Dopo qualche settimana di pausa estiva, riparte l’attività del blog con un post di riflessioni. Sono ormai dieci mesi che fermento nei jolly keg, trasferendo birra non carbonata in contropressione sia in bottiglia che in fusto: direi che dopo 10 cotte posso azzardare un primo bilancio su questo nuovo approccio alla produzione casalinga.

Da metà dicembre 2019, quando ho piazzato il mega ordine di attrezzatura su The Malt Miller, ho brassato 10 birre:

  1. Irish Extra Stout (link)
  2. DDH Pale Ale  (link)
  3. Belgian Tripel (link)
  4. Session IPA (link)
  5. Rye IPA (link)
  6. Altbier (link)
  7. Kölsch (link)
  8. Belgian Tripel nuova versione (da recensire)
  9. Best Bitter (da recensire)
  10. Kveik Golden Ale (da recensire)

Un buon assortimento di stili che spaziano dal Belgio, all’Inghilterra fino alle luppolate americane. Manca una bassa fermentazione, che non ho avuto tempo di sperimentare. La Altbier si può considerare una sorta di esperimento in questo senso: fermentata con lievito a bassa fermentazione (S23 tenuto a 15°C) e lagerizzata per tre settimane. Esperimento che ha dato dei risultati interessanti, come vedremo nel seguito del post. Ma veniamo a noi.

La seconda versione della mia tripel. Fermentata in keg, imbottigliata in contropressione e rifermentata in bottiglia.

RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI

Per chi non avesse seguito il mio travagliato avvicinamento alla contropressione, riassumo brevemente i principali passaggi della storia.

Anche io, come molti, ho attraversato diverse fasi nella mia vita da homebrewer. Inizialmente, parliamo di 7 anni fa, non sapevo nemmeno cosa fosse l’ossidazione: ne avevo sentito parlare, ovviamente, ma non avevo raggiunto una vera e propria consapevolezza. Sono stato sempre attento a limitare l’ingresso dell’ossigeno nella birra, come tutti, ma con l’attrezzatura standard più di tanto non si riesce a fare. Tuttavia, la mia tecnica migliorava e le mie birre mi rendevano soddisfatto. Quindi sono andato avanti per la mia strada (link).

Non sono mai stato un fan accanito delle birre pesantemente luppolate. Ne ho prodotte relativamente poche, il che ha aiutato di certo a limitare il problema dell’ossidazione nelle mie produzioni. Si presentava ogni tanto, inutile negarlo, con birre che diventavano leggermente scure, a volte rosate, e aromi luppolati non sempre esaltanti. Non ci facevo più di tanto caso, si trattava di piccoli difetti che potevo sopportare.

La seconda fase è stata quella della presa di coscienza: iniziavo ad avvertire l’ossidazione, ma non volevo mollare il mio processo né la mia attrezzatura. Un po’ per problemi di spazio, visto che facevo – e continuo a fare – birra sul piccolo terrazzino di casa; un po’ per principio. Per scelta personale, il volume di produzione è da sempre ridotto (12 litri a cotta), il che mi permette di consumare le birre in breve tempo e di tenerle in frigo occupando relativamente poco spazio. Questo approccio ha limitato gli effetti dell’ossidazione, permettendomi di andare avanti ancora qualche anno con un impianto standard che consisteva in pentolone BIAB,  fermentatori in plastica e imbottigliamento con sifone e asta da travaso.

A un certo punto questo metodo ha iniziato a starmi stretto, come si evince dalla foto in basso, e ho deciso quindi di cambiare. Non che le birre venissero male, per carità. C’erano ovviamente alti e bassi, ma la qualità media era in costante miglioramento. A un certo punto, però, mi sono iniziate a prudere le mani: volevo cambiare, andare avanti, provare qualcosa di nuovo. Ho così modificato l’impianto per passare dal BIAB al tre tini con sparge (link). Ma, soprattutto, sono passato alla fermentazione in keg e al trasferimento in contropressione.

Le prime cotte in BIAB, quando prendevo questo hobby molto seriamente (anche troppo)

IL NUOVO IMPIANTO

Per prima cosa sono passato al tre tini. Attrezzatura nuova e impianto li ho abbondantemente descritti in questo precedente post, le motivazioni del cambiamento possono riassumersi in poche parole: voglia di sperimentare e soprattutto maggiore disponibilità di spazio e tempo a disposizione. Il BIAB è stato utilissimo per brassare frequentemente e fare esperienza quando il tempo e lo spazio a disposizione erano davvero minimali (casa piccola e bimba appena nata).

Con la bimba cresciuta e il cambio di casa, ho deciso di evolvermi anche su questo aspetto della produzione. Avendo autocostruito l’impianto, non mi ci è voluto molto per sostituire la sacca BIAB con un fondo filtrante e inserire nella line-up un’altra pentola elettrica per la bollitura e una per un piccolo sparge (9 litri su un totale di 20-22, sufficienti per migliorare un po’ l’efficienza e pulire il mosto). Questo accadeva più o meno un anno fa, intorno a Settembre 2019.

Il grande cambiamento è arrivato a Dicembre dello stesso anno, quando finalmente mi sono deciso ad acquistare l’attrezzatura per passare alla contropressione. Ho valutato diverse opzioni, raccogliendo informazioni sul web e pareri di amici. La prima fonte è stata ovviamente il blog di Davide (Rovidbeer.it), ma anche blog americani o inglesi, dove questo approccio è largamente diffuso da molti anni. Ho ponderato molto le mie scelte perché non volevo impelagarmi in configurazioni troppo elaborate. Rispetto alle prime cotte ho cambiato casa, ma vivo sempre in città e faccio birra su un piccolo terrazzino, imbottiglio in cucina, lavoro e nel weekend ho anche altre cose da fare oltre a passare la giornata a seguire cotta o imbottigliamento. Cercavo un compromesso che mi permettesse di godere dei vantaggi della contropressione senza complicarmi troppo l’esistenza. Avevo intenzione di mantenere i piccoli volumi di produzione, che trovo ideali: meno bottiglie da riempire, meno spazio per lo stoccaggio di vuoti e di bottiglie piene, meno birra sempre uguale da bere (non bevo solo le mie, di birre), meno smadonnamenti se una cotta non viene bene.

La fermentazione nei keg jolly da 19 litri mi è sembrata la scelta ideale. Ho deciso anche di evitare di imbottigliare birra già carbonata e fermentare in pressione, per ridurre la complessità dell’impianto. Ho quindi optato per l’imbottigliamento di metà cotta con Beergun (10 bottiglie da mezzo litro con priming in bottiglia); l’altra metà la trasferisco in contropressione in un piccolo fustino da 5 litri dove carbono la birra forzatamente (qui la guida passo passo).

In questo modo per ogni cotta ho la stessa birra in versione rifermentata (bottiglie) e non rifermentata (fustino). Per gli stili a lunga maturazione che risentono meno dell’ossidazione (barley wine e tripel per esempio), imbottiglio e rifermento l’intero batch.

Qui alcuni dettagli sul mio processo e qualche suggerimento: link1, link2, link3.

QUANTO COSTA?

Lasciamo da parte la produzione del mosto e focalizziamoci su fermentazione e imbottigliamento. Non mi metto a fare la lista dettagliata dell’attrezzatura che ho acquistato, ma i componenti essenziali si possono riassumere nei seguenti item:

Opzionali, ma molto utili:

Senza voler essere estremamente precisi e con un po’ di arrotondamento al rialzo, parliamo di una prima spesa nell’ordine di 800-900€.

Limitando gli acquisti (per esempio si può evitare di acquistare la bombola Sodastream e il secondo riduttore di pressione, collegando al fustino la bombola di CO2 grande con il suo riduttore di pressione) e acquistando fusti usati e qualcosa su Aliexpress, si può scendere a 500-600€. Meno, la vedo dura. Non è poco, ma va considerato che la maggior parte dell’attrezzatura è in acciaio inox: se tenuta bene, dura a vita. Ogni tanto va solamente ricaricata la bombola (la mia da 5Kg ha ancora CO2 dopo 10 cotte) e sostituito qualche raccordo, ma parliamo di spese minime.

È DAVVERO DIFFICILE E IMPEGNATIVO?

Direi di no. Qualche errore alle prime cotte è inevitabile, ma dopo poco ci si prende la mano. Posso confermare che, come mi avevano detto in molti, la contropressione è più difficile da spiegare che da mettere in pratica. Alla fine si tratta di comprendere dei concetti base non particolarmente ostici e alla portata di tutti, dopodiché un po’ di pratica fa il resto.

Sull’impegno in termini di tempo qualcosa cambia. C’è più attrezzatura da pulire e sanificare ogni volta che si imbottiglia rispetto al metodo classico: prima me la cavavo con sapone, olio di gomito e un secchio pieno di acqua e candeggina, ora è un po’ diverso. La candeggina è meglio non usarla sull’inox, quindi rimangono praticamente solo guarnizioni e tubi lavabili con candeggina (anche i raccordi John Guest, che fuori sono in materiale plastico, hanno lamelle di acciaio all’interno). Sono dovuto passare a prodotti detergenti un po’ più aggressivi, che danno maggiore sicurezza ma sono un po’ più delicati da maneggiare e spesso più costosi (come il Removil o il PBW). Volendo si può usare la semplice soda caustica, più economica ma anche più pericolosa. Tuttavia, adottando le dovute precauzioni (occhiali e guanti in gomma) siamo in un range di rischio gestibile anche in casa.

Quindi, sì: pulire e sanitizzare è un po’ più complicato. Tuttavia, mantenendo bassi i volumi di produzione, si semplifica molto. Il keg da 19 litri si può agilmente riempire fino all’orlo di acqua calda e Removil senza spendere un capitale. Si mettono poi tutti i connettori e i raccordi in ammollo nel keg e si lascia agire per un’oretta. Poi risciacquo e passaggio di acido (citrico, in genere, senza riempire ma scuotendo bene). Alla fine non è così impegnativo, anche se i pezzi da pulire sono tanti.

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Per la sanitizzazione va benissimo lo Starsan, senza riempire interamente il keg ma scuotendolo per bene. Anche tutta la minuteria si può sanitizzare con Starsan in un secchio, la stessa soluzione si riusa poi per la sanitizzazione del keg (3-4 litri). Alla fine, per estrema sicurezza, sciacquo il keg con acqua di bottiglia (ne basta mezzo litro), anche se lo Starsan non andrebbe nemmeno risciacquato.

Se l’attrezzatura viene ogni volta pulita attentamente con Removil (o prodotto equivalente) e conservata bene, la sanitizzazione non deve essere estrema: lo Starsan è abbastanza efficace in questo senso. In alternativa si può usare il peracetico, ma a mio avviso non ce n’è bisogno.

Nel mio impianto cerco di mantenere i tubi molto corti, in modo da poterli mettere in ammollo facilmente in un secchio di plastica o nel keg. In questo modo evito ricircoli vari di detergenti o sanitizzanti che richiederebbero un’altra pompa e il collegamento di tutto l’armamentario. Non ho impianto spine ma spillo dal piccolo keg da 5 litri, quindi anche in questo caso niente tubi.

Più l’impianto si ingrandisce, più rognose diventano pulizia e sanitizzazione. Poi magari ci si arriva, ma per ora ho cercato di limitare il più possibile l”effort e sono molto soddisfatto.

FERMENTAZIONE

Nulla di particolarmente complicato. Una volta freddato il mosto dopo la bollitura, lo trasferisco direttamente nel keg. La birra fermenta nel fusto con blow-off, esattamente come in un fermentatore classico. Nel keg si potrebbe anche fermentare in pressione, applicando una valvola di spunding al connettore. Tuttavia, a meno che non si voglia imbottigliare birra già carbonata, la fermentazione in pressione non porta particolari vantaggi. Il mio obiettivo è evitare che entri ossigeno nel keg, il blow-off è più che sufficiente in questo caso

Non travaso praticamente mai. Tutte le birre elencate all’inizio del post sono state prodotte senza alcun travaso, con tempi di permanenza nel fusto anche di un mese e mezzo (incluse le settimane di cold crash). Al tubo del keg che pesca dal fondo ho sostituito una sfera galleggiante inox collegata a un tubo di silicone che permette di pescare dall’alto (link), come facevo con il sifone dal fermentatore di plastica.

Potrei travasare se decidessi di produrre una birra che richiede lunga maturazione in bulk a temperatura ambiente (come Barley Wine o Imperial Stout), ma parliamo di casi molto rari. Travaserei probabilmente una bassa fermentazione se dovesse lagerizzare per più di un mese. Vedremo. Con qualsiasi spostamento di birra da un contenitore all’altro si rischia sempre di introdurre aria e quindi ossigeno: se posso, evito.

Per il controllo della temperatura utilizzo una sonda poggiata sulla parete del keg, coperta con uno strato di materiale isolante. La misura è affidabile grazie alla forma allungata del keg e al ridotto volume di birra all’interno (ho verificato con una sonda immersa nel liquido).

Unica attenzione particolare rispetto ai fermentatori in plastica va applicata durante il cold crash (abbattimento di temperatura a fine fermentazione). Se lasciassi il blow-off attaccato, risucchierebbe acqua all’interno del fusto. Staccarlo è pericoloso perché le valvole del fusto funzionano bene solo se c’è un minimo di pressione interna: potrebbero cedere durante il raffreddamento e lasciar entrare aria. Per fare cold crash attacco quindi la bombola di CO2 al posto del blow-off con il regolatore di pressione impostato al minimo, tanto per garantire un flusso minimo di CO2 dalla bombola al keg durante la discesa di temperatura. Arrivato ai 5-6°C (in genere nel giro di una nottata), stacco la bombola, continuo a far scendere fino a 0-2°C e lascio il fusto al freddo per il tempo necessario. Se ho bisogno di prelevare un campione attacco bombola di CO2 e rubinetto (basta anche un rubinettino di plastica John Guest), spingo dentro CO2 e prelevo birra senza far entrare aria.

Questa fase della produzione è rimasta di fatto molto simile a quello che facevo in precedenza, senza particolari complicazioni, riducendo praticamente a zero l’ingresso di aria nella birra fino a quando non arriva in bottiglia (ma ne parleremo dopo).

Con qualche piccola accortezza, si riesce a ridurre notevolmente anche l’ingresso di ossigeno durante il dry hopping. In genere insufflo CO2 a bassa pressione mentre apro il fusto per generare un moto verso l’esterno del fusto, aggiungo il luppolo, chiudo e continuo a insufflare per un paio di minuti, scaricando verso l’esterno dalla valvola del keg. Sicuramente meglio che aprire il fermentatore di plastica, buttare dentro il luppolo, chiudere e pregare che la birra non si ossidi.

IMBOTTIGLIAMENTO E INFUSTAMENTO

In questa fase volevo assolutamente evitare di acquistare pompe per il vuoto e di mettere in piedi un impianto pieno di tubi, valvole e raccordi. Da una parte non ho spazio visto che ogni volta devo occupare la cucina, ma non volevo nemmeno impiccarmi in sanitizzazione e pulizie di miliardi di pezzi e tubi. Ho deciso così di non imbottigliare birra carbonata, ma di trasferire la birra dal keg alle bottiglie in contropressione con la Beergun, che aiuta anche a rimuovere un bel po’ di aria dalla bottiglia grazie alla CO2 che si spara dall’estremità della pistola prima di imbottigliare. Ho scoperto che con un po’ di abilità manuale si riesce a tappare sulla schiuma (specialmente se si riporta la birra a 20°C), il che aiuta a ridurre l’aria presente nello spazio vuoto del collo della bottiglia. Faccio priming bottiglia per bottiglia con la siringa da iniezioni da 5 ml: alla fine sono 10 bottiglie da mezzo litro, non ci vuole granché.

La pratica del Jetting (schiuma nel collo della bottiglia prima di tappare)

I collegamenti sono facili e la Beergun si usa praticamente come un’asta da imbottigliamento. 10 bottiglie si riempiono in 20-30 minuti.

L’altra metà del fusto (in genere la prima metà, per prendere la birra più limpida) la sposto in contropressione nel fustino da 5 litri, dove poi la carbono forzatamente applicando pressione con bombola e riduttore di pressione (link)

Aggiungendo i preparativi prima e la pulizia dopo, l‘imbottigliamento si completa in un paio d’ore. Più o meno quanto impiegavo prima con l’approccio classico.

LE MIE IMPRESSIONI

Come è andata con le birre? Be’, devo dire che in generale ho notato un miglioramento netto della qualità. Su tutte le birre, nessuna esclusa. Nelle luppolate ho sperimentato diversi metodi di dry hopping (link) e il risultato è stato sempre molto buono. Visivamente le birre hanno sempre mantenuto un colore brillante, senza scurirsi ne acquisire sfumature rosate. Cosa che prima ogni tanto mi capitava.

L’aroma delle luppolate mi è sembrato nettamente migliorato rispetto a prima. C’è da dire che consumo le birre piuttosto velocemente: i 5 litri del fustino se ne vanno in una settimana, le altre bottiglie nel giro di un paio di mesi al massimo sono finite. Per ottenere buoni risultati è stato importante investire sulla conservazione delle birre. Ho due frigoriferi dedicati alla birra ora, e un terzo per qualche bottiglia di emergenza (quello di casa). Cerco di non tenere le luppolate fuori dal frigo dopo la carbonazione, mai. Come anche le basse fermentazioni. Le birre a lunga maturazione le tengo a temperatura ambiente, ma da Giugno fino a fine Settembre il secondo frigo si trasforma in cella di maturazione/rifermentazione con temperatura stabile a 15°C o 18°C (a seconda dell’utilizzo). A Roma da Giugno a Settembre è frequente che la temperatura non scenda sotto i 25-30°C, lasciare maturare o rifermentare le birre a queste temperature è deleterio.

Il mio frigo dedicato alla maturazione e alla rifermentazione

A occhio mi sembra che l’ossidazione nelle birre che produco si sia ridotta. Dico “a occhio” perché non ho misurato l’ossigeno disciolto, cosa non facile da fare. Del resto non lo misura praticamente nessuno in ambito casalingo, le valutazioni di questo tipo sono sempre fatte a occhio, a sensazione. E la mia sensazione è decisamente buona.

La cosa più importante, dal mio punto di vista, è che non ho sconvolto più di tanto i miei processi. Faccio più o meno le stesse cose negli stessi tempi. Ho allungato di un’oretta i tempi della cotta passando dal BIAB al tre tini, ma in compenso produco mediamente un mosto più pulito. Quanto questo influisca sulla qualità della birra è difficile dirlo, ma insieme alla riduzione dell’ossidazione a freddo un miglioramento c’è stato. La maturazione e conservazione delle birre a temperature ottimali ha fatto il resto. Dal mio punto di vista ha più senso produrre meno birra e conservarla meglio, piuttosto che rendere la strumentazione più complessa per produrre un quantitativo maggiore di birra che si conservi più a lungo anche se “trattata male”. Fossi un birrificio, percorrerei senza dubbio questa seconda strada, ma come homebrewer mi diverte più la prima.

Per quanto riguarda le differenze tra birre rifermentate (la parte della cotta che finisce in bottiglia) e quelle carbonate forzatamente nel fustino, posso affermare che, almeno fino ad ora, sono minime se non inesistenti. Ho fatto un test alla cieca tra una versione e l’altra della Kolsch, per esempio, senza individuare differenze. Nella luppolate non ho fatto test alla cieca perché non ne avevo voglia, ma comunque le ho provate una di fianco all’altra e non ho notato differenze percepibili. L’unica birra in cui ho notato variazioni (con test a triangolo alla cieca) tra le due versioni, è stata la Altbier (link). Guarda caso, l’unica delle dieci fermentata con lievito a bassa fermentazione (non è in stile, lo so, ma era una prova). Vedremo in seguito, ma per ora sono molto soddisfatto.

Alla fine dei conti sento di aver fatto un passo avanti come homebrewer, partendo da un livello che era comunque già buono grazie allo studio e agli anni di esperienza. La sola contropressione o l’isobarico (ovvero fermentazione in pressione e imbottigliamento di birra già carbonata) da sole non fanno miracoli: devono essere affiancate da conoscenza, esperienza e attenzione ai dettagli. Per molti stili probabilmente il risultato non cambia granché, ma una volta presa questa strada non ha molto senso ritornare a fermentare in plastica e imbottigliare con asta. Gli stili da rifermentare li rifermento comunque (magari non li metto in fustino), un po’ di ossigeno in meno non può che far bene alla birra e lo sforzo extra è del tutto trascurabile ormai.

C’è un significativo investimento iniziale, su questo non c’è dubbio, ma alzi la mano chi è diventato homebrewer per risparmiare. Fare birra in casa non esclude l’acquisto di buone birre artigianali, anzi, stimola la curiosità in questo senso. E alla lunga, comunque, una volta ammortizzato l’investimento iniziale, si risparmia anche. Se proprio uno ci tiene a risparmiare, chiaro.

 

19 COMMENTS

  1. Complimenti per l’articolo Frank, scorrevole e gradevole come sempre!
    Da quanto scrivi, finisci abbastanza presto le produzioni sia nel faustino che imbottigliate. Nelle prove fatte per trovare differenze tra i due metodi, quale hai spinto più in là nel tempo? Hai provato ad esempio con qualche super luppolata lasciata 3 mesi e oltre?
    Grazie sempre per la condivisone delle tue esperienze.

    • In genere no, le finisco e basta. A lasciarle oltre tre mesi per il bene della scienza non ci sono ancora arrivato… 🙂 Scherzi a parte: ho provato una luppolata dopo due mesi e aveva retto abbastanza bene. Però non cerco miracoli, come ho scritto, perché ho dimensionato il tutto per consumarle nel breve/medio periodo. La tripel è arrivata a tre mesi, e ci è arrivata molto bene (sempre di colore oro brillante) e ho un barley wine in maturazione che ha 10 mesi, ma lo avevo imbottigliato con asta da travaso.

  2. Ciao Frank in una foto di questo articolo vedo la pompa uguale alla mia.. ti posso chiedere come regoli il flusso? ho visto che hai montato un rubinetto in uscita ma così facendo non si rovina la girante il motore visto che va sotto sforzo ?? Ciao grazie dell’informazione

    • Le pompe magnatiche non possono avere sforzo meccanico perchè la girante ruota grazie al campo magnetico. Si possono quindi tranquillamente regolare con un rubinetto in uscita. La uso infatti anche per lo sparge con flusso lentissimo.

  3. Ciao Frank, avrei una domanda.. secondo te qual’è la shelf life di una birra infustata in contropressione da che si spilla il primo bicchiere sino all’ultimo? Mi chiedevo se la settimana in cui consumi il fusto potevano essere per esempio 2 o 3 senza che il prodotto si degradi. Grazie mille

    • Secondo me dopo una settimana iniza nettamente a peggiorare, ma confesso di non esserci arrivato 🙂 Prova e valuta tu stesso

    • Io li faccio roteare vorticosamente nelle mani tipo frusta 🙂 Comunque non dovrebbero creare muffa se passa aria.

  4. Ciao Frank,
    commento con estremo ritardo questo post ma mi sto avvicinando adesso al mondo della contropressione, leggendo i tuoi post ed ascoltando il tuo podcast Mash Out!
    Vorrei avvicinarmi piano piano senza stravolgere completamente la mia attrezzatura, mi piacerebbe utilizzare la beer gun per imbottigliare birra non carbonata, ma continuando a fermentare nei fermentatori di plastica.
    Può funzionare questa soluzione? Fermento nel fermentatore di plastica, poi collego l’ingresso della birra della beer gun direttamente al rubinetto del fermentatore o al sifone ( lavorando quindi a caduta), poi saturo di co2 la bottiglia e riempio la bottiglia dal basso con la beer gun ed imbottiglio sulla schiuma?
    Può essere un primo passo verso il mondo dell’isobarico e della contropressione oppure è una ca**ta?
    Grazie

  5. Ciao frank, non mi è chiaro a cosa serve l
    Utilizzo di rubinetti John guest in quelle posizioni nelle varie fasi. Potresti aiutarmi a capire?

    • Il primo a destra, tra bombola e keg grande, in realtà non serve. Quello a sinistra, in uscita dal keg piccolo, invece serve per non far uscire di botto tutta la co2 mentre si riempie di birra, con il rischio di far entrare aria.

      • Ho capito, grazie mille. Ma perché usare ancora il secchio con il blowoff quando stai trasferendo la birra? Non basterebbe far defluire fuori la c02 dal tubo? C’è il rischio che entra ossigeno?

  6. Ciao Frank, cosa intendi quando dici “con un pò di abilità manuale si può tappare sulla schiuma”? Ho la stessa pistola e volevo capire cosa facevi per far far un pò di schiuma utile a togliere ossigeno dalla bottiglia. Grazie

    • Niene di partiolare. Spruzzatina di CO2 verso la fine, un minimo di scuotimento della bottiglia. Funziona se la birra è calda, da fredda meno. Con le alte gradazioni è molto difficile far schiumare birra non carbonata.

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