe ossidarsi più facilmente perchè ci vorrebbe più tempo per il lievito per risvegliarsi e rifermentare (consumando l’ossigeno). Qual’è la tua esperienza? Grazie.

    • Corretto. Io infatti imbottiglio birra a temperatura ambiente con aggiunta di lievito da rifermentazione (CBC o F2, T58 per le belghe). A temperatura ambiente si solubilizza meno ossigeno durante il trasferimento in bottiglia. L’aggiunta di lievito velocizza la rifermentazione e il relativo consumo di ossigeno.

  11. Buongiorno e grazie per le informazioni che ci dai.
    Arrivo alla domanda dopo una premessa.
    Io x evitare ossidazioni o meglio ridurre cerco di non stressare il mosto tranne prima di inoculare il lievito.
    Quindi zero travasi cool crash…ed imbottigliamento con reinoculo lievito e priming con siringa.
    Detto ciò ho visto impianti da HB in vendita, che in fase di ricircolo durante il mash il mosto viene spruzzato o fatto gocciolare velocemente sulla superficie del mosto e non sotto la superficie.
    Questo mi lascia perplesso in termini di ossidazione a caldo cosa pensi su questa modalità di ricicolo splashiando o a spruzzo?

  12. Buongiorno, per completare la domanda sull’ossidazine a caldo di certi impianti di ricircolo, per eccellenza prendo il top che è lo spiedel braumaister.
    Osservando bene in fase di Montoggio e ricircolo il mosto caldo passa dal tubo interno con i grani e si riversa splashiando nell’intercapedine con il tubo esterno.
    Questo per tutto il tempo di mash…ma questo non crea ossidazione a caldo?
    Grazie della risposta.

    • La doccia sicuramente crea un minimo di ossidazione, il meccanismo del Braumaster in cui il mosto scivola lungo le pareti del cilindro, meno. Gli effetti dell’ossidazione a caldo sono variabili in entità, a volte ininfluenti. Io evito il più possibile di ossidare durante il ricircolo, ma anche nei sistemi AIO molti utilizzano un tubo in silicone che finisce sotto al livello del mosto, proprio per evitare di splashare.

  13. Ciao Frank,
    articoli fantastici, complimenti!
    Sui vari forum e blog americani ho letto di molti che attribuiscono danni da ossidazione all’ossigeno aspirato dal fermentatore durante il crash (soprattutto in birre super luppolate).
    Per questo usano dei “contenitori” o palloncini che raccolgono la co2 durante la fermentazione, CO2 che poi viene risucchiata quando si abbatte la temperatura, evitando così che entri ossigeno dannoso.
    Che ne pensi? Oltreoceano vendono addirittura kit appositi per ovviare a questo problema.

    • Conosco il sistema, e probabilmente è utile. C’è poi da dire che è tutto da dimostrare quanto l’ingresso di un po’ di aria durante il cold crash possa influire sull’ossidazione della birra. Io ormai oh risolto perché fermento nel keg e durante il cold crash attacco la bombola di CO2 con pochissima pressione all’attacco del blow-off.

      • Ciao Frank e grazie di tutto, mi aggiungo alla domanda, se posso: è utile mettere carta stagnola per coprire il buco d’ingresso del fermentatore durante il cold crash in modo da evitare per quei 4 o 5 giorni l’ingresso di ossigeno? Insomma, chiuderò in maniera più o meno ermetica.

  14. Buongiorno Frank. Volevo chiedere una cosa: utilizzando l’asta da travaso non si riesce a far schiumare la birra per tappare sulla schiuma. Sbaglio qualcosa io ? Dovrei riempire fino a farla fuoriuscire dalla bottiglia? C’è qualche tecnica particolare o accorgimenti vari da tenere in considerazione? Tnx

    • No, con l’asta e impossibile. Puoi però riempirla fino all’orlo con un pò di manualità. Hai meno protezione contro le “esplosiono” se la birra sovracarbona però, perchè manca il cuscinetto di aria sopra. Quindi fai attenzione. A ogni modo, con l’approccio classico senza attrezzatura e bombola di co2 più di tanto non si puo fare.

  15. Ciao Frank e complimenti come sempre molto utile,allora io per il momento non voglio passare al lato oscuro della contropressione e sto cercando metodi alternativi per ridurre l’ossigeno,volevo porti un paio di domande, quando dici getting per schiumare cosa intendi di preciso nella pratica?xchè fare schiumare una birra imbottigliando con la classica astina da kit non e’ semplice,da qualche parte mi sembra sui video di homebrewing pils qualcuno disse che si poteva aggiungere appena prima di imbottigliare alcune gocce di acqua bollente,te che ne pensi?

    • Ciao Matteo, senza una bombola di CO2 il jetting lo vedo piuttosto complicato. L’acqua calda potrebbe funzionare (come anche l’aggiunta dello zucchero a bottiglia piena che provoca nucleazione e schiuma) ma sinceramente ritengo più facile riempire le bottiglie fino all’orlo e via (inclinando leggermente la bottiglia e poggiando l’estremità dell’asta da travaso sul collo. Il Jetting sifa sparando CO2 durante il riempimento o a riempimento finito, ma serve una Beergun (https://brewingbad.com/2021/04/imbottigliamento-in-contropressione-tre-sistemi-a-confronto/) collegata alla bombola e non è detto che funzioni se la birra non è carbonata.

      • Ciao Frank grazie della info ,sì la soluzione più facile sarebbe riempire fino all’ orlo ma anche la più rischiosa in termine di sicurezza credo,tra il fare o non fare cold crash li sono più dubbioso perché si CO2 non entrebbe ma alla fine il gioco vale davvero la candela?

        • Non vedo grandi rischi a riempire fino all’orlo se la birra non viene sballottolata in lungo e in largo e non è eccessivamente carbonata (le luppolate, più delicate in termini di ossidazione, in genere non lo sono). Secondo, comunque, farsi troppe fisime nella riduzione dell’ossigeno quando non si dispone di bombola di CO2 e sistemi a spinta di pressione, lascia il tempo che trova. Un po’ di attenzione ci sta, senza dubbio, ma la svolta arriva solo quando si passa alla spinta con CO2 e alla saturazione delle bottiglie o dei fusti con CO2. Ci sono passato anche io.

          • Quello certo la soluzione a tutto o quasi sarebbe solo la CO2 ma bisogna comunque arrivarci con calma

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