Sono diversi anni ormai che si sente parlare di lieviti Kveik, balzati alla notorietà per la loro caratteristica di fermentare a temperature molto alte (30-40°C) senza produrre i tipici difetti legati a una frenetica moltiplicazione cellulare come alcoli superiori (fusel alcohols) o aroma di solvente. Molti ceppi Kveik (ne esistono diversi) hanno addirittura profili aromatici vicini alla neutralità, mentre altri producono delicati aromi fruttati da esteri che possono spaziare dalla scorza d’arancia al tropicale. Inoltre, sono lieviti POF-, ovvero non hanno il corredo genetico per trasformare gli acidi fenolici in fenoli aromatici dai tipici sentori speziati di pepe, chiodo di garofano, noce moscata.

Nulla di sconvolgente, a mio avviso, da un punto di vista pratico. Di lieviti POF- che producono aromi fruttati durante la fermentazione ne esistono già: i ceppi inglesi, il Brett Trois ma anche i lieviti New England, di cui un ceppo è stato reso recentemente disponibile anche in formato secco dalla Lallemand. Certo, questi ceppi a 30°C produrrebbero vagonate di difetti, ma avendo a disposizione due camere di fermentazione a temperatura controllata, non mi sono mai posto il problema. Di fatto, per diversi anni ho ignorato i Kveik, mentre i vari produttori di lievito isolavano nuovi ceppi lanciandoli sul mercato a ritmo forsennato. Per citarne alcuni, la Omega Yeast attualmente ne conta 5 in catalogo (Hornindal, Espe, Lutra, Hothead, Voss), la Lallemand ha recentemente messo in commercio il Voss Kveik in formato secco, Bootleg Biology ha rilasciato la variante Oslo, ceppo isolato da una bottiglia di birra farmhouse prodotta in Norvegia. La scelta, insomma, è piuttosto vasta. Anche White Labs ha rilasciato diversi ceppi Kveik, tra cui Hornindal e Voss. Stranamente, ma potrei sbagliarmi, la Wyeast ha zero ceppi Kveik in catalogo al momento.

Tutti questi lieviti hanno in comune la capacità di fermentare velocemente e ad altissime temperature, il pitching rate che si può (anzi, in alcuni casi, si dovrebbe) mantenere al 10%-50% rispetto a quello dei lieviti standard e un profilo aromatico neutro, a volte con toni leggermente fruttati. Di nuovo, niente di sconvolgente a mio avviso, a meno del vantaggio pratico di poter lasciare il fermentatore in casa in piena estate, senza alcun controllo della temperatura. Utile, senza dubbio, ma non particolarmente esaltante dal punto di vista del prodotto finale che arriva nel bicchiere.

Poi, qualche settimana fa, ho finalmente acquistato il nuovo libro di Lars Marius Garshol, divorandolo in pochissimi giorni. Seguivo (saltuariamente, lo ammetto) Lars da diverso tempo sul suo blog, dove per anni ha raccontato i suoi viaggi in Norvegia, Estonia, Lettonia, Russia, Finlandia, alla ricerca delle tradizioni farmhouse locali. Un mondo vasto, in cui i lieviti Kveik giocano un ruolo volendo anche marginale, al fianco di tradizioni ancestrali e metodi produttivi completamente fuori dalla norma, in alcuni casi impensabili per chi è abituato a ragionare con il libro di Wolfgang Kunze in una mano e quello di John Palmer nell’altra. Seguendo il blog di Lars non mi ero reso ben conto della potenza del racconto, ma non appena ho avuto il libro tra le mani ho realizzato quanto il lavoro di Lars sia vasto e dettagliato. Lo definirei una pietra miliare nella storia contemporanea della birra, un passo storico tra i più importanti degli ultimi anni.

Quindi, anzitutto, non perdetelo. Arriverà poi anche la recensione qui sul blog, ma per il momento acquistate sulla fiducia. 🙂

Leggere il libro ha tuttavia confermato quella che era la mia sensazione iniziale: i lieviti Kveik sono interessanti da un punto di vista storico e culturale, lo sono meno per il loro impatto diretto sulle birre che li hanno resi così famosi. Tant’è che Lars stesso, nel suo libro, non classifica i vari stili farmhouse del Nord Europa in base al lievito, come siamo soliti fare noi seguendo la strada indicata diversi anni fa da Michael Jackson (basse e alte fermentazioni). Per navigare tra le farmhouse Norvegesi, invece, Lars opera una suddivisione basata sul processo produttivo. Troviamo così birre prodotte con mash passato nel forno (oven beers), birre prodotte senza bollire il mosto (raw ales) o addirittura bollendo il mash (boiled beers). A parte casi eccezionali, il lievito è un elemento secondario in questa tipologie di birre. I contadini utilizzavano un po’ quello che capitava: a volte lieviti Kveik, altre lievito per fare il pane, in tempi più moderni viene usato anche S04 per produrre stili tradizionali. In rari casi, come per le birre di Jovaru Alus in Lituania, il lievito utilizzato è invece caratterizzante e assimilabile a un ceppo saison. Ma parliamo dell’eccezione, non della regola.

Questo non significa però che la storia evolutiva dei lieviti Kveik non sia interessante. Anzi, lo è moltissimo. Ma andiamo per gradi.

In Italia i lieviti Kveik sono stati trattati in modo approfondito da un homebrewer che probabilmente moti conoscono già: sto parlando di Antonio Golia, nome d’arte Homebrewing Condor. Se non ricordo male, già dal 2018 (ma probabilmente anche prima), Antonio aveva lanciato sul suo blog una rubrica interamente dedicata alle birre farmhouse norvegesi, ispirata proprio dalle ricerche di Lars Marius Garshol. Nel blog di Antonio trovate moltissime informazioni sulle farmhouse Norvegesi e anche sui lieviti Kveik, ai quali dedicò un lungo post in cui esponeva nel dettaglio le caratteristiche tecniche di questi lieviti. Andando oltre le caratteristiche fermentative e lasciando da parte, per ora, i risvolti pratici delle fermentazioni con lieviti Kveik, vorrei esporre alcuni tratti biologici ed evolutivi di questi lieviti che mi hanno particolarmente colpito, ben esposti nel libro di Lars. Il primo risponde a una precisa domanda: come mai dei lieviti che hanno condizioni ideali di fermentazione intorno ai 30-40°C si sono diffusi proprio in paesi freddi come la Norvegia?

Non c’entra con le chiese bruciate e il black metal

La caratteristica dei lieviti Kveik di fermentare a temperature molto alte mi ha incuriosito da subito. L’associazione tra fermentazioni al caldo e paesi del Nord Europa non è infatti immediata, specialmente se ci si riferisce al contesto della fattoria dove solitamente non si dispone di tecnologie moderne, come ad esempio tank riscaldati per condurre le fermentazioni. La risposta a questo quesito è nel processo: se si ferma il raffreddamento del mosto quando la temperatura è scesa intorno ai 40°C e si inocula subito il lievito, è sufficiente isolare con una coperta il fermentatore per mantenere una temperatura intorno ai 30°C per alcuni giorni. I lieviti Kveik, anche nelle versioni essiccate, hanno lag-time bassissimi, a volte anche inferiori all’ora. Riescono inoltre a completare la fermentazione in due-tre giorni al massimo. Considerando che la fermentazione stessa genera calore, è verosimile che il mosto inoculato mantenga alta la temperatura per diversi giorni. Era facile.

Selvaggio a chi?

Contrariamente a quanto i possa pensare, i lieviti Kveik non sono affatto lieviti selvaggi. Anzi, si tratta di lieviti “domesticated”, come li definisce Lars nel suo libro. Ovvero ceppi che hanno passato una attenta selezione, operata proprio dai birrai delle fattorie che li hanno utilizzati per secoli nelle loro produzioni. Che non siano selvaggi si può intuire dal fatto che non hanno il gene per produrre aromi fenolici (sono POF-, come abbiamo già detto). La produzione di fenoli è una caratteristica comune dei lieviti “wild” (i Brett su tutti): sembra sia utile per ridurre la concentrazione degli acidi fenolici naturalmente presenti in natura (acido ferulico e cumarico sono ad esempio presenti nel mosto), potenzialmente nocivi per il metabolismo del lievito. I lieviti POF+ producono degli enzimi particolari che convertono gli acidi fenolici in vinilfenoli (i composti che associamo agli aromi di spezie) o etilfenoli (più caratteristici dei Brett, come stallatico, cuoio e in generale “funky”). Lo stesso termine POF (Phenolic Off Flavour) deriva proprio dall’associazione dei lieviti “selvaggi” POF+ alla contaminazione del mosto.

La selezione dei lieviti Kveik è avvenuta proprio nelle fattorie in anni di produzione di birra: ogni volta che il contadino prelevava un campione di lievito durante la fermentazione per usarlo nella produzione successiva, di fatto raccoglieva le cellule più attive dei Kveik, in grado di fermentare a 40°C e di attivarsi velocemente. Inoltre, il fatto stesso che le colture venissero spesso essiccate per conservarle meglio, le purificava nel tempo dalle contaminazioni di lieviti selvaggi che non riuscivano a sopravvivere ai processi di essiccatura e successiva riattivazione. Questo spiega anche perché le analisi di laboratorio delle colture miste Kveik essiccate che derivano da campioni utilizzati nelle fattorie non hanno mai rilevato Brett. Batteri sì, questi riescono a sopravvivere all’essiccazione, ma lieviti selvaggi no.

Run Forrest, run!

La velocità con cui fermentano i lieviti Kveik può sembrare un vezzo, ma ovviamente non lo è. Probabilmente è proprio grazie alla loro velocità che sono riusciti a battere, sul piano evolutivo e competitivo, lieviti selvaggi e batteri. I Kveik si attivano subito una volta inoculati nel mosto, mentre i competitor, ovvero i lieviti contaminanti e i batteri, impiegano molto più tempo a risvegliarsi. Questo ha fatto sì che con il tempo i birrai propagassero, involontariamente, i soli ceppi Kveik, lasciandosi dietro gli agenti contaminanti. Che tuttavia ogni tanto riuscivano a tornare alla ribalta, magari nel lungo periodo, rendendo la birra acida o producendo aromi sgradevoli. In quel caso, però, il buon birraio evitava di riutilizzare la coltura di Kveik per una nuova fermentazione, interrompendo così la catena di contaminazione.

Le colture di Kveik

Veniamo al dunque: dove si reperiscono queste fantomatiche colture Kveik? Ancora oggi si possono ottenere con facilità colture essiccate propagate e conservate artigianalmente da homebrewer e appassionati. Originariamente dovrebbero provenire dai lieviti utilizzati nella zona occidentale della Norvegia, per gentile concessione dei birrai che producono birre farmhouse in piccoli paesini. Tra le località più note ricordiamo Voss, Hornindal, Oppdal e Laerdal, tutte cittadine disperse tra i fiordi nella costa sud-occidentale della Norvegia.

Il problema delle colture essiccate e propagate artigianalmente è che non è ben noto cosa ci sia finito dentro. Un caso curioso, citato da Lars Garshol nel suo libro, è quello di un homebrewer Norvegese che ha recuperato e propagato la coltura secca di Kveik che gli aveva lasciato il nonno, rimasta inutilizzata per anni. Ne è venuto fuori un ceppo fenolico che produceva aromi simili a un lievito Weizen. Dopo diverse analisi di laboratorio, si è scoperto che effettivamente si trattava di un ceppo Weizen e che la coltura non presentava traccia di lieviti Kveik, che sono sempre saccaromiceti ma appartenenti a specie differenti rispetto ai ceppi con cui siamo abituati a fermentare. Di fatto l’homebrewer Norvegese aveva propagato per errore il lievito Weizen che aveva acquistato e usato in una fermentazione precedente.

Altre volte capita che le colture Kveik contengano batteri, che in genere agiscono sul lungo periodo rovinando la birra una volta imbottigliata. Tendenzialmente le birre prodotte nel Nord Europa non hanno acidità marcate, questi batteri hanno un effetto assolutamente minore nel profilo organolettico (a differenza ad esempio dei Lambic del Belgio). Quando queste colture passano di mano, però, può accadere che la componente “wild” prenda il sopravvento: non è raro il caso in cui la birra si inacidisca o sviluppi aromi come vomito o formaggio rancido, tipici delle contaminazioni batteriche che producono acidi grassi come l’isovalerico e il butirrico. Insomma, bisogna fare attenzione con le colture miste, propagate senza l’ausilio di strumenti di laboratorio e diffuse da homebrewer. Per carità, in alcuni casi il gioco vale la candela, ma il rischio che la birra sviluppi acidità o aromi indesiderati esiste ed è concreto. Che poi era quello che accadeva e accade tuttora nelle fattorie. Spesso nelle colture miste sono presenti diversi ceppi di Kveik insieme ad alcune tipologie di batteri. Da queste colture miste i produttori professionali di lievito isolano singoli ceppi o colture miste senza batteri, per renderli disponibili agli homebrewer in comode e sicure confezioni pronte per l’utilizzo.

Insomma, alla fine tutta questa storia mi ha preso, e mi sono lanciato. E arriviamo quindi alla mia prima fermentazione con un lievito Kveik, che partirà domani.

Scegliere tra i vari lieviti Kveik

Dopo tutte queste letture, mi è venuta voglia di provare qualche lievito Kveik. L’occasione è capitata a fagiolo quando Pinta mi ha spedito una selezione dal nuovo carico di lieviti della Omega Yeast, produttore americano molto attivo sul fronte dei lieviti farmhouse del Nord Europa. Al momento ha in catalogo diversi lieviti Kveik e ha addirittura avuto la concessione del famoso ceppo di Jovaru Alus, storico produttore di farmhouse lituane (la busta gialla a destra). Quest’ultimo non è un ceppo Kveik, ma un lievito farmhouse più vicino a quelli che siano abituati a trattare: fenolico (quindi POF+) e fruttato, come il Kveik è in grado di lavorare a temperature molto alte senza produrre difetti. In realtà il range di temperatura del ceppo Jovaru Alus è del tutto comparabile a quello del Belgian Saison (21°C-35°C): c’è da capire se va trattato allo stesso modo, partendo relativamente bassi (26°C) e alzando piano piano, oppure può partire a bomba come un Kveik. Vedremo.

È importante quindi distinguere i Kveik dai ceppi farmhouse. I primi, come abbiamo già detto, non sono fenolici, mentre i secondi lo sono. I Kveik classici sono colture che contengono più ceppi contemporaneamente, le più famose sono forse l’Hornindal e il Sigmund Voss. Il ceppo essiccato dalla Lallemand deriva proprio dal Sigmund Voss, mentre l’Hornindal della Omega Yeast deriva appunto dalla coltura di Hornindal, piccolo paesino della costa sud-occidentale della Norvegia. In genere nelle colture miste di Kveik un ceppo è preponderante in termini di contributo sul profilo organolettico, gli altri giocano un ruolo secondario. Isolare il ceppo preponderante può quindi avere un senso. Tra i lieviti farmhouse nord Europei che NON sono Kveik, ma sono invece fenolici (POF+) e quindi più simili a un classico ceppo saison, troviamo i lituani Simonaitis e Jovaru e il ceppo Norvegese Muri. Il Simonaitis originale contiene anche pediococchi, il ceppo isolato dalla White Labs (WLP4046) e da The Yeast Bay è invece un Saccharomyces, simile a un lievito saison. Il ceppo Jovaru è anche diastatico, il che significa che è un forte attenuatore alla stregua del French Saison.  Sul Muri invece si sa molto poco, sembra sia un lievito ormai scomparso (è il ceppo che l’homebrewer Norvegese non è riuscito a propagare, propagando invece il lievito Weizen). La Omega Labs produce anche altri tre ceppi di Kveik: Espe, Lutra e Hothead.  Espe e Hothead hanno caratteristiche simili: fermentano bene a temperature molto alte e producono aromi tropicali. L’Hornindal e il Lutra derivano dalla stessa coltura mista kveik Hornindal: il primo è più caratterizzante e fruttato, il secondo è probabilmente uno dei ceppi secondari, essendo sorprendentemente neutro anche quando lavora a 35°C.

Insomma, c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Quale stile produrre?

Grazie per la domanda, rispondo volentieri. Come scrivevo prima, le birre farmhouse del Nord Europa sono caratterizzate dal processo piuttosto che dal lievito. Non esiste uno stile Kveik, come non esiste uno stile Jovaru. Quest’ultimo ceppo è un po’ più caratterizzante, ma anche in questo caso è il processo che rende uniche le Kaimiškas lituane, non il lievito. Si tratta infatti di birre crude (stavolta crude sul serio, nel senso che il mosto non viene bollito). A volte vengono fermentate addirittura con lievito da panificazione. Discorso simile per altri stili tradizionali fermentati con lieviti Kveik, come il Kornøl, anch’esso prodotto senza bollire il mosto.

Per quanto provare a produrre in casa questi stili con il metodo classico possa essere interessante (indubbiamente lo è), per ora vorrei limitarmi a usare un Kveik su uno stile moderno, più semplice da produrre. Qualcosa in cui il contributo fruttato dell’Hornindal possa integrarsi bene senza venire sovrastato. No IPA, quindi, dove finirebbe per essere sommerso dal luppolo. Ho pensato a una Golden Ale, leggermente più alcolica dello standard BJCP (5.5% ABV) poiché i lieviti Kveik non performano benissimo in mosto con bassa OG. Aggiungere nutrienti aiuta, cosa che farò. Voglio sfruttare tutte le comodità del Kveik: quindi niente starter e fermentazione fuori dalla camera di fermentazione (ne ho due, ma in estate sono riempite dalle bottiglie in maturazione oltre che da una bitter che sta fermentando). In base alla data di produzione stampata sulla busta dovrei essere a un livello di pitching di circa 50-60% rispetto a quello classico da alta fermentazione, quindi ideale per il Kveik. Aggiungerò comunque nutrienti al mosto e terrò il fermentatore in sgabuzzino, dove siamo sui 30°C. Vediamo cosa viene fuori. Prossimo test Lutra per una pseudo lager e poi Jovaru, ma qui devo ancora capire bene come procedere.

Insomma, alla fine mi sono entusiasmato dei Kveik ancora prima di provarli su una birra.

AGGIORNAMENTO: qui i risultati delle prime birre prodotte con questi lieviti (link)

 

 

4 COMMENTS

  1. Ciao! Ho testato di recente il voss kveik di Mangrove Jack’s per una RAW session IPA (OG 1032)… SMASH con maris otter e Mosaic. Ho sperimentato parecchio, cercavo il risparmio di tempo estremo, quindi ho fatto 45 minuti di mash, 20 minuti di hopstand a 80 gradi e nessuna bollitura. Portato la temperatura a 35 gradi e inoculato. Fermentazione bruciata in 20 ore secche. Qualche giorno di DH e poi rifermentazione in bottiglia. In 10 giorni birra già pronta da bere. Il profilo del lievito è leggermente agrumato, non direi neutro ma di sicuro non presenta difetti o puzze indesiderate e non fa a cazzotti con il Mosaic. Ah già… attenuazione 85%. Se avessi un birrificio terrei in considerazione questo trattorino: con tempi e resa simile si guadagna di sicuro.

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