Da quando sono entrato a far parte del mondo dei produttori casalinghi ho sperimento la forza delle “fazioni”. Fin dalla prima cotta mi resi conto che diversi temi legati a questo affascinante hobby sono molto controversi: sembra che ognuno abbia le proprie certezze, spesso in contrasto fra loro. La cosa mi ha sempre divertito molto, specialmente quando c’era da solleticare credenze radicate da cui non ci si voleva sganciare. Tra i tanti temi controversi mi vengono in mente il protein rest, i travasi intermedi, l’utilizzo di percentuali omeopatiche di fiocchi per sostenere la schiuma. Tra i più recenti annovero l’ossigenazione dei lieviti secchi, la loro reidratazione e, ovviamente, gli effetti dell’ossidazione sulla birra.

Sebbene su diversi di questi temi abbia preso posizione in passato, a volte anche netta (vedi ad esempio il protein rest), la verità è che nella maggior parte dei casi non esistono certezze uniche e incontrovertibili. Occorre sempre contestualizzare quello che si vuole mettere in discussione, studiare, provare e calibrare le proprie azioni di conseguenza. E questo ovviamente vale anche per tutto ciò che ruota intorno all’ossidazione, all’isobarico e al trasferimento e imbottigliamento in contropressione.

Non sono certo uno dei pionieri in Italia (figuriamoci nel mondo) di questo approccio, quindi sono l’ultimo a poter dirimere questioni tecniche sul tema. Tuttavia per mia natura mi piace approfondire, provare, studiare e analizzare, cercando di mantenere un approccio critico e costruttivo. Ieri ho volutamente pubblicato sul blog una foto provocatoria, che come mi aspettavo ha diviso i commenti tra amanti della contropressione/isobarico e nostalgici della rifermentazione in bottiglia. Premetto che non sono qui a difendere nessuna delle due fazioni, anzi, la mia è una sincera curiosità verso la sperimentazione e la scoperta. Non ho alcuna intenzione di fare il “Brülosophy” di turno né avere la pretesa di dimostrare che un metodo sia migliore dell’altro in assoluto, ma solo voglia di imparare metodi e nozioni nuove.

L’ESPERIMENTO

Circa un mesetto fa ho prodotto una DDH (Double Dry Hopped) Pale Ale con gli avanzi di luppolo che avevo in casa. È stata la mia prima birra fermentata nel jolly keg e trasferita in contropressione per metà in un piccolo fustino da 5 litri dove ha subito carbonazione forzata. Altri (circa) 5 litri sono finiti in bottiglie da mezzo litro, dove ho aggiunto soluzione di priming e lievito da rifermentazione. Il fustino da 5 litri era stato riempito fino all’orlo di acqua bollente (e bollita), poi chiuso, e svuotato dall’acqua tramite spinta di anidride carbonica. Così facendo dovrei aver ottenuto una buona saturazione di anidride carbonica nel fusto, eliminando quasi completamente l’ossigeno dal suo interno. Il trasferimento in bottiglia è stato fatto invece con Beergun, come descritto nel post precedente (link): spruzzo di anidride carbonica prima di imbottigliare, riempimento, schiumatura (jetting) e tappatura immediata sulla schiuma.

La luppolatura prevedeva gettate di circa 10 g/L in late boil e quasi 8 g/L in dry hopping. Ho scelto di aggiungere tutto il luppolo in dry hopping al secondo giorno di fermentazione, con krausen ancora attivo, sparando per qualche secondo CO2 nella birra una volta richiuso il keg (tramite pietra inox). In questo modo ritengo di aver minimizzato l’ossidazione dovuta al dry hopping (ovvero all’apertura del keg e all’introduzione del luppolo in pellet), grazie alla spinta dell’anidride carbonica che è uscita dalla birra e al lievito ancora attivo che tende a riassorbire l’ossigeno eventualmente rimasto intrappolato nei pellet.

Come racconta Scott Janish nel suo libro, l’aggiunta del luppolo durante la fermentazione attiva tende a diminuire la componente resinosa (i mirceni sono meno solubili e tendono ad attaccarsi alle cellule di lievito precipitando sul fondo) amplificando invece quella agrumata/fruttata (i terpenoidi come linalolo e geraniolo sono maggiormente solubili, anche se più volatili). In questo modo inoltre si promuove la biotrasformazione che amplifica le note limonose.

Alcuni temono che un lungo contatto dei pellet con la birra tenda a produrre una maggiore nota vegetale; tuttavia, per la mia esperienza, se i tempi di contatto non sono estremamente lunghi (in questo caso una decina di giorni) questo effetto è minimo. Ho definito la birra DDH Pale Ale per la significativa quantità di luppolo utilizzata e per la modalità “inusuale” di dry hopping.

QUALCHE PICCOLO ERRORE

Purtroppo l’imbottigliamento non è andato liscio come speravo. Capita, soprattutto a chi è alle prime armi con un nuovo processo e nuova attrezzatura. Mentre trasferivo dal keg grande a quello piccolo, pescando il mosto dall’alto grazie alla sfera inox galleggiante (link), il tubo interno deve essere finito sopra la superficie del mosto (ho poi dedotto che il tubo in silicone collegato alla sfera era troppo lungo e faceva pressioni sulle pareti del keg). Sono stato costretto ad aprire il keg durante il trasferimento, facendo entrare aria, spostare il tubo e ricominciare l’infustamento. Dopo pochi litri, il flusso si è bloccato di nuovo. Ho ripetuto l’operazione, facendo entrare altra aria nel keg grande che a sua volta è stata poi trasferita in quello piccolo durante l’infustamento. Passato lo sconforto, sono passato al riempimento delle bottiglie con la pistola della Blichmann.

La birra nelle bottiglie è stata rifermentata per sei giorni a temperatura ambiente e poi passato in frigo. Quella nel fustino è stata messa direttamente nel frigo e carbonata forzatamente mantenendo la pressione di CO2 a circa 11 psi per quattro giorni.

L’ASSAGGIO

Il primo assaggio l’ho fatto dopo una decina di giorni, ma quello descritto in questo post è stato fatto a 20 giorni dall’imbottigliamento. Le birre sono state tenute sempre in frigo  a 9 gradi dopo la rifermentazione, il fustino sempre in frigo con pressione di 11 psi per mantenere la carbonazione.

La stessa birra rifermentata (a sinistra) e carbonata forzatamente nel fustino (a destra)

Devo essere sincero: nella realtà il colore delle due birre era molto più simile di quanto non sembri in foto. Guardando bene si notava una venatura leggermente più opaca in quella spillata dal fustino, ma devo dire che a un primo sguardo il colore nei due bicchieri era praticamente uguale. La versione in bottiglia aveva un bel giallo paglierino piuttosto brillante, senza segni di imbrunimento o derive sul rosa/marroncino. Cosa che in altre luppolate avevo notato anche a soli 20 giorni dall’imbottigliamento.

Al naso è arrivata la prima vera e netta differenza: avvicinando il naso alla birra spillata dal fustino ho notato subito una netta sbuffata di diacetile (aroma che ricorda qualcosa di dolce tipo il burro). Impressione confermata ampiamente dall’assaggio. Le note di luppolo al naso sono tuttavia piacevoli in entrambe le birre: agrumate, pulite, senza note vegetali né venature “marmellatose” che spesso emergono con l’ossidazione. Nella versione proveniente dalla bottiglia il diacetile era invece completamente assente.

Ho fatto diversi assaggi a occhi chiusi: anche solo annusando il bicchiere ho sempre individuato la birra proveniente dal fustino per via della nota di diacetile.

Come mai proprio il diacetile? Capita, quando la birra entra a contatto con l’ossigeno. Il diacetile infatti si forma durante la fermentazione per ossidazione dell’acetolattato (non causata dall’ossigeno in questo caso). Fortunatamente è il lievito stesso a trasformare successivamente il diacetile in butanediolo, quest’ultimo con una soglia di percezione molto più alta del diacetile (ovvero  in genere non si percepisce a parità di concentrazione). Può capitare che nella birra finita sia presente ancora acetolattato non convertito in diacetile, e quindi non percepibile al naso. Se entra ossigeno nella birra in fase di imbottigliamento, l’acetolattato viene convertito in diacetile per ossidazione. Se c’è del lievito attivo, viene riassorbito, altrimenti rimane nella birra indefinitamente. E questo è quello che probabilmente è accaduto nella versione in keg della mia DDH Pale Ale.

Anche al palato la differenza mi è sembrata netta. La birra proveniente dal fustino mostrava un amaro più spigoloso, meno piacevole, piuttosto persistente e leggermente vegetale (anche questo potrebbe essere dovuto a una leggera ossidazione). L’amaro della versione rifermentata invece è morbido e lungo, per nulla spigoloso né vegetale. In generale una Pale Ale molto piacevole, fresca, piuttosto aromatica, con note agrumate ben evidenti e resinoso in secondo piano. Per nulla vegetale (almeno quella in bottiglia) e senza quell’effetto “pellet” delle birre molto luppolate. I luppoli usati sono per la maggior parte Belma e Vic Secret in quantità eguali con una piccolissima aggiunta di Amarillo e Cascade negli ultimi dieci minuti di bollitura (avanzi). Tutti luppoli del raccolto 2018 conservati sottovuoto in congelatore.

CONCLUSIONI

Dice: vabbè, hai scoperto l’acqua calda. Infustare male in contropressione crea dei seri problemi alla birra. Ma va? Vero, nulla di particolarmente nuovo in questo senso. E infatti mi concentrerei sull’altro versante dell’esperimento: l’imbottigliamento con Beergun, CO2 e jetting (tappatura sulla schiuma) sembra aver sortito un buon effetto. Nonostante i piccoli errori in fase di imbottigliamento, l’aroma di luppolo è uscito fuori molto bene, la birra ha mantenuto un colore brillante e l’amaro è molto piacevole. Quel poco ossigeno che è entrato in fase di imbottigliamento è stato velocemente riassorbito dal lievito.

È chiaramente presto per trarre conclusioni (anche perché sono passati solo 20 giorni dall’imbottigliamento), ma questa nuova modalità di imbottigliamento con Beergun mi sembra decisamente un miglioramento rispetto al passato, senza grande fatica aggiuntiva. Sarebbe stato bello confrontare questa birra con una infustata e carbonata forzatamente senza errori, ma sarà per la prossima volta.

Rifermentare è quindi in genere più sicuro? Sì, lo è: il lievito combatte l’ossidazione, e lo fa anche bene. Questo però non significa che non abbia altri effetti collaterali, come una variazione del profilo organolettico della birra che in alcuni stili potrebbe essere più evidente (e non necessariamente in modo positivo) rispetto ad altri. Inoltre, tendenzialmente l’ossigeno che rimane nel collo della bottiglia è molto più di quanto effettivamente ne possa riassorbire il lievito durante la rifermentazione. Senza dubbio è quindi buona cosa impegnarsi a tenere l’ossigeno lontano dalla birra in ogni caso: la tappatura sulla schiuma mi sembra già un buon passo avanti in questo senso, oltre al trasferimento in contropressione dal keg alla bottiglia. Seguiranno ulteriori esperimenti.

6 COMMENTS

  1. È sempre un piacere leggere i tuoi articoli, Frank!
    Volevo chiederti: suggerisci sempre l’utilizzo di lievito aggiuntivo in rifermentazione, o solo per alcuni stili?
    Grazie

    • Io lo uso negli stili a forte rischio ossidazione, in modo che si riattivi presto per assorbire eventuale ossigeno. E nelle alte OG, dove il lievito della fermentazione è sicuramente un pò stanco.

      • Articolo come sempre educativo! i che dosi usi il lievito in rifermentazione? ma sono lieviti specifici o lo stesso che usi per la fermentazione?
        Grazie

  2. Ciao Frank, quando inserisco la bomboletta da 16 grammi nel regolatore che psi devo impostare ? Oggi ho provato a spillare la mia prima birra dal keg da 6litri ma non sono rimasto soddisfatto rispetto alla sua stessa versione in bottiglia. Dopo la spillatura ha poca formazione e tenuta di schiuma.
    Grazie in anticipo e buona giornata.

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