Senza ombra di dubbio, la contropressione applicata alla produzione casalinga di birra è stato il fenomeno degli ultimi anni e lo sarà probabilmente per diverso tempo. Dopo la diffusione dei sistemi All-In-One, è forse la tendenza più discussa e seguita dagli homebrewer negli ultimi anni. Un fenomeno che in alcuni casi divide, che lascia freddi molti mentre rapisce completamente altri produttori casalinghi. C’è chi, come me, è rimasto scettico in un primo momento ma poi si è lasciato conquistare da questo metodo di gestione di tutta la parte produttiva cosiddetta “a freddo”, ovvero dal raffreddamento del mosto al bicchiere. A prescindere dai giudizi e dalle valutazioni di merito che rimangono nella sfera delle scelte personali, si tratta comunque di un approccio interessante da studiare e scoprire. Anzi, più che un approccio o metodo, la definirei proprio una “filosofia produttiva”. Tuttavia, noto a malincuore che le numerose discussioni su questo tema spostano spesso il centro del discorso dalla birra all’attrezzatura, con conseguente noia del sottoscritto che si trova a sbraitare nei commenti come un vecchio pensionato che indica agli operai del cantiere le operazioni da compiere per riparare la tubatura dell’acqua.
Sia chiaro che non ho nulla in contrario nei confronti della contropressione, anzi: è quasi un anno ormai che ho iniziato ad addentrarmi nei meandri di questo affascinante mondo con risultati più che soddisfacenti. Il mio è stato, ed è tuttora, un approccio graduale che ruota sempre e soprattutto attorno al prodotto, ovvero alla birra, non all’attrezzatura in se’. Cerco sempre di testare e verificare sul campo ogni modifica o evoluzione che apporto al mio impianto, assaggiando e valutando il prodotto che mi trovo nel bicchiere.
Perché il grande problema con la contropressione, a mio avviso, è che attira tanti – troppi – produttori casalinghi che ancora non hanno una chiara idea di cosa significhi fare birra in casa. Ammaliati dall’idea di produrre birre iperluppolate dalla shelf-life di mesi (nemmeno dovessero venderle), o basse fermentazioni degne di antiche taverne sperdute in Franconia (dove, tra l’altro, la birra si ossida e come!) si lanciano a razzo sulla contropressione convinti che da sola faccia miracoli, quando è invece molto più probabile che arrechi ancora più danni se non viene gestita e capita a dovere.
Leggo di homebrewer che non conoscono alcuni principi fondamentali della produzione, che scrivono ricette senza capo né coda, che usano i fiocchi per sostenere la schiuma, che non conoscono minimamente gli stili, ma si buttano senza se e senza ma in una lotta sfrenata contro l’aria, l’ossigeno, la rifermentazione. Questo approccio non porta lontano, né verosimilmente produce birre migliori. Nella maggior parte dei casi fa solamente spendere un sacco di soldi, con risultati mediocri se non addirittura negativi sul prodotto finito. Con questo post volevo provare a sottolineare alcuni aspetti critici di questo processo, piccole sfumature che andrebbero capite e valutate bene prima di partire con pistole, tubi, John Guest, fermentazioni in pressione e via dicendo. Partiamo dalle basi.
Isobarico o contropressione?
Per molti è una questione di lana caprina, e probabilmente lo è, ma è importante conoscere la differenza tra questi due termini. Su cui, tra l’altro, non si trovano tutti esattamente d’accordo. Ci avevo riflettuto molto e un’idea me l’ero già fatta, ma solo qualche settimana fa ho trovato la conferma alle mie idee in un commento Facebook di Luca Cottini, homebrewer con grande esperienza in questo campo. Isobarico significa letteralmente “alla medesima pressione”, ed è quindi un termine indicato per descrivere trasferimenti che avvengono a pressione costante. L’unico modo per far scorrere un fluido tra due contenitori alla stessa pressione, senza spingerlo, è sfruttare la gravità. Ovvero, il contenitore di partenza deve trovarsi più in alto rispetto a quello di arrivo. Il trasferimento può avvenire quindi semplicemente aprendo un rubinetto. Tecnicamente, i classici trasferimenti a caduta del mosto dal fermentatore in plastica alla bottiglia con asta da travaso sono trasferimenti isobarici, perché avvengono alla stessa pressione: quella atmosferica. Tuttavia, con il termine isobarico ci si riferisce a trasferimenti a caduta che avvengono tra due contenitori che si trovano a una pressione diversa da quella atmosferica. Il processo implica, in genere, che non vi sia contatto tra aria e birra perché i due contenitori sono chiusi e in pressione. Questo scenario non si verifica praticamente mai nei processi casalinghi.
Quello che invece pratichiamo in casa sono i cosiddetti trasferimenti in contropressione. Questo metodo non può definirsi isobarico perché la birra viene spinta fuori dal contenitore di partenza tramite una differenza di pressione. Per muovere il fluido senza il supporto della forza di gravità, infatti, la pressione nel contenitore ricevente deve essere necessariamente minore, anche di poco, di quella nel contenitore di partenza. Questo processo può avvenire senza contatto con l’aria, come nel caso in cui si usi la famosa “pistola cinese” che tiene tappata la bottiglia mettendola in pressione, oppure con un passaggio nella bottiglia aperta, come si fa con la Beergun della Blichmann. Nel primo caso si trasferisce birra carbonata, mentre con la Beergun solitamente la birra non è carbonata, perché altrimenti la differenza di pressione tra fermentatore e bottiglia aperta produrrebbe una quantità eccessiva di schiuma durante il trasferimento.
Scopriamo quindi che i due termini, isobarico e contropressione, non indicano di per se’ un trasferimento necessariamente in assenza di contatto con l’aria. In casa, la contropressione è applicata indifferentemente all’imbottigliamento di birra già carbonata o a quello di birra che verrà invece rifermentata. Nella bottiglia può esserci aria, vuoto o CO2, sempre di contropressione si tratta. Questo è quello che alla fine ho compreso io, e mi sembra un quadro piuttosto coerente.
La lotta senza quartiere all’ossigeno
Quanto è importante evitare il contatto della birra con l’ossigeno? Molto, su questo non c’è nessuno dubbio. Gli effetti dell’ossidazione, tuttavia, sono vari e di entità ben diversa tra loro; possono manifestarsi nel breve, medio o lungo periodo, o addirittura non manifestarsi mai; alcuni sono addirittura positivi, mentre altri possono rovinare completamente una birra. Il discorso è ampio e complicato, molti studi sono ancora in corso e ulteriori evidenze emergeranno negli anni a venire. Alcuni effetti dell’ossidazione li ho descritti in questo post di qualche tempo fa, che consiglio a tutti di leggere.
Quello che mi turba dell’approccio che molti hanno nei confronti della contropressione casalinga, è la lotta senza quartiere all’ossigeno. Intendiamoci, teoricamente ci starebbe anche: eliminare completamente l’ossigeno dalla birra quando non si rifermenta è il sogno di tutti noi. La rifermentazione garantisce una certa protezione (anche se solo parziale) ma se la birra non rifermenta, una concentrazione di ossigeno sopra le 100 ppb (parti per miliardo, ovvero 0,1 ppm) è già considerata pericolosa per la tenuta organolettica della birra, specialmente se si tratta di una birra dagli equilibri aromatici molto delicati (APA, IPA, Helles, Pilsner per citare solo alcuni stili di riferimento). Ma da dove viene questo ossigeno? Ovviamente dall’aria, il nostro nemico numero uno. Ed ecco quindi che gli homebrewer si ingegnano a togliere più aria possibile dalla bottiglia, con sistemi di pompe per il vuoto e pre-evacuazioni della bottiglia prima del trasferimento in contropressione e della tappatura (sulla schiuma, ovviamente, per svuotare dall’aria il collo della bottiglia). Una lotta senza quartiere che porta alla costruzione di complicati sistemi di imbottigliamento, a volte automatici, altre meno, con involuzioni di tubi e raccordi che non si trovano nemmeno in un laboratorio della NASA. Sulla base di cosa? Ecco, qui il ragionamento scricchiola un po’.
Purtroppo, misurare in casa l’ossigeno disciolto nella birra imbottigliata non è impresa facile, per diverse ragioni. In primis per lo strumento di misura, ovvero il misuratore di ossigeno disciolto, che costa ancora molto e che quasi nessun homebrewer possiede. Ma non è solo questo, perché è la misura in se’ ad essere complicata. L’ossigeno, al momento della tappatura della bottiglia, può infatti trovarsi sia disciolto nella birra che nello spazio di testa. Nel tempo, può spostarsi dallo spazio vuoto alla birra, alterando la misura (che non è comunque facile fare su una bottiglia chiusa, se non con un ago infilato nel tappo o sistemi che usano raggi di luce e fibre ottiche per la misura). Ma non solo: l’ossigeno disciolto nella birra in breve tempo può legarsi ad altri composti (come i polifenoli, le melanoidine, etc…) e non essere più rilevato nella lettura dell’ossimetro, mantenendo però il suo potere ossidante che potrebbe manifestarsi nel tempo. Nel terzo scenario, ancora peggiore, potrebbero essere presenti nella birra composti già ossidati, magari nelle fasi precedenti della produzione – spesso a caldo – che nel tempo possono agire da elementi ossidanti a loro volta, anche in assenza di ossigeno disciolto.
È facile quindi intuire che la lotta senza quartiere all’ossigeno, in assenza di misure quantitative (che in ambito casalingo io ancora non ho mai visto, se le trovate mandatemi il link), lascia il tempo che trova.
Con questo non voglio dire che le pompe per il vuoto e le pre-evacuazioni non servano a nulla, ci mancherebbe; dico solo che la loro efficacia non è affatto dimostrata in ambito casalingo, dove tra l’altro i tempi di conservazione di un prodotto delicato, come una birra luppolata, sono spesso ridotti e avvengono in condizioni che in se’ rallentano molto l’ossidazione (conservazione in frigorifero, senza scuotimento della birra né sbalzi di temperatura). Ecco, quello che voglio dire è che forse varrebbe la pena procedere per gradi quando si abbraccia la tecnica della contropressione. Magari l’ossigeno che si concentra nello spazio di testa è più pericoloso di quello che può solubilizzarsi nella birra quando arriva nella bottiglia (io penso che lo sia, ma non ho dati). Magari una pre-evacuazione con il vuoto non ha un impatto così evidente rispetto a una semplice spruzzata di CO2 e una attenta tappatura sulla schiuma, che riduce notevolmente l’aria nello spazio di testa. Che è un po’ quello che avviene nei birrifici quando si riempiono le lattine, dove il vuoto non è praticabile altrimenti la lattina si accartocerebbe. Insomma, procedere per gradi senza complicarsi la vita, assaggiare e valutare. Senza misurazioni quantitative, i nostri sensi rimangono il sistema di valutazione migliore.
È indispensabile fermentare in pressione?
Una delle fissazioni di molti degli homebrewer che si avvicinano al mondo della contropressione con trasferimento in bottiglia di birra carbonata è la fermentazione in pressione. Che non è un procedimento semplice, soprattutto per chi non ha ancora familiarità con le relazioni che legano pressione, temperatura, carbonazione e con le valvole di spunding. Spesso si attribuisce a questo procedimento un’aurea quasi magica che porterebbe a produrre birra di una qualità migliore. Come se il fatto di fermentare in pressione garantisse di per se’ un prodotto più buono. Secondo me, no. Ma parlo senza dati né esperimenti concreti, quindi in via del tutto teorica. Evitare il contatto con l’ossigeno quando la fermentazione arriva alle fasi finali aiuta a migliorare il prodotto, senza ombra di dubbio, ma questo si può ottenere anche terminando la fermentazione in un contenitore chiuso con semplice blow-off, senza valvola di spunding; per carbonare la birra possiamo insufflare andride carbonica in pressione nel fermentatore a fine fermentazione, processo molto più semplice ed immediato rispetto alla fermentazione in pressione.
Perché allora molti si ostinano a fermentare in pressione? L’unico vantaggio evidente, a mio avviso, è quello di risparmiare anidride carbonica, sfruttando quella – gratuita – generata dalla fermentazione per carbonare la birra, anziché quella della bombola. Se questo porta a notevoli risparmi di CO2 in birrificio, a livello casalingo parliamo di inezie. La qualità dell’anidride carbonica della bombola è inferiore a quella prodotta dalla fermentazione? Bah, credo proprio di no (certo le bombole vanno acquistati da fornitori professionali, non da alcuni rivenditori farlocchi su eBay che a volte allegano anche certificazioni false alle bombole).
Gli altri benefici dello dello spunding possono essere la velocizzazione nel processo di fermentazione (che accelera un pochino), una riduzione nella produzione di esteri fruttati (assolutamente gestibile, in alternativa, regolando la temperatura di fermentazione) e, alcuni dicono, una ritenuta maggiore degli aromi nella birra (ad esempio quello del luppolo, ma è tutto da dimostrare e secondo me è trascurabile). Non mi sembrano sinceramente grandi svolte nel processo produttivo. D’altro canto, con lo spunding si rischia di non volatilizzare completamente alcuni aromi indesiderati che vengono prodotti durante la fermentazione come i composti solforosi.
La carbonazione forzata mi sembra la strada più semplice, gestibile e sicura, specialmente per chi è alle prime armi. Ci vuole magari qualche giorno in più per carbonare, ma tanto qualsiasi birra ha bisogno di almeno tre/quattro giorni per assestarsi dopo aver raggiunto la FG. Il fatto di avere birra già carbonata appena raggiunta la FG, grazie allo spunding, non è risultato particolarmente entusiasmante, a mio avviso.
ammetto che scrivere questo commento dopo aver controllato il tilt e fatto dh in pressione non mi rende proprio super partes :). Tuttavia secondo me uno dei vantaggi enormi della contropressione è anche quella di avere praticamente “una spina” a disposizione gia dal cold crash, che in momenti di pandemia male non è, anzi..
Standing ovation e 15 minuti di applausi
Ciao Frank e complimenti come al solito per l’articolo! Volevo condividere la mia interpretazione di isobarico: io penso che sia riferito alla fase di fermentazione e non di trasferimento. Per il trasferimento occorre sempre una minima differenza di pressione tra il fermentatore cedente e quello ricevente, altrimenti il liquido non si sposterebbe. Anche nel trasferimento per caduta ho una differenza di pressione, che è appunto data dal dislivello. Nella contropresione, similmente, affinché il trasferimento avvenga correttamente, devo fare in modo che la differenza di pressione tra cedente e ricevnte sia minima.
Per quanto riguarda l’isobarico, invece, questa la mia interpretazione : nella fermentazione “classica”, ancbe se minima, la pressione ha un andamento “oscillante” dato dalla colonnina del gorgogliatore che “sale e scende”; nella fermentazione in isobarkico, invece, la pressione sale ma poi si assesta a un valore costante dato dal set della spunding, da cui il termine isobarico.
Non mi torna molto, soprattutto perchè il termine isobarico viene riferito solitamente alla fase di imbottigliamento, non alla fermentazione (che nel caso di cui parli tu viene in genere chiamata “fermentazione in pressione”). Anche io avevo pensato a questa definizione inizialmente, ma confrontandomi con altri (che lavorano nel settore) sono tornato indietro. Inoltre, i due termini contropressione/isobarico vengono spesso usati in contrasto l’uno all’altro, nella tua definizione invece si applicherebbero allo stesso sistema (che sarebbe un sistema isobarico con imbottigliamento in contropressione). Non mi convince (ma ovviamente stiamo parlando di definizioni, si fa per ragionare). Non capisco invece la differenza di pressione che dici dovrebbe esserci in un sistema a caduta.
Beh si, leggendo su internet di questi argomenti, effettivamente si trova tutto e il contrario di tutto…
Per quanto riguarda il trasferimento in caduta, se collego con un tubo i rubinetti dei due fermentatori, da una parte avrò solo la pressione atmosferica, dall’altra avrò la pressione atmosferica + quella idrostatica data dal livello della birra.
Il liquido però si sposta a caduta tra due contenitori che restano alla stessa pressione (la pressione idrostatica deriva cmq dalla forza di gravità). Con “trovato su internet” intendevo i produttori di macchine isobariche, ma credo che in ambiente pro si usi solo il termine iaobarico, che alla fine, come scrivevo prima, indica l’imbottigliamento di birra carbonata senza perdita di pressione.
Se cerchi su internet comunque trovi sia “fermentatore isobarico” che “sistema di imbottigliamento isobarico” come termini usati dai produttori di attrezzatura. Nel primo caso si intende un contenitore in grado di mantenere una data pressione costante, nel secondo una macchina per imbottigliare birra già carbonata senza sgasarla nè produrre schiuma. Le accezioni sono diverse e non univoche.
Articolo interessante come ci hai abituato. Unico appunto: se hai le prove che certe bombole venduto su ebay sono farlocche e con certificati di conformità falsi, perchè non lo denunci? Parlando da homebrewer che sta passando alla contropressione, vorrei essere informato su questo pericolo. Nel dettaglio potresti dirmi in cosa consiste una bombola “farlocca”?.
Primo, non ho nessuna prova. 🙂 Ci sono discussioni su vari gruppi in cui in molti accennano a questo problema. Farlocche nel senso che i certificati – mi dicono – sono falsi, e in alcuni casi sono estintori riempiti di CO2 venduta come alimentare. Io ho sempre acquistato da un fornitore qui di Roma, che serve tutta la zona con bombole certificate.