In questi dieci anni di homebrewing ho cambiato diverse volte opinione su molti aspetti della produzione. Succederà anche in futuro, ormai me ne sono fatto una ragione. C’è da dire però che alcuni cambiamenti non sono dovuti a semplici ripensamenti, ma a un processo evolutivo che trovo tutto sommato naturale. In questi anni di produzioni casalinghe ho passato momenti difficili, come tutti, riuscendo a ricavare tempi ridotti all’osso da dedicare alla produzione casalinga di birra. È abbastanza normale in questi casi focalizzarsi sulle cose più importanti, lasciando da parte tutte quelle tecniche e quegli approcci di dubbia utilità, che portano via tempo e richiedono impegno e focalizzazione.

Certo qualche volta ho calcato la mano dicendo che non servissero a una mazza, ma fa parte anche questo del processo di crescita. Anche oggi, devo dire, non è che la pensi completamente all’opposto. Tuttavia, avendo più tempo, competenza e anche tranquillità, ogni tanto mi chiedo se quel tal metodo così tradizionale e impegnativo magari valga qualche ora in più passata dietro ai pentoloni. La tentazione di provare mi viene, anche solo per curiosità. Non tanto per trarre conclusioni universali – non è pensabile per metodi che apportano modifiche così sottili che dipendono da tante variabili -, più che altro per comprenderne meglio lo svolgimento e valutare con mano quanto siano effettivamente complicati da gestire. Anche per fare qualcosa di diverso, e poter iniziare un racconto con “quel giorno che decisi di fare la decozione…“.

Decozione

Come molti, per anni sono stato (e lo sono ancora, in parte) scettico riguardo ai reali effetti che la decozione possa avere sul profilo organolettico della birra. Il principio alla base di questa antica tecnica di ammostamento è quello di rimuovere una parte della miscela, portarla a bollitura in una seconda pentola e reinserirla nel mash.

Questa pratica è nata in Germania in tempi lontani, per ovviare ad alcuni ostacoli pratici nella produzione di birra:

  • malti poco modificati
  • impossibilità di misurare la temperatura del mosto con precisione
  • indisponibilità di grandi contenitori in metallo a cui poter applicare calore per condurre i vari step di ammostamento
  • scarsa disponibilità di malti speciali.

Come ben spiegato in questo articolo di Moritz Gretzschel tradotto dal tedesco in inglese, grazie alla decozione i birrai tedeschi riuscivano a raggiungere buone efficienze di ammostamento anche utilizzando malti poco modificati. Riuscivano inoltre a gestire le rampe grazie alla temperatura di ebollizione costante, che portava la miscela di ammostamento a una determinata temperatura, dipendente unicamente dal volume del mosto prelevato e portato a bollitura. La decozione scuriva il mosto producendo composti aromatici che impreziosivano il profilo organolettico (così si dice) e scurivano leggermente la birra in tempi in cui i malti speciali, che non erano ancora ben “ingegnerizzati”, non potevano probabilmente essere utilizzati nelle birre molto chiare come le Pilsner. senza snaturarle.

È innegabile che tutti questi passaggi abbiano un effetto sui malti, anche minimo, il punto critico è definire quanto questa variazione, che all’epoca era un effetto collaterale che si doveva accettare per ottimizzare le pratiche produttive, possa effettivamente dare un contributo organolettico alla birra. Tra l’altro, non esiste una sola tipologia di decozione: si possono fare uno, due o tre step, e ogni step può subire passaggi particolari, venire bollito o solo riscaldato, per tempi variabili. Inoltre, il risultato dipende in parte anche dal malto che si utilizza: se più o meno modificato, se più o meno scuro, se solo malto base o anche un mix con altri malti speciali. Insomma, come sempre le variabili in gioco sono molteplici, esprimere un giudizio tout court sarebbe miope, affrettato e ingiusto.

Come dicevo, sono stato e sono ancora in parte scettico relativamente al metodo della decozione. Tuttavia, ultimamente, dopo aver assaggiato una serie di lager prodotte in Repubblica Ceca (acquistate tramite il beershop online Beerdome) qualche dubbio è iniziato a frullarmi nella testa. È tanto che non capito in Repubblica Ceca, l’ultima volta ho visitato Praga una decina di anni fa. All’epoca non ero nemmeno particolarmente attento alle bevute, non ho ricordi ben precisi (a meno del diacetile e del fumo di sigaretta che ancora imperversava nei locali). Queste ultime bevute, arrivate direttmente dalla Repubblica Ceca in meravigliose bottiglie PET, mi hanno però colpito particolarmente. La rotondità di queste birre, il profilo maltato incisivo ma non ingombrante, l’aroma mielato che insieme all’erbaceo del luppolo dà vita a un retrolfatto quasi balsamico sono sfumature che mi hanno davvero conquistato. Mi sono chiesto come facciano questi birrifici – erano tre diversi, ma il tratto comune era evidente – a far uscire questi aromi dal malto. Sarà la decozione? Possibile, anche se non posso esserne certo. Ma senza dubbio è una pratica tipicamente utilizzata anche in Repubblica Ceca. Che può aggiungere corpo, rotondità, sottili sfumature aromatiche. O almeno così sostengono i fautori di questo approccio.

Se andiamo a guardare i risultati di esperimenti fatti sul tema, troviamo di tutto e di più. Dai nulla di fatto, come questo esperimento di Brulosophy, a chi ha trovato differenze sostanziali, come in questo test fatto dagli americani della Briess. In questo esperimento le differenze sembrerebbero evidenti, ma il fatto che le birre siano effettivamente percepite come diverse non necessariamente risulta in una preferenza per quella prodotta con decozione (in questo caso è esattamente il contrario). Quindi, anche qui, c’è da riflettere.

Quanto ci vuole a fare un mash con decozione? Dipende ovviamente da quante se ne fanno: una, due o tre. Con tre decozioni si arriva facilmente alle 6 ore, ma probabilmente non ha molto senso scegliere un approccio del genere partendo dai malti odierni. Mi sembra un po’ eccessivo, e comunque troppo impegnativo in termini di tempo. Con un paio di decozioni, più abbordabili, ce la si può cavare in un paio d’ore, una tempistica più vicina a quella di un mash classico un po’ elaborato.

Che dire, secondo me si può provare. La cosa mi stuzzica, ho già in mente qualcosa. Vedremo se si concretizzerà.

Immagine da https://brulosophy.com/2016/12/08/in-defense-of-decoction-a-german-purists-perspective-on-an-age-old-brewing-method

Turbid Mash

Ecco un altro bel modo per prolungare le tempistiche di ammostamento. Si tratta di un metodo di ammostamento tipicamente utilizzato per la produzione di mosto da passare in botte per lunghe fermentazioni e maturazioni con lieviti selvaggi o batteri.

Se concettualmente può sembrare simile alla decozione, in quanto si preleva mosto che viene scaldato a parte e utilizzato per aumentare la temperatura della miscela e passare per i vari step di temperatura, le finalità sono piuttosto differenti.

Questo metodo è nato infatti da un lato per lavorare meglio con le alte percentuali di grano non maltato tipicamente utilizzate nelle ricette dei Lambic (importanti per garantire un minimo di corpo nella birra e nutrimento per batteri e lieviti nel lungo periodo), dall’altro è volto a ridurre sensibilmente l’attività degli enzimi amiolitici che convertono gli amidi in zuccheri durante l’ammostamento, proprio per produrre un mosto ricco di amidi (torbido, quasi color latte) che garantirà nutrimento adeguato per batteri e lieviti nel lungo periodo.

Anche questo processo è molto legato alla tradizione, molti produttori di Lambic lo seguono ancora ma non è detto che sia l’unico possibile. Alla base ci sono dei principi solidi, ai quali è direttamente collegata la buona riuscita di una lunga fermentazione con batteri e lieviti selvaggi. Tuttavia, non è necessariamente l’unico approccio perseguibile, specialmente se si seguono pratiche fermentative più “veloci”, come ad esempio inoculi successivi e mirati di ceppi singoli di lieviti e batteri, oppure se non si ha tempo, spazio o volontà di portare avanti lunghe maturazioni. Altri approcci alternativi, un po’ “blasfemi” se vogliamo, possono prevedere un mash “normale” con aggiunta di farine di qualche tipo in bollitura, per esempio. O aggiunta di maltodestrine direttamente nel fermentatore. Non lo dite ai tradizionalisti, però.

Mosto da turbid mash (foto da @ParleauxBeerLab on Twitter)

Tuttavia, in questo caso più che nella pratica della decozione, a mio avviso, il Turbid Mash può avere un suo impatto e in certi casi lo trovo teoricamente quasi indispensabile. Anche perché le pratiche fermentative classiche sono rimaste tradizionali, ha senso che rimanga tradizionale il mash perché tutto funzioni.

Esistono diversi modi per praticare un turbid mash, quello più semplice è passare per 4 step di temperatura (45°C, 58°C, 65°C e 72°C) aggiungendo semplicemente una porzione adeguata di acqua bollente (90°C) ai grani per arrivare alla temperatura desiderata per ogni step. Questa doccia di acqua bollente riduce l’attività degli enzimi nel mash rallentando la conversione degli amidi in zuccheri. Un altro metodo facilmente applicabile in casa (link) prevede di togliere una parte di mosto dalla miscela (senza grani), portarlo a 82°C per fermare gli enzimi e lasciare amidi residui per poi riunirlo alla miscela alla fine dell’ammostamento, con tutti gli amidi residui.

Gli approcci pratici sono molteplici, tutti volti a favorire la una migliore solubilizzazione degli amidi e delle proteine del frumento non maltato (applicando calore) e a lasciare amidi residui (sempre tramite applicazione di calore, denaturando parte degli enzimi).

Se producessi birre da passare in botte per lunghe maturazioni, devo dire che un Turbid Mash lo proverei. Per ora ho fatto solo acide con inoculi selettivi e fermentazioni in damigiane relativamente brevi, per le quali non ho fatto altro che condurre un mash più breve a 72°C. I risultati non sono stati male, ma certo non hanno mostrato la complessità di un Lambic maturato in botte. E ci mancherebbe pure.

Bollitura prolungata

Chiudiamo con una pratica spesso poco considerata, che però affonda anch’essa le proprie radici in metodologie tradizionali di produzione: la lunga bollitura. Anzitutto proviamo a capire cosa si intende per lunga bollitura.

Sappiamo più o meno tutti che la bollitura standard del mosto è di un’ora, massimo un’ora e mezza. Serve per le solite cose: isomerizzazione degli alfa acidi (che dopo 90 minuti non isomerizzano praticamente più), stimolare la coagulazione di proteine e polifenoli, sterilizzare il mosto e far evaporare il DMS. Per tutte queste cose, 90 minuti sono più che sufficienti, spesso ne bastano 60. A volte anche 30. Perché allora far bollire di più?

Storicamente, si facevano spesso bolliture lunghe perché i moti della bollitura erano talmente flebili da richiedere più tempo per realizzare tutte quelle cose che ho elencato sopra. Tuttavia, con il miglioramento delle tecnologie, le durate si sono progressivamente ridotte, specialmente nei grandi birrifici, perché bollire ha un costo non irrilevante.

Oggi si lasciano bollire più a lungo le birre in cui si ricerca complessità aromatica, come i Barley Wine o le Imperial Stout. Ma la finalità delle lunghe bolliture di queste birre (comunque in genere non più lunghe delle 3 ore) è anche quella di poter utilizzare più acqua per lo sparge, visto che molta se ne utilizza nel mash per la quantità notevole di cereali che servono per arrivare ad alte gradazioni alcoliche. La lunga bollitura senza dubbio stimola le reazioni di Maillard, ma anche qui si potrebbe discutere su quanto queste influiscano effettivamente sul profilo organolettico e di quanto non siano alla fine rimpiazzabili dall’utilizzo di specifici malti speciali. Qui tocca fidarsi, o provare per credere. O anche provare per suggestionarsi.

Diversi produttori di Lambic lasciano bollire il mosto a lungo, in questo caso per aiutare la coagulazione delle tante proteine introdotte dal grano non maltato, ma anche per favorire la solubilizzazione dei polifenoli dei luppoli, spesso suranné (vecchi): i polifenoli agiscono da antisettici, modulando l’azione di lieviti e batteri che arrivano nel mosto con l’inoculo spontaneo. Bollire a lungo aiuta anche in questo caso ad avere più acqua per lo sparge, visto che nella produzione del mosto di Lambic si fanno molte cose che solitamente non si fanno, come l’oversparging per estrarre tannini. Alcuni sotengono anche che le lunghe bolliture in questo caso derivino dall’utilizzo di macchinari vecchi, tradizionali, con tasso di evaporazione bassissimo. È anche vero che quando i processi sono così lunghi e complessi, come quelli che si intersecano nella produzione dei Lambic, è pericoloso cambiare anche solo una piccola parte del processo. Se dopo tre anni scopri che hai fatto una cazzata, magari non la prendi benissimo. Ma questa è una mia teoria.

Io qualche bollitura di due ore l’ho fatta, sia per recuperare acqua per lo sparge, sia per provare a sviluppare qualche aroma in più. Non è particolarmente impegnativo, basta mettere il cronometro e va da sola, nel frattempo si può stappare una birra. Diverso da quanto accade per decozione e Turbid Mash, che richiedono attenzioni particolari per tutto il tempo. Il risultato della bollitura prolungata mi è piaciuto, ma attribuirlo d’emblée a quei 60 minuti in più di ebollizione mi sembrerebbe un filo azzardato. Ma val la pena provare.

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