Dopo diversi spoiler sulla pagina Facebook del blog, partiamo finalmente con il primo post tecnico sul mio avvicinamento alla contropressione. In questo articolo, già troppo lungo anche così, ho evitato di stilare un elenco dettagliato del materiale che ho acquistato; ho preferito invece raccontare la filosofia produttiva che ho adottato, con qualche cenno iniziale all’attrezzatura. Per chi avesse sete di conoscenza, rimando all’ottimo blog di Davide Cantoni (Rovidbeer) e al gruppo Facebook “Homebrewing 2.0 – Isobarico e contropressione”, dove si discute quotidianamente di queste tecniche avanzate per la produzione casalinga di birra.

Come si misura la pressione

Quando si fa riferimento alla pressione nel processo di produzione della birra, per comodità si utilizza l’unità di misura anglosassone Pounds per Square Inches, ovvero libbre per pollice quadro, il cui acronimo è PSI. La ragione per cui si utilizzano i PSI anziché le atmosfere è dovuta alla maggiore comodità pratica: è più facile ricordare a mente i classici 5, 15 o 20 PSI piuttosto che le equivalenti 0.34, 1.02 o 1,36 atmosfere.

La pressione nei vari contenitori (keg, fermentatori o bottiglie) si misura con dei piccoli manometri dotati di una scala in PSI. Il manometro misura la differenza tra la pressione nel contenitore e quella atmosferica. Se quindi il display del manometro segna 0 PSI, significa che il contenitore è sottoposto alla sola pressione atmosferica (circa 15 PSI, ovvero 1 atmosfera). Se il display segna 20 PSI, la pressione reale interna al contenitore è 15+20 PSI, ovvero 35 PSI. Tutte le tabelle disponibili in letteratura fanno sempre riferimento alla pressione segnata sul manometro, che è 0 se il contenitore è a pressione atmosferica (ovvero se è aperto).

Manometro collegato all’attacco veloce (post) tramite raccordi di tipo John Guest

Isobarico o contropressione?

Anzitutto proviamo a fare chiarezza sui termini che utilizzerò da qui in avanti. Partiamo dal termine isobarico, che spesso viene utilizzato impropriamente (anche dal sottoscritto). Come il termine stesso suggerisce, isobarico significa “alla stessa pressione”. Paradossalmente, potremmo definire le classiche fermentazioni nei contenitori di plastica come isobariche, dato che fermentazione e trasferimenti avvengono alla stessa pressione, ovvero quella atmosferica. È chiaro che il termine isobarico non viene mai applicato a questo contesto, mentre si utilizza se fermentazione e trasferimenti avvengono alla medesima pressione, ma diversa da quella atmosferica.

Con fermentazione isobarica si intende in genere la fermentazione che avviene in un contenitore chiuso ermeticamente sottoposto a una pressione costante. Questa fermentazione culmina nella carbonazione “naturale” della birra grazie all’anidride carbonica prodotta dal lievito durante la fermentazione che rimane intrappolata nella birra grazie alla pressione applicata. Se la birra viene trasferita, già carbonata, in una bottiglia o in un fusto alla stessa pressione, il trasferimento viene definito isobarico. In genere, in un sistema isobarico la birra non viene mai a contatto con l’atmosfera. Non tutti sono sempre d’accordo con questo quadro, ma secondo me rende abbastanza l’idea.

La contropressione è un termine più generico, utilizzato per indicare sistemi in cui la birra viene spostata da un contenitore all’altro tramite spinta di CO2. Non è detto che i vari contenitori siano alla stessa pressione, e spesso la contropressione viene impiegata per trasferire birra non carbonata. Ovviamente si può fare un trasferimento di birra non carbonata in contropressione tra due contenitori (ad esempio due fusti) alla stessa pressione, ma da quello che ho capito non ci si riferisce a questo sistema con il termine “isobarico” (anche se tecnicamente lo sarebbe) perché la birra non è carbonata.

Mi sento quindi di affermare con ragionevole confidenza che il sistema che sto utilizzando, in tutte le diverse configurazioni che piano piano esploreremo, adotta un approccio in contropressione non isobarico.

Trasferimento in contropressione della soluzione detergente da un fusto all’altro

Dove fermentare

Se l’obiettivo è ridurre il contatto della birra con l’ossigeno, le soluzioni pratiche possono essere molteplici. Le più gettonate da chi produce i classici volumi di 25-30 litri sono il Fermentasaurus Snub Nose (35 Litri) e la sua evoluzione, il Fermzilla, disponibile in diverse versioni e capacità (da 27 e 55 Litri). Entrambi in plastica trasparente, possono tenere pressioni fino a 35 PSI, ampiamente sufficienti per applicare qualsiasi metodologia produttiva. Il Fermentasaurus è già dotato del kit per fermentare in pressione e costa un centinaio di euro, mentre il Fermzilla arriva senza kit di pressione che va acquistato a parte. Costa un po’ di più (circa 150€ con il kit incluso su Mr. Malt), ma molti lo hanno acquistato su Aliexpress risparmiando qualcosina. Per maggiori dettagli su questa tipologia di fermentatori, molto in voga tra gli homebrewer dediti alla contropressione, vi rimando sempre al blog RovidBeer.

Il fermzilla con il kit per fermentare in pressione

La mia scelta è stata diversa, per una semplicissima ragione: avendo assolutamente intenzione di continuare a produrre 10-12 litri di birra per ogni cotta, mi serviva qualcosa di più piccolo. Ho scelto i famosi “corny keg” detti anche “fusti jolly”, dalla classica capienza (a tappo) di 19 Litri, ideali per fermentare fino a 15 litri di birra se il krausen durante la fermentazione non cresce troppo (altrimenti finisce per intasare il blow-off).

I principi di funzionamento sono gli stessi dei vari Fermentasaurus e Fermzilla, con alcune importanti differenze:

  • assenza del vasetto in basso (rispetto al Fermzilla), utile per spurgare il lievito e recuperarlo. Da alcuni viene usato anche per fare dry hopping con saturazione di CO2 dal basso (anche se ho trovato pareri discordanti sull’efficacia di questa pratica).
  • nei keg non si vede cosa accade all’interno durante la fermentazione. Per quanto osservare il mosto durante le varie fasi della fermentazione sia indubbiamente affascinante e formativo, si può vivere senza (in quale birrificio si guarda dentro al fermentatore durante la fermentazione?).
  • nei keg non si può applicare il pozzetto per la sonda di temperatura che scende all’interno del mosto (i Fermzilla, per quanto ho visto, si possono modificare in questo senso). La forma stretta e lunga dei corny keg e la poca birra all’interno rendono tuttavia abbastanza affidabili anche le misure fatte con la sonda applicata alla parete esterna del fusto, isolata dall’aria esterna tramite un piccolo pezzo di polistirolo o materiale isolante
Corny keg con sonda applicata all’esterno e blow-off

Se cercate in rete vedrete che esistono principalmente due tipi di keg jolly, con attacchi diversi a seconda della loro origine (ex fusti di coca-cola o ex fusti di pepsi). A volte si riescono a comprare usati per qualche decina di euro. In questo caso servirà una bella pulita e una sostituzione completa di tutti gli attacchi e delle guarnizioni, che si trovano facilmente venduti separatamente. Io ho preferito acquistare keg nuovi, nello specifico da The Malt Miller che se li fa fare appositamente. I Corny keg nuovi sono venduti anche sui siti italiani, ma sul sito inglese ho trovato molto intuitiva e ben fatta le sezione per l’infustamento e la fermentazione in pressione: non ci si perde tra decine di accessori sparsi per il sito, tutto è abbastanza chiaro e facilmente acquistabile.

I corny keg sono veramente facili da smontare e pulire: il tutto si riduce a una manciata di piccoli pezzi e guarnizioni, che possono essere pulite con uno spazzolino e messe successivamente a mollo in soluzione detergente. Lo spinone (il tubo che pesca dal fondo del keg) è più difficile da pulire e sanitizzare senza riempire l’intero keg di soluzione, ma come vedremo più avanti con il metodo che utilizzo non ne faccio uso (al suo posto ho preso una sfera galleggiante che pesca dall’alto all’interno del keg). L’ampia apertura rende l’interno facilmente accessibile con braccio e spugnetta, senza dover necessariamente riempire il keg di soluzione detergente.

Una perfetta e veloce pulizia del Corny Keg dopo la fermentazione

Per un approfondimento ben fatto e dettagliato sui keg consiglio un pdf pubblicato diversi anni fa dall’homebrewer sardo Alessandro Melis, scaricabile da questo link.

Le principali parti del corny keg (a meno del tappo superiore) smontati e puliti

In America sono disponibili i “Torpedo Keg” (link), dei fusti in acciaio inox con gli stessi attacchi dei Corny Keg ma dalla capacità maggiore (40 e 60 litri).

Esistono anche opzioni decisamente più costose, come gli Unitank della SS Brewtech (link), ma andiamo su fasce di prezzo che a mio modestissimo avviso sono spropositate per la produzione casalinga e non aggiungono nulla in termini di qualità del prodotto finito.

La bombola di CO2

Per operare in contropressione o addirittura in isobarico, è necessaria una bombola di CO2 con relativo riduttore di pressione. Pensavo sarebbe stato più difficile procurarsela, ma poi mi è bastato cercare un negozio specializzato su Roma e acquistarne una da 4 Kg che mi è stata direttamente portata a casa. Il negozio in questione è Servigas che si trova su Via Magliana. La bombola costa circa 90€, la ricarica (che ancora non ho mai fatto) dovrebbe costare 15€.

So che esistono negozi che propongono la bombola in comodato d’uso (magari anche questo se avessi chiesto) a un prezzo decisamente minore (intorno ai 50€). Ce ne sono in tutte le zone d’Italia, basta informarsi in giro. Alle brutte, su eBay esistono diversi shop (tra cui Network Service) che spediscono bombole piene e si riprendono quelle vuote.

Per le bombole di CO2 da 4-5 Kg serve un riduttore di pressione apposito. È un accessorio su cui vale la pena spendere, perché è delicato e deve durare nel tempo. Il riduttore di pressione si collega a questo tipo di bombole di CO2 tramite un attacco da W21,8-14 ed è dotato di uscite variabili (maschio o femmina) per attaccarci il tubo della CO2. Costa intorno ai 50-60€. Quello di The Malt Miller che ho preso io (tra l’altro di produzione italiana) ha una uscita di tipo John Guest per attaccarci un tubo (sempre John Guest) da 3/8. Questo in vendita su eBay ha invece una filettatura da ¼ femmina (ci si avvita questo raccordo John Guest per capirci).

Può essere utile acquistare anche delle bombole Sodastream (si trovano su Amazon per circa 30€) per spillare dai fustini senza doversi portare in giro la bombola da 4 Kg. Le Sodastream hanno una filettatura chiamata TR 21-4 per la quale esistono appositi riduttori di pressione (è sufficiente cercare “riduttore di pressione TR 21-4”, fate attenzioni a comprarli con il display anche in PSI). Mi hanno detto anche che le bombole Sodastream si possono ricaricare dalla bombola grande di CO2 tramite adattatori particolari, ma non ho mai provato. Dovrebbero esistere diversi rivenditori Sodastream in tutta Italia che prendono le bombole di Sodastream vuote e ne danno indietro una piena per un prezzo minore (13€ circa, qui un elenco).

Bombola Sodastream con riduttore di pressione attaccata al Corny keg

Sconsiglio invece di comprare le bombolette di CO2 usa e getta con filettatura 11×1 (tipo questa) in quanto non riciclabili e scomode da maneggiare (non si reggono in piedi). In questo caso il riduttore di pressione da acquistare è di questo tipo.

Bombola CO2 usa e getta con riduttore di pressione e attaccao John Guest

Come fermento

Il processo di fermentazione non è molto diverso da quanto ho sempre fatto nel classico secchio di plastica, almeno fino al momento del cold crash (abbattimento di temperatura che si fa a fine fermentazione). È infatti piuttosto semplice attaccare un tubo per il blow-off all’uscita del gas del corny keg, grazie al quale la CO2 può fuoriuscire dal fusto durante la fermentazione.

Travasi intermedi non ne faccio quasi mai, ma in caso si rendesse necessario, non è difficile spostare la birra da un fusto all’altro applicando pressione di CO2 al primo dei due. In questo caso bisogna ingegnarsi per evitare che rimanga aria all’interno del fusto che riceve la birra. Di questo parleremo più avanti, anche perché nel 99% dei casi i travasi non servono.

Per prelevare campioni di mosto durante la fermentazione (cosa che non faccio più così spesso, ma un campione a fine fermentazione è sempre utile), basta applicare pressione di CO2 alll’ingresso del gas e prelevare la birra dall’uscita del liquido, tramite applicazione di un rubinetto (che può essere un costoso e sofisticato tap ma anche una semplice valvola a sfera John guest come questa, collegata a un tubo).

Prelievo di un campione per il controllo densità a fine fermentazione

Grazie all’accessorio sfera inox galleggiante, che viene installata al posto dello spinone del fusto che altrimenti pescherebbe dal fondo, è facile prelevare campioni senza troppo lievito in sospensione. Quando si fa parecchio dry-hopping, l’operazione è impossibile finché il luppolo non scende sul fondo, ma poco male.

Sfera galleggiante sostituita allo spinone per pescare dall’alto

Essendo questa sfera galleggiante pensata per il Fermentasaurus, che ha pareti più ampie, succede che il tubo, toccando le pareti strette del keg, porti il pescaggio sopra la birra bloccando il flusso. Per ora mi sembra di aver risolto tagliando il tubo in silicone a una lunghezza di 56 cm e aggiungendo un piccolo peso alla sfera (nella foto c’è una fascetta inox, ma dopo ho modificato con un piccolo controdado inox).

Modifica con aggiunta di un piccolo peso

A fine fermentazione scollego il blow-off e al suo posto inserisco il tubo che arriva dalla bombola di CO2. Imposto la pressione a circa 1-2 PSI e faccio partire il raffreddamento. Il freddo fa diminuire l’energia cinetica del gas all’interno del fusto (nello spazio vuoto di testa) provocando una diminuzione di pressione che potrebbe danneggiare le pareti del fusto facendole implodere verso l’interno. Il collegamento alla bombola di CO2 impostata a bassissima pressione fa in modo che entri nel fusto solo CO2 dalla bombola. Tengo la bombola fuori dal frigo durante il raffreddamento perché ho letto che la condensa potrebbe rovinare la membrana del riduttore di pressione (ho fatto un buco sulla porta del frigo per far passare il tubo della CO2).

In condizioni di equilibrio, una pressione di 2 PSI alla temperatura di 0 gradi porterebbe la birra a una carbonazione di quasi 2 volumi. Lasciando la bombola attaccata per diversi giorni si finirebbe quindi con il carbonare la birra senza volerlo. Nella pratica, tuttavia, con un normale frigo, in un paio di giorni al massimo si arriva a una temperatura intorno agli 0°C. A questo punto si stacca la bombola e si sfiata il fusto, riportandolo a zero PSI (c’è una piccola valvolina sul coperchio). Così facendo si evita di carbonare la birra.

Nei giorni successivi ogni tanto si può passare a sfiatare ulteriormente man mano che la CO2 esce dalla birra per via della diminuzione di pressione nello spazio vuoto di testa dovuto agli sfiati. Con questo approccio ho raggiunto carbonazioni in linea alle aspettative, tramite rifermentazione, calcolando come temperatura massima raggiunta quella prima del cold crash (come si fa di solito).

Se il tutto viene ben eseguito, la birra fino a questo punto non avrà avuto alcun contatto con l’ossigeno. Avremo nel fusto una birra pulita e non carbonata (o meglio, carbonata solo con il residuo di CO2 della fermentazione, come quando si fermenta nel secchio di plastica). Potremo anche prelevare campioni a piacimento in contropressione, immettendo CO2 ed evitando il contatto con l’aria.

Trasferimento in bottiglia e fustino

A questo punto si possono seguire diversi approcci. Si potrebbe carbonare forzatamente la birra e consumarla dal fusto stesso. Oppure trasferirla in un altro fusto per eliminare i residui sul fondo e carbonarla forzatamente. Oppure ancora carbonarla e imbottigliare in isobarico tramite un procedimento piuttosto complicato e laborioso che prevedere l’eliminazione dell’aria dalle bottiglie con pompa del vuoto, successive saturazioni della bottiglia con CO2 e infine passaggio della birra carbonata e tappatura della bottiglia (come fa quel pazzo di Davide Cantoni).

Ma trasferire birra già carbonata in bottiglia è rischioso, per diverse ragioni, soprattutto se non si ha un po’ di esperienza con l’attrezzatura. Il principale pericolo è l’ossigeno: senza una rifermentazione in bottiglia, qualsiasi molecola di ossigeno che finirà in bottiglia andrà ad irrimediabilmente a ossidare la birra (il lievito è in fase dormiente).

Ho deciso così, per ora, di seguire una strada semplificata ma a mio avviso interessante. Dato che produco solo 10-12 litri di birra per cotta (circa 9-10 di birra finita), ho pensato di trasferirne 5 in un fustino da 5 litri (come questo), facendo passare la birra dal fusto grande a quello piccolo con spinta di CO2 e carbonandola forzatamente nel fusto piccolo. Il vantaggio del fusto piccolo è che può essere facilmente sanitizzato con acqua bollente, riempiendolo fino all’orlo senza eccessivi sprechi. Poi si tappa e si spinge fuori tutta l’acqua con la CO2, ottenendo una buona saturazione del fustino con sola anidride carbonica. Il resto della birra la passo in bottiglia dove rifermento.

Per favorire il flusso di birra dal Corny keg al fustino serve una spunding valve (come questa o questa), ovvero una valvola con manometro in grado di mantenere la pressione nel fustino a un valore costante man mano che questo si riempie di birra. In pratica, entra la birra nel fustino mentre esce CO2 dalla spunding valve, mantenendo costante la pressione all’interno del fustino.

Fustino da 5 litri con rubinetto

Questo mi permette anche di fare un confronto diretto tra birra rifermentata e birra carbonata forzatamente, potendo valutare vantaggi e svantaggi anche per stili diversi. Inoltre, la ricarbonazione in bottiglia mi garantisce un minimo di protezione dall’ossigeno che inevitabilmente rimane in bottiglia, dato che non opero in isobarico né uso pompe per il vuoto.

Teoricamente si potrebbe imbottigliare con la classica asta da travaso in plastica (questa) spingendo la birra fuori dal Corny keg con una piccola pressione di CO2. In questo modo però avremmo la bottiglia piena di aria, la birra che si mischia all’aria mentre si riempie la bottiglia, e ancora aria nello spazio di testa della bottiglia. Per carità, ho sempre imbottigliato più o meno così da quando faccio birra, ma si perderebbero tutti i vantaggi della contropressione. Ho deciso allora di dotarmi di uno strumento pratico e molto interessante, sebbene costoso: la pistola per imbottigliamento della Blichmann Engineering.

Blichmann Beergun

Il funzionamento è abbastanza semplice, specialmente se si imbottiglia birra non carbonata (sulla birra carbonata devo ancora provarla, ma a occhio credo che dia qualche problema).

La pistola si collega da una parte all’uscita del fusto dove passa la birra, dall’altra alla bombola di CO2 (basta uno sdoppiatore John Guest che pesca dalla bombola principale tipo questo). Maneggiandola con una sola mano si riesce prima a sparare un getto di CO2 in bottiglia, che tende a ridurre la concentrazione di ossigeno (ovviamente non satura la bottiglia, ma ricordiamo che dopo andremo a rifermentare). Dopodiché, sempre con una mano sola, si fa scendere la birra che viene spinta dalla pressione della bombola fuori dal fusto, semplicemente azionando il “grilletto” della pistola. Quando si arriva a 2/3 del riempimento della bottiglia, si spara nuovamente un getto di CO2 nella birra. Questo porta alla formazione di bollicine di CO2 che risalgono lungo il collo man mano che si procede con il riempimento. A questo punto si sfila il tutto e si tappa la bottiglia sulla schiuma. La schiuma si crea senza problemi anche se la birra non è carbonata, come si vede dalla foto sotto.

La pratica del Jetting (schiuma nel collo della bottiglia prima di tappare)

Questa procedura, più difficile a dirsi che farsi, garantisce una decente riduzione dell’aria e dell’ossigeno all’interno bottiglia. Ovviamente non siamo in condizioni ideali, ma la ricarbonazione ci dovrebbe mettere al sicuro dal poco ossigeno residuo. Se è stato ampiamente dimostrato che il lievito non riesce a consumare tutto l’ossigeno che rimane nello spazio di testa delle bottiglie, è probabile che riducendolo di molto (come in questo caso) la situazione migliori.

Imbottigliamento con Beergun (in questo caso ho usato solo bottiglie perché la birra deve maturare qualche mese)

Lo zucchero per la rifermentazione lo aggiungo direttamente in ogni bottiglia in forma di soluzione di priming (qui un foglio excel per calcolare i quantitativi) prima di passare la birra. Solitamente aggiungo anche lievito da rifermentazione (F2 della Fermentis o CBC della Lallemand) per velocizzare la rifermentazione e il conseguente consumo dell’ossigeno residuo in bottiglia. Meglio ancora se la birra viene imbottigliata a temperatura ambiente, in modo che il lievito aggiunto si attivi subito. Per le luppolate si può ad esempio trasferire nel fustino da 5 litri la birra fredda la sera prima (tanto verrà carbonata forzatamente, portarla a temperatura ambiente non ha senso); quindi si tira il corny keg fuori dal frigo e si trasferisce in bottiglia il giorno successivo con la birra più calda.

All’inizio può sembrare tutto un po’ complicato, ed effettivamente le prime volte lo è. Tuttavia, alla fine dei conti, non si impiega più tempo rispetto al classico imbottigliamento. Anzi, il numero ridotto di bottiglie a favore del fustino riduce i tempi una volta che si prende la mano. Per ora ho fatto solamente due prove, di cui una proprio con una birra molto luppolata carbonata forzatamente nel fustino e parallelamente anche rifermentata in bottiglia. A breve i dettagli del primo test comparato.

Ma quanto costa la baracca?

Non poco, va detto. Tra tutti i vari accessori credo di non aver speso meno di 700-800€. Si tratta però per la maggior parte di attrezzatura in inox con una vita utile molto lunga. I consumabili, tipo CO2 e tubi, non costano poi molto. Cercando i vari componenti su Aliexpress, eBay o prendendo qualcosa sul mercato dell’usato, si possono secondo me risparmiare anche 200€-300€. Io ho preferito rifornirmi da un solo venditore, anche perché acquistare su Aliexpress mi stressa: non si ha la garanzia che quello che si acquista sia ben fatto e che i materiali siano di qualità, anche se cercando bene si possono fare veri e propri affari. È vero che alcune delle cose che ho acquistato da The Malt Miller a loro volta arrivano comunque dalla Cina, ma almeno ho la garanzia che la loro qualità sia stata verificata prima che mi arrivino a casa. Ognuno sceglie di acquistare dove preferisce.

 

 

47 COMMENTS

  1. Come sempre gran bel articolo molto dettagliato, interessante e anche razionale, ma mi rimane il dubbio se sul prodotto finito questa differenza si fà sentire o meno. Secondo la tua esperienza questa differenza l’hai riscontrata? Grazie

    • In certi stili in teoroa credo proprio di sì, ma con sole due cotte alle spalle con questo setup (di cui una con qualche problema tecnico) non posso esprimere un parere.

  2. Ciao e complimenti per l’articolo!
    Solo un piccolo appunto: PSI = pounds per Square inches.
    P.S. grazie per aver sdoganato il fatto che la birra non fa schiuma senza carbonazione forzata (d’altronde a fine fermentazione dovremmo avere circa 0,8 vol_CO2, no?)
    Attendiamo con ansia i prossimi articoli con l’implementazione del jetting 😉 Cheers!

  3. E’ un articolo talmente ben fatto che ti perdoniamo questa:
    “Il freddo fa diminuire il volume del gas all’interno del fusto (nello spazio vuoto di testa) provocando una diminuzione di pressione…”
    Il volume non può di certo cambiare. Il freddo toglie energia termica alle molecole di gas che, riducendo la loro agitazione, fa abbassare la pressione.
    😉

    • Non proprio scorretto. La pressione scende anche perché una parte dell’anidride carbonica entra in soluzione visto che si dissolve meglio nel liquido freddo. È vero che il volume non cambia, ma una parte delle molecole viene rimossa dallo spazio di testa.

    • Alla pressione più bassa possibile, sufficiente a spingere la birra fuori dal fusto. Ho notato che se sali troppo (tipo 10 PSI) la Beergun lascia passare birra anche se il “grilletto” è rilasciato. Questo potrebbe essere un problema se si imbottigliano birre già carbonate, perché la pressione ridotta potrebbe far perdere CO2 durante l’imbottigliamento. Ma vedremo più in là.

  4. Ciao Frank, complimenti come sempre per l’articolo!!
    Hai preso in considerazione anche l’itap prima della beergun? O sei andato dritto su quella? Che ne pensi dell’itap?

    • Non l’ho preso in considerazione perché non era ancora uscito. Potrebbe essere una buona soluzione, ma per esempio la vedo difficile far schiumare la birra non carbonata. Però non l’ho mai usato, quindi non saprei. Interessante comunque.

  5. Ciao Frank,
    Anzitutto complimenti per il tuo sito, e i vari articoli interessanti.
    Vorrei farti una domanda. Ma se ho capito bene da questo articolo, se voglio effettuare tutta procedura in isobarico, devo immettere nel fermentatore, fermentis aurus, keg o altro…
    All inizio della fermentazione una parte di co2, giusto? In modo tale da eliminare l ossigeno di testa… E corretto?

    • Non esattamente. Non c’è bisogno di togliere l’ossigeno a inizio fermentazione, anzi, lo si aggiunge di proposito aerando il mosto. Durante la fermentazione lo spazio vuoto di testa si riempie di CO2 e ne rimane saturo anche se il fermentatore non è a pressione (basta che ci sia un gorgogliatore). Il problema sono i successivi trasferimenti e il cold crash, che fa risucchiare aria all’interno.

  6. Una piccola curiosità quando infusti la birra come riesci a capire che il fustino è pieno a sufficienza? Non conosco bene i fustini che utilizzi ma i keg normali da 9 o 19 Litri andrebbero se non erro riempiti fino al limite massimo dettato dalla valvola della CO2 così da permettere la carbonazione forzata. Spero di essere stato chiaro nella domanda e grazie ancora

    • Non è necessario riempirli fino all’orlo per la carbonazione forzata (sebbene sia più veloce se si collega all’uscita del gas una pietra porosa inox che finisce nella birra). Per valutarne il riempimento li tengo su una bilancia: il peso diviso la densità della birra (FG o OG a seconda della fase di produzione) di dà con buona apprssimazione il volume in litri litri.

  7. Fantastico articolo, molto dettagliato! Ho deciso di passare anche io alla fermentazione nei Keg, dopo varie cotte contaminate per via di un rubinetto di plastica, e qualche IPA ossidata in pochi giorni. Anche io come te faccio cotte da 10-12 litri massimo.

    Ho trovato questo articolo molto interessante:http://www.lowoxygenbrewing.com/brewing-methods/kegging-care-guide-purging-transferring-stabilizing-finished-beer/

    Potrebbe essere una buona soluzione per risparmiare CO2 e sopratutto evitare di introdurre ossigeno che é sempre presente in tracce nelle bombole.

    Il concetto é semplice: usare l’anidride carbonica prodotta in fermentazione per rimuovere l’ossigeno dal fusto da cui si andrá a servire. Secondo i loro calcoli, nel fusto rimane una concentrazione di ossigeno di 5 ppb nella peggiore delle ipotesi!

    Io pensavo di collegare un secondo keg sanitizzato a quello in cui fermento, usare l’anidride generata nei primi due giorni per spurgare il secondo fustino e poi aggiungere una valvola per lo spunding e far aumentare la pressione in entrambi. Finita la fermentazione si tratta solo di far scendere leggermente la pressione nel secondo keg e la birra dovrebbe venire automaticamente spinta dalla pressione nel fermentatore.

    Visto che sono passati due mesi, hai notato differenze nelle tue birre luppolate?

    • Eh, sono passati due mesi ma quel batch l’ho finito da un mese 😉 Il mio obiettivo è che la birra non si ossidi durante il processo o la ricarbonazione, non ho particolare interesse a conservare una luppolata per due mesi (ne faccio pochi litri apposta). Conosco il metodo sopra, ma per renderlo efficace bisogna riempire per intero il secondo keg di soluzione sanitizzante (che cmq rimane necessariamente in piccole dosì nel keg) e mi sembra uno spreco incredibile. Se lasci aria secondo me non hai garanzie che la co2 non si mescoli e che riesca a far uscire tutta l’aria. Prova, vedi come ti trovi.

      • I fustini sono in mano al corriere, spero non tardino troppo;) Il primo test sarà un omaggio alla Brooklyn lager, cosí posso testare il controllo della temperatura e la bassa esposizione all’ossigeno.

        per quanto riguarda quel metodo, anchio intuitivamente ho pensato la stessa cosa, ma il bello è proprio che non è necessario riempire il keg con lo starsan. Nell’articolo ci sono dei calcoli molto dettagliati in cui prendono in considerazione la diffusione delle melecole, la turbolenza del flusso etc. Considerando i parametri piú conservativi arrivano ai 5 ppb di concentrazione. per ottenere un risultato simile servirebbero 20 cicli di spurgo a 10 PSI, supponendo di avere solo pura CO2 nella bombola. Con i classici 3 cicli arrivi ad una concentrazione di ossigeno del 4%, troppo se non si rifermenta.

        Considera che la fermentazione di 10 L di mosto 1.050 sviluppa oltre 150 L di CO2 pura, senza traccia di ossigeno. è un peccato sprecarla:)

        • Ah, ok. Diciamo che di quel sito non mi fido tantissimo, spesso se la cantano e se la suonano (anche con le formule). In altri casi (nei casi in cui potevo seguire, non certo l’articolo delle formule 🙂 ) ho letto alcune castronerie date come dogmi assoluti. A ogni modo ci può stare. Purtroppo, come sempre in questi casi, è impossibile verificare quello che succede realmente perché nessuno in casa può andare a misurare l’ossigeno che rimane nel fusto (ma questo vale anche per altri metodi, senza dubbio). C’è poi il fatto che tocca mettere due keg in frigo, fare tutti i collegamenti, ma sicuramente è una strada da provare. Tra l’altro io potrei provarlo sul keg piccolino da 5 litri che uso per carbonare forzatamente parte della birra (e che ora riempio di acqua bollita che poi faccio uscire con CO2). Fammi sapere poi come va!

    • Cmq nell’unica luppolata che – per ora – ho fatto (e finito) con questo metodo i risultati sono stati buoni. A breve imbottiglio la seconda (che ahimè dal primo assaggio post fermrntazione non è che mi abbia proprio convinto)

      • Tienici aggiornati, spesso si impara di piú dalle birre venute un po così! Ho ricevuto il libro di Janish, dando uno sguardo rapido sono contento di non dover imparare la chimica da zero! Sembra molto tecnico, proprio quello che mi aspettavo. Seguiró il tuo consiglio e lo terró a portata di mano come reference book!

  8. Buongiorno Frank,
    innanzitutto complimenti per il sito e per le esperienze che condividi (leggendo un tuo articolo ho appena evitato di fare un cold crash di due fusti senza compensare la diminuzione di pressione…).
    Desideravo chiederti cosa ne pensi delle Beergun cinesi (costano circa 30 euro) e se per utilizzarle è indispensabile un riduttore di pressione a due vie oppure è sufficiente un connettore JG a Y per sdoppiare l’uscita della CO2.
    Grazie e buon pomeriggio.
    Mauro

    • Le beergun cinesi non le ho mai usate. Alcuni si trovano bene, ma alcune di quelle prese dalla cina, a quanto ho letto (ma, ripeto, non le ho mai usate) danno problemi di allacci (non sempre filettature facili da reperire) e tenuta. Il doppio riduttore di pressione di CO2 serve solo se imbottigli birra già carbonata, per poter variare la pressione in bottiglia rispetto a quella di spinta nel fermentatore e controllare meglio la formazione di schiuma.

  9. Ciao Frank,

    il rubinetto che vedo sulla linea dalla bombola CO2 a cosa occorre?
    E’ un classico rubinetto oppure anche una valvola di non ritorno?

  10. Ciao Frank, mi servirebbe uno dei tuoi preziosi consigli. Mi è sempre piaciuto poter spillare la mia birra e dopo aver provato i fustini party keg da 5 lt con ottimi risultati vorrei fare un passo in avanti.
    Secondo te ha senso travasare e rifermentare in fusti cornelius keg con ball lock da 6 lt e successivamente spillare con la cartuccia di CO2 da 20 gr la birra ? Oppure carbonare forzatamente ?

    • Per gestire carbonazione forzata e spillatura senza il bombolone, ti consiglio le bombolette di Sodastream. Le vendono in tantissimi negozi in Italia (sul sito trovi il loro localizzatore), durano abbastanza e il costo non è eccessivo. Le cartucce possono andare per spillare, ma per la carbonazione forzata sono troppo piccole. L’adattatore per Sodastream mi pare lo vendano anch su Pinta, ma ne trovi su Amazon.

      • Buongiorno Frank, grazie per i consigli sempre utili. Sabato imbottiglierò una pils e domenica farò una nuova cotta (sempre pils), stavo pensando di riutilizzare il lievito depositato sul fondo del fermentatore per la nuova cotta. Secondo te i benefici sono maggiori dei rischi ? Nella birra che andrò a imbottigliare, ho utilizzato 9 bustine di W34/70 per 45 lt con OG 1042. Con la birra di domenica cercherò di arrivare agli stessi valori di Og e Lt. Grazie in anticipo

  11. Buongiorno Frank, grazie per i consigli sempre utili. Sabato imbottiglierò una pils e domenica farò una nuova cotta (sempre pils), stavo pensando di riutilizzare il lievito depositato sul fondo del fermentatore per la nuova cotta. Secondo te i benefici sono maggiori dei rischi ? Nella birra che andrò a imbottigliare, ho utilizzato 9 bustine di W34/70 per 45 lt con OG 1042. Con la birra di domenica cercherò di arrivare agli stessi valori di Og e Lt. Grazie in anticipo

    • Non è necessario se non hai fatto dry hopping. Ma occhio che il lievito è bene recuperarlo prima della lagerizzazione, non dopo.

  12. Ciao Frank bell’articolo ed esaustivo, ma pensi sia possibile usare due fustini dove nel secondo mettere la soluzione per il priming senza metterla bottiglia per bottiglia

    • Certo, ma secondo me è molto più scomodo. Devi saturare il secondo fusto di CO2, trasferire la birra e aggiungere la soluzioni di priming senza ossidare (se apri il fusto aggiungi un passaggio all’imbottigliamento dove potresti introdurre ossigeno). Oltre al fatto che devi sanitizzare (e poi lavare) un secondo fustino, altri attacchi e via dicendo.

  13. Buongiorno frank;
    nell’articolo si parlava di come, per favorire il flusso di birra dal Corny keg al fustino, serva una spunding valve, cosi da mantenere la pressione nel fustino a un valore costante man mano che questo si riempie di birra. A che pressione andrebbero “settati ” riduttore di pressione della CO2 e spunding valve del fustino per far si che ciò avvenga mantenendo costante la pressione all’interno del fustino?
    Grazie in anticipo per i consigli e grazie per l’articolo che è molto interessante!

  14. Ciao Frank per quanto riguarda la pistola che attacco metti in entrata pistola c02? Se volessi mettere un jhon guest e non un portagomma

  15. Ma invece se voglio trasferire birra gia’ carbonata forzatamente da un keg ad un altro,che approccio devo mantenere ? Con la spunding? Ovvero saturo di CO2 il keg vuoto,metto la spunding,attacco tutti i vari allacci gas birra a etrambi i keg e poi comincio a sfiatete lentamente con la spunding fino a che non esce birra,e”giusto?stesso procedimento in pratica che si usa per trasferire birra non carbonata,con la sola eccezione che in questo ultima non ce’bisogno kenil keg ricevente sia alla stessa pressione di quello pieno,sbaglio?

  16. Ciao Frank! Scusa, se quando faccio il cold crash invece di tenere la bombola collegata a bassa pressione , non si potrebbe sparare dentro un po’ più di co2? Una volta raggiunta la temperatura sfiaterei per non fare carbonare la birra. Potrebbe andare bene lo stesso? Quanti psi dovrei dare e per quanto tempo?

    • Io faccio sempre così, ormai. Metto in pressione, stacco la bombola e faccio partire il cold crash. Non c’è bisogno poi di desaturare: basta vedere a quale pressione di equilibrio arrivi e calcolare (con le solite tabelle) la carbonazione a cui è arrivata la birra. Ti regolerai poi ti conseguenza o con la dose di zucchero, se rifermenti, è con l’ulteriore CO2 da aggiungere. Se devi carbonare la birra forzatamente, puoi mettere tranquillamente anceh 20 psi (si carbonerà parzialmente durante il cold crash). Altrimenti, se non vuoi che si carboni troppo, mettine una decina.

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