Sono un grande appassionato, bevitore, giudice e soprattutto produttore di Irish Stout e in generale di birre scure a medio-bassa gradazione. Questa inclinazione mi ha più volte coinvolto in discussioni che riguardano un particolare difetto che sembra manifestarsi – non sempre, ma spesso – unicamente nelle birre caratterizzate da una significativa quantità di malti scuri: l’aroma di salamoia.

Da tempo volevo approfondire e scrivere qualcosa su questo difetto, ma non ho mai trovato l’occasione. Le strane congiunture temporali delle ultime settimane mi hanno finalmente convinto a farlo. Prima l’esame BJCP della scorsa settimana, dove una delle birre da analizzare era proprio una Irish Stout con qualche piccolo difetto, tra cui la salamoia; poi una chiacchierata via WhazzUp con Daniele Iuppariello di Officina Briù; infine, una recente discussione nel gruppo Facebook Accademia delle Birre.

Ho deciso così di provare a strutturare le tantissime e spesso parziali informazioni che ho raccolto negli ultimi tempi in un post dedicato a questo difetto. Purtroppo la salamoia raramente viene citata nei vari compendi sui difetti della birra (nemmeno in questo che è uno dei più dettagliati in circolazione), e quando ciò accade la disanima delle possibili cause è vaga a piacere. Spinto dalla curiosità e dalla voglia di capire, ho passato in rassegna le diverse cause che ho trovato spesso associate a questo difetto, dicendo la mia.

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Autosuggestione

Cito volutamente questa opzione al primo posto perché associata a un fenomeno molto diffuso (al di là del caso specifico della salamoia) di cui non tutti si rendono conto. L’autosuggestione, detta anche bias cognitivo, può interferire prepotentemente con l’esperienza degustativa e con le percezioni sensoriali in generale. Accade ad esempio quando si bevono birre iconiche in loco, in un’atmosfera particolare e genuina. Uno dei casi emblematici è quello della Guinness che bevuta in Irlanda è tutta un’altra cosa. Un commento molto frequente, che fu anche una mia convinzione tanti anni fa.

Ahimè dobbiamo ricordarci che la Guinness è una birra industriale, prodotta con processi iper-automatizzati e altamente ripetibili. È pensata per essere identica a se stessa in tutti i Guinness pub del mondo. Quindi, se in parte è possibile che esistano a volte delle differenze tra la pinta bevuta a Dublino e quelle bevute altrove legate all’impianto di spillatura e alla sua manutenzione (la comparsa di diacetile in questa birra è un tipico esempio di linee contaminate), è molto probabile che la Guinness bevuta a Dublino ci sembri più buona semplicemente perché siamo a Dublino (è impossibile fare un test alla cieca tra una pinta di Dublino e una di Roma).

È evidente come la percezione che abbiamo di questa birra sia molto legata al brand, alle storie che si porta dietro, all’Irlanda e ai pub in cui ci viene servita. Bere una Guinness al bancone dello Stag’s Head di Dublino è un’esperienza ben diversa dalla bevuta di una pinta in un qualsiasi pub in franchising della capitale. Ma la birra, con altissima probabilità, è esattamente la stessa.

Ecco, secondo me una cosa del genere può accadere quando si “annusa” una birra scura alla ricerca della salamoia, specialmente se a bassa gradazione e intensità dei tostati ridotta. Descrivere un aroma delicato e fugace non è cosa facile, specialmente se la birra non è in condizioni perfette. Scatta allora nel cervello l’associazione birra scura = salamoia, anche se quel flebile aroma che percepiamo non è propriamente riconducibile alla salamoia. A volte ho la netta impressione che molti homebrewer vadano alla ricerca della salamoia nelle stout perché si aspettano di trovarla. Un po’ come il DMS nelle basse fermentazioni o il diacetile nelle bitter. Mi aspetto che c’è, e lo sento. Bias cognitivo.

Infezione

Sarò breve. Tra i tanti microrganismi che possono infettare le nostre amate produzioni casalinghe (brett, pedio, lacto, …) non riesco a isolarne uno che possa produrre aromi riconducibili alla salamoia. In letteratura non ho mai trovato citazioni di questo aroma legato a infezioni. Aggiungo che l’aroma di salamoia è spesso presente anche in diverse stout di produzione industriale che escludono a priori la possibilità di infezione (specialmente se in bottiglia o lattina e non alla spina). Escluderei del tutto questa possibilità.

Autolisi

Se stilassimo una classifica delle cause più citate quando si cerca di individuare un difetto della birra, credo che l’autolisi si piazzerebbe al secondo posto (ovviamente dopo l’ossidazione, che negli ultimi tempi è diventata la causa di qualsiasi cosa, tipo “piove, governo ladro”). L’autolisi si manifesta con la rottura delle cellule di lievito e conseguente fuoriuscita del loro contenuto che si disperde nella birra. Accade, inevitabilmente, dopo un certo periodo di tempo; a meno che la birra, contenuta in bottiglia o in fusto, sia stata completamente privata del lievito (ovvero filtrata). Ovviamente più lievito ci portiamo dietro, maggiore la concentrazione di sostanze indesiderate che finiranno nella birra a seguito della lisi.

C’è da dire, però, che la rottura delle cellule di lievito, se la birra viene conservata in condizioni decenti senza essere sottoposta a temperature tropicali, non avviene nel medio periodo. E anche quando avviene, è probabile che la concentrazione dei composti che finiscono nella birra non sia così alta da intaccare sensibilmente il profilo organolettico. È piuttosto improbabile che l’autolisi si verifichi in una stout appena stappata dopo la carbonazione, per intenderci.

Per quanto riguarda i sentori generati dalla rottura delle cellule di lievito si legge di tutto e di più. Dalle cellule morte possono fuoriuscire diversi composti (tra cui anche enzimi) che producono difetti con diverse sfumature aromatiche. Il sentore di soia/umami è il più comune. È amplificato dalla liberazione degli enzimi che degradano le proteine residue liberando amino acidi che intensificano i sentori legati all’umami/carne in scatola. Questa degradazione delle cellule di lievito avviene nel lungo periodo, a meno che non vengano esposte a un intenso calore (ma in quel caso è probabile che i sentori di soia sarebbero in compagnia di altri mille difetti). Tramite riscaldamento e autolisi del lievito si produce per esempio la Marmite, una sorta di crema spalmabile che deve il suo successo (anche se in realtà in molti la odiano) proprio ai sentori legati all’umami. La rottura delle cellule di lievito può rilasciare anche composti solforosi che generano sentori che ricordano i gamberetti in scatola o la gomma bruciata.

Tutto ciò a mio avviso non ha molto a che vedere con la salamoia, quindi mi sento di escludere l’autolisi del lievito tra le possibili cause di questo fastidioso difetto.

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Acetaldeide

Sebbene questo difetto venga principalmente associato all’aroma di mela verde, nella mia modesta esperienza non sempre si manifesta sotto questa veste. La sua espressione aromatica dipende dalla concentrazione dell’acetaldeide ma anche dall’interazione con gli altri ingredienti presenti nella birra. L’aroma di mela, nelle sue molteplici sfumature organolettiche (rossa, verde, gialla, matura, acerba, cotogna, …) può derivare anche dalla fermentazione e in particolare dalla formazione di esteri fruttati (link). Il leggero aroma di mela (spesso matura) che si percepisce a volte nelle birre inglesi non è necessariamente dovuto ad acetaldeide, ma proprio alla formazione di esteri durante la fermentazione.

Detto ciò, nella mia esperienza ho constatato che in alcuni stili, come quelli caratterizzati dai malti scuri, l’acetaldeide si manifesta piuttosto  come leggero aroma di vernice/solvente. Con vernice in questo caso si intende uno specifico tipo di vernice, quella acrilica a base di lattice, detta anche Latex. Non è facile imprimere questo tipo di sfumatura aromatica nella memoria se non ci si diletta nella pittura, ed è per questo che molti non riescono a identificare questo tipo di difetto. Per fare pratica si può acquistare un kit dei difetti (costoso) oppure un tubetto di vernice acrilica in cartoleria (tipo questi). L’acetaldeide può anche manifestarsi come aroma leggero di solvente (se molto intenso è più probabile che derivi da polialcoli o eccessiva concentrazione dell’estere acetato di etile).

Sebbene mi sia capitato sovente di avvertire un filo di acetaldeide nelle birre scure (spesso nelle vesti di vernice/solvente molto leggeri), non lo inquadrerei come un aroma riconducibile alla salamoia.

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Ossidazione

Eccoci arrivati finalmente al probabile colpevole, volutamente lasciato per ultimo.

In vista del nuovo setup che presto metterò in piedi per fermentare/imbottigliare limitando il più possibile l’ingresso di ossigeno della birra, mi sono messo a studiare. Non mi piace la tendenza in voga negli ultimi tempi che tende ad attribuire la colpa di qualsiasi difetto presente nella birra all’ossidazione, senza alcuna riflessione né distinzione sul tipo di ossidazione, sugli elementi chimici coinvolti e sui tempi di reazione.

Il problema è che l’ossidazione è un tema estremamente complesso che presenta molteplici sfaccettature, per molti aspetti ancora oggetto di analisi e sui cui effetti non tutti sempre concordano. Nella birra sono presenti diversi composti che possono ossidarsi in momenti differenti della produzione, in presenza o in assenza di ossigeno, generando aromi piacevoli (madera, sherry, frutta sotto spirito) o meno piacevoli (cartone bagnato, saponoso, metallico, cetriolo/malto verde).

Particolarmente interessante è l’azione delle melanoidine, presenti in tutti i malti ma in misura maggiore nei malti tostati e torrefatti, che possono agire sia da antiossidanti che da ossidanti a seconda del loro stato. L’effetto antiossidante delle melanoidine si manifesta attraverso la capacità che questi composti hanno di “attrarre” l’ossigeno: si comportano come “oxygen scavenger”, ovvero sono in grado di legarsi all’ossigeno disciolto nel mosto o nella birra evitando che questo vada ad ossidare altri composti come polifenoli, lipidi e polialcoli. Ma c’è un effetto collaterale: le melanoidine, una volta ossidate, oltre a perdere il loro stato di “oxygen scavenger”, possono catalizzare a loro volta reazioni ossidative che coinvolgono lipidi, polifenoli o alcoli superiori. Questo avviene nel lungo periodo, anche in assenza di ossigeno molecolare (ovvero in assenza di ossigeno disciolto nella birra).

Come e quando si ossidano le melanoidine? Può accadere in diverse fasi del processo produttivo: quando si macinano i malti, quando si fa mashin, quando si fa sparge, quando si sposta il mosto caldo da un contenitore all’altro, quando si ossigena il mosto prima della fermentazione, quando si travasa la birra, quando si imbottiglia. Un importante elemento da tenere in considerazione è che la reazione che lega le melanoidine all’ossigeno viene stimolata dal calore (come tutte le reazioni). Più la temperatura è elevata, più la reazione avviene velocemente. È facile che questa ossidazione avvenga nella fase a caldo piuttosto che al momento della macinazione dei grani o dell’aerazione del mosto, dove la temperatura in genere è quella ambiente (se non più bassa) e il periodo di esposizione all’ossigeno è limitato (poche ore in entrambi i casi se si macinano i grani la sera prima della cotta).

Se il contatto delle melanoidine con l’ossigeno è prolungato nel tempo, la reazione può avvenire anche a basse temperature (come nel caso dell’ossigeno che si sposta lentamente dal collo della bottiglia all’interno della birra).

L’ossidazione può dare origine a moltissimi composti diversi a seconda dei precursori che si vanno a ossidare, ma in moltissimi casi i principali responsabili degli aromi “negativi” derivanti dall’ossidazione sono le aldeidi. Queste si formano in seguito all’ossidazione dei polialcoli (ma anche dei lipidi in minor misura). Le melanoidine in stato ossidato catalizzano questa reazione di ossidazione stimolando la formazione di aldeidi, anche in assenza di ossigeno.

È ampiamente dimostrato che la concentrazione di aldeidi aumenta con l’invecchiamento della birra (qui un articolo addirittura del 1976) ma gli aromi collegati a queste evoluzioni possono essere molteplici. Non sono riuscito a individuare riferimenti specifici in letteratura che includano la salamoia (brine in inglese) tra questi aromi, ma è assolutamente plausibile che la salamoia possa derivare dalle aldeidi volatili che si formano con l’invecchiamento. Se trovate però fonti specifiche, fatemelo sapere.

Tutto molto bello, ma perché la salamoia proprio nelle birre scure? L’ossidazione a caldo è molto difficile da eliminare, ancora più dell’ingresso dell’ossigeno durante fermentazione, travasi e imbottigliamento. Tant’è che nelle birre prodotte dai birrifici super industrializzati che imbottigliano in isobarico, il cartone bagnato (prodotto da aldeidi che derivano dai lipidi ossidati a caldo) esce fuori lo stesso nel lungo periodo. In teoria le birre scure, ricche di melanoidine antiossidanti, se trattate bene durante la produzione a caldo, dovrebbero essere molto resistenti all’ossidazione. Purtroppo l’ossidazione a caldo, che avviene in pochi secondi di esposizione all’ossigeno per via delle alte temperature, è impossibile da eliminare. L’alta concentrazione di melanoidine gioca a nostro sfavore in questo caso, creando dei pericolosi precursori. Aggiungo un elemento per “quelli che l’isobarico risolve tutti problemi”: l’imbottigliamento in assenza di aria e ossigeno in questo caso non protegge la birra dall’ossidazione generata dalle melanoidine “abusate” in fase di produzione, che stimolano la formazione delle aldeidi per ossidazione anche in assenza di ossigeno.

Non voglio lanciare una crociata contro i sistemi All-In-One, ma fare lo sparge tenendo il cestello alzato sopra al livello del mosto potrebbe non essere la miglior pratica per limitare l’ossidazione a caldo. In questo caso imbottigliare in isobarico aiuta sicuramente, ma non garantisce copertura al 100% contro la formazione di queste sgradevoli aldeidi.

EDIT: una persona molto competente e di cui mi fido molto mi ha fatto notare come l’autolisi del lievito, tra le altre cose, rilasci anche lipidi nella birra. Questi lipidi potrebbero subire ossidazione (favorita anche dalle melanoidine in stato ossidato presenti nella birra) e generare aromi riconducibili alle olive verdi (piuttosto che alla salamoia) sempre derivanti da aldeidi. Questo tipo di aroma può emergere anche in birre chiare. Si tratterebbe quindi di un difetto originato dall’autolisi (rilascio dei lipidi) ma che tecnicamente deriva dall’ossidazione (sempre dei lipidi). Mi sembra poco probabile che la lisi delle cellule di lievito possa avvenire nel breve periodo, ma è plausibile che una gestione “sconsiderata” del lievito durante la produzione possa generare autolisi prematura.

 

 

7 COMMENTS

  1. Ciao Frank, articolo molto interessante! Tra le mie prime birre casalinghe c’è stata proprio una stout dalla bassa gradazione alcolica. Ne è risultata una birra senza alcun difetto, tranne che per la salamoia. Ma essa si è presentata già dall’inizio della fermentazione e, con l’andare del tempo, non è di certo sparita, ma solo alleviata. Dunque non ho collegato la cosa nè ad un difetto dato dal lievito, nè all’ossidazione per come l’hai intesa tu nell’articolo, ma piuttosto al fatto che potesse essere la reazione tra l’acidità dei malti scuri (sì, forse con una dose di ossidazione) con una certa quantità di cloruri e di sodio (sale) nell’acqua. Un po’ azzardato, certo! Lo escluderesti?

  2. Grazie per l’articolo, innanzitutto. Volevo raccontare della mia irish stout che ai primi assaggi (dopo 2-3 mesi dall’imbottigliamento) presentava questo sapore (solo in bocca e non al naso) di olive/salamoia, il quale è sparito completamente dopo altri 2 mesi di maturazione. Quindi, dagli assaggi di questa birra, mi sembra che sia il contrario: questo difetto si affievolisce con il tempo. Non so se ci possa essere una spiegazione a questa cosa…
    Poi devo dire che, tutto sommato, questo sentore leggero di oliva non mi dispiaceva e non lo vedevo assolutamente come un difetto, anzi un po’ mi ricordava le note di oliva di alcuni whisky scozzesi.

    • Credo, ma ovviamente potrei sbagliare, che nel tuo caso siamo nell’opzione 1: autosuggestione. Intendiamoci, non voglio in alcun modo sminuire le tue capacità nel riconoscere questo aroma, ma la dinamica mi pare piuttosto inusuale. Probabile che semplicemente gli aromi non si erano ben integrati dopo pochi mesi. A ogni modo a mio parere una maturazione di 5 mesi per una Irish Stout (che presumo sia intorno ai 4-5 gradi) è troppo, la birra perde comunque aroma e freschezza. Poi, per carità, come ho scritto le dinamiche dell’ossidazione sono molto complicate, difficile essere sicuri. Grazie per il commento.

      • In realtà prima di assaggiarla non mi era mai capitato di sentir parlare di salamoia nelle birre scure. Poi anche un altro mio amico, né homebrewer né bevitore esperto, mi diceva che sentiva un po’ di oliva.
        Cercherò di capire meglio se mi ricapita con altre stout.

  3. Tempismo perfetto! Ho in programma la cotta di una stout per questa domenica e si da il caso che la produrró proprio in un all in one. Avendone giá prodotte su questo sistema e avendo sistematicamente ottenuto il difetto in questione credi che una riduzione dell’ossidazione in toto possa alleviare il rischio? Parlo di evitare di fare sparge, di non splashare il mosto nel fermentatore e di non ossigenare il mosto (useró un lievito secco). Non potendo imbottigliare in isobarico non posso fare altro e non sapendo quanti punti perderei in un eventuale no-sparge non vorrei tentare a casaccio. Grazie in anticipo!

    • Potrebbe funzionare, sì. L’ossigenazione prima dell’inoculo non dovrebbe ossidare, perché la temperatura è bassa e l’ossigeno rimane nel mosto poche ore (il lievito lo assimila piuttosto velocemente). Credo che la parte più critica sia quella dell’ossigenazione a caldo, e nei sistemi AIO vedo molto critico lo sparge fatto in quel modo. Ma non ho fatto prove a riguardo, è tutta speculazione. 🙂

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