Domenica sono stato a Firenze nella veste di admin del Tasting Exam BJCP. Come già spiegato in diversi post (tra cui questo), si tratta di un esame in cui 12 partecipanti devono assaggiare 6 birre alla cieca in un’ora e mezza. Per ogni birra è richiesta la compilazione del BJCP Scoresheet. Quello dell’esame ha solo i nomi dei descrittori nella lista sulla sinistra, senza la spiegazione sintetica di ciascuno.

Le 6 birre vengono contemporaneamente assaggiate da 2 o 3 proctor (giudici esperti), sempre alla cieca. Anche i proctor compilano le schede di degustazione.

I partecipanti vengono valutati in base a criteri piuttosto complessi che prendono in considerazione le valutazioni dei proctor, quelle degli altri partecipanti e le note di chi ha selezionato le birre da assaggiare (in questo caso, il sottoscritto).

Il voto assegnato alla birra è in cinquantesimi e può spaziare virtualmente tra 0 e 50, anche se è convenzione non assegnare a una birra un voto inferiore a 13/50. Raramente si arriva oltre i 45/50 (quasi mai).

In sede di esame, i partecipanti tendono a muoversi in un range di valutazione ancora più ristretto, onde evitare di scostarsi troppo dai voti dell’aula e da quelli dei proctor. In un contesto di esame, la maggior parte dei voti ricade tra 20 e 40.

L’aspetto più interessante per chi gestisce l’esame, a mio avviso, è poter leggere diverse valutazioni dettagliate della stessa birra. Ci si rende conto di quanto la percezione sia una caratteristica molto personale, drasticamente influenzata dai propri bias, dalle esperienze, dalle emozioni del momento. Per quanto ci si sforzi di rendere il processo di degustazione oggettivo, dobbiamo ricordarci – sempre – che siamo persone. Ciascuna con la propria storia e con il proprio – personalissimo – set di recettori sensoriali.

Una IPA “camaleontica”

Come organizzatore dell’esame, non posso lasciarmi sfuggire l’occasione per fare qualche riflessione sulle dinamiche percettive, tema che mi affascina molto. Nello specifico, vorrei parlare di una delle birre che ho portato in assaggio. Si tratta di una IPA che ho prodotto in casa, sulla quale da subito ho avuto io stesso pareri contrastanti.

Durante il travaso in fusto mi era sembrata a posto. Non eccezionale, un filo astringente, ma avevo assaggiato dal fondo del fermentatore dove si era depositato molto luppolo. La birra avrebbe passato un altro paio di settimane al freddo, le aspettative erano buone. Nella scheda tecnica che si allega ai materiali di esame da inviare per la correzione, indicai un range di punteggio tra 30/50 e 35/50.

Dopo un paio di settimane, al primo assaggio dal fusto, la avevo gradita molto meno. L’aroma, seppure di buona intensità, era intenso sul versante “green” (vegetale, clorofilla) piuttosto che sul fruttato. Avvertivo un leggero pizzicore al palato. Avevo forse aspettative troppo alte. In quel momento, un 30/50 mi sembrava un voto alto.

Infine, dopo diverse pinte spillate dal fusto, il mio parere è nuovamente tornato positivo.

Di che birra si tratta?  

Negli ultimi tempi sto cercando di perfezionare il mio processo produttivo per quanto riguarda le birre luppolate. Ho prodotto diverse IPA e APA proprio per affinare il dosaggio del luppolo e le tecniche di dry hopping. Presto usciranno altri post questo tema, quindi non mi dilungherò più di tanto. Se volete saperne di più su come gestisco il dry hopping, trovate informazioni dettagliate qui.

Questa IPA ha una ricetta molto semplice. Il grist è composto al 50% da Chateau Pils e al 50% da Muntons Extra Pale. Sapevo che sarebbe venuta molto chiara – troppo per lo stile – ma volevo provare questa combinazione di malti.

Luppolatura affidata a Galaxy e Mosaic. Ho usato circa 12 g/L tra aggiunte in late boil, hop-stand e dry hopping post-fermentazione. Al momento del dry hopping, ho aggiunto 15 mg/L di metabisolfito per ridurre al minimo l’ossidazione.

Il Galaxy è un luppolo australiano, viene descritto con aromi citrici, di pesca e passion fruit. Il Mosaic è un luppolo molto complesso, descritto principalmente con aromi di arancia, pesca, passion fruit e blueberry. Attenzione al descrittore blueberry che si rivelerà molto importante nelle riflessioni che seguiranno.

Il lievito è la versione secca del WLP001 (California Ale) della White Labs. La birra ha fatto un lungo cold crash di circa 20 giorni.

Tenore alcolico finale 6% ABV, BU/OG 1.0, carbonazione (forzata) intorno ai 2.0 volumi.

Ho usato l’acqua di rete di Roma filtrata a carboni attivi, gestendo le circa 400 ppm di bicarbonati con una buona quantità di acido lattico per portare il pH di mash e bollitura a valori ottimali. Solfati 75 ppm, cloruri 25 ppm.

L’imbottigliamento è avvenuto una settimana prima dell’esame, in contropressione direttamente dalla spina, con il riempitore della kegland. Bottiglie tappate sulla schiuma e tenute sempre in frigorifero.

La American IPA Mosaic & Galaxy che ho portato in assaggio all’esame

Come è stata valutata dai proctor

Partiamo dalle schede che hanno compilato i giudici esperti. Premetto che erano tutti e tre di origine americana, sebbene uno viva in Italia e gli altri due in Francia.

A due proctor è piaciuta molto. I loro voti sono stati 42/50 e 40/50. I commenti sono stati “excellent showcase for the style” e “very nice example of IPA”. Entrambi la hanno trovata leggermente troppo carbonata (ricordiamocelo, perché l’impressione dell’aula è stata esattamente all’opposto).

I descrittori principali sono stati citrico, tropicale e resinoso. Il giudice che ha dato 42/50 ha rilevato un aroma catty, ma evidentemente lo ha gradito (non ha segnato alcun difetto). Questo sarà uno degli elementi divisi di questa birra, ne parleremo più avanti. Il famoso catty o piscio di gatto è chiamato anche fiore di bosso ed è associato spesso all’aroma delle bacche black currant ovvero al ribes nero. Un aroma dovuto ai composti dello zolfo. Frequente, come abbiamo visto prima, nel luppolo Mosaic.

Sempre rimanendo nel regno dei composti dello zolfo, uno di questi due proctor ha segnato anche DMS come piccolo difetto, non particolarmente fastidioso visto che ha dato alla birra 40/50.

Arriviamo alla prima sorpresa. Il terzo proctor ha dato a questa birra 33/50. Un voto comunque buono, ma molto più basso rispetto agli altri due. Non ha trovato difetti, motivando la sua valutazione sul fatto che la birra fosse troppo chiara e non sufficientemente amara per una American IPA.

Nei commenti scrive che è una birra ben fatta, ha una buona intensità luppolata con aromi citrici e di uva bianca (qui tornano i composti dello zolfo: l’uva bianca viene da lì) ma gli ricorda più una session IPA.

Insomma: questa IPA è decisamente piaciuta ai proctor. Qualcosa da migliorare c’è, ma in generale non hanno rilevato né astringenza, né calore alcolico, né aromi vegetali/pellet. Sembrerebbe proprio che io non ci abbia capito una mazza. Possibile. Ma andiamo avanti e vediamo come è andata con le schede degli esaminandi.

Come l’hanno valutata i partecipanti all’esame  

Qui il discorso si fa più complicato perché le schede sono molte. Premetto che ne troverete 10 e non 12 per due motivazioni: un partecipante ha disdetto all’ultimo minuto e un altro, ahimè, ha compilato interamente la scheda ma si è dimenticato di assegnare la valutazione numerica proprio alla IPA. Ho quindi utilizzato le valutazioni delle restanti 10 schede.

Il voto medio dell’aula è stato 34/50. La maggior parte dei voti spaziano tra il 35 e il 39, valutazioni piuttosto positive considerando che sono state elaborate in sede d’esame.

In particolare, ci sono stati due partecipanti a cui la birra è piaciuta poco (32/50 e 33/50). Un altro l’ha totalmente bocciata, assegnandole un 19/50. Dalla scheda si evince che la nota solforosa è stata la causa principale di questa bassa valutazione, oltre a una componente di ossidazione che però nessun altro ha notato.

Voti assegnati alla IPA dai partecipanti all’esame (in 50esimi)

Veniamo alle caratteristiche che possiamo considerare difetti, anche se in quasi la totalità delle schede sono stati considerati di lieve entità e non particolarmente impattanti.

Di questi, nell’ambito della logica dell’esame BJCP, vengono considerati “affidabili” quelli rilevati dai proctor o da almeno metà della classe. Toglierei quindi dal banco degli imputati acetaldeide, calore alcolico, ossidazione, cheesy (formaggioso), poco carbonata (a mio parere era carbonata giusta, per i proctor addirittura troppo).

Al primo posto l’astringenza, evidenziata in 6 schede su 10. L’ho sentita anche io, ma incredibilmente non è stata rilevata da nessuno dei 3 proctor. Come già detto, a mio parere (e anche stando alle schede) non era particolarmente evidente. La percezione dell’astringenza varia moltissimo da persona a persona. Specialmente quando è molto bassa, può passare totalmente in secondo piano in una birra molto luppolata.

Al secondo posto troviamo una caratteristica che non è un vero e proprio difetto: il livello di amaro, da alcuni (tra cui uno dei tre proctor) considerato un filo basso. Anche qui, nulla di grave, ma è un aspetto evidenziato da 5 partecipanti su 10 e da uno dei proctor. Ci può stare. Non è facile beccare l’amaro nelle birre molto luppolate, anche perché in questi casi il dry hopping tende addirittura a ridurlo (ne avevo scritto qui).

Sul fatto che fosse troppo chiara non spendo tempo perché è un tratto evidente. Magari a qualcuno è sfuggito per la fretta nel compilare la scheda, ma si vede chiaramente dalla foto che è troppo chiara per lo stile. Questo ha avuto, a mio avviso, anche un impatto sul profilo organolettico: i luppoli non riescono a trovare sufficiente bilanciamento nella controparte maltata durante il sorso, rendendo la bevuta meno bilanciata.

Al terzo posto, a pari merito, troviamo grassy e sulfur. Considerando che anche il catty deriva da aromi solforosi, questo aspetto potrebbe diventare dirimente per la valutazione di questa birra. Ed in effetti lo è stato. Vale però la pena spendere due parole su entrambi.

Cosa si intende con grassy?  

L’aggettivo grassy, che si potrebbe tradurre con erbaceo (da grass = prato), viene spesso frainteso. Tende ad essere associato all’erbaceo o al resinoso. Da qualcuno al vegetale. Vediamo di approfondire meglio.

Il vegetal che indica il BJCP tra le possibili caratteristiche/difetti della birra (link) non è associato ad aromi vegetali da luppolo, ma ad alcuni composti dello zolfo. In particolare il DMS (che però viene esplicitato a parte) oppure aromi di verdura bollita o addirittura aglio, sedano e cipolla. Questo è il vegetal solforoso che non c’era in questa birra e che nessuno mi pare abbia evidenziato con questa accezione. Non è il vegetale che ho sentito io, per intenderci, identificato come aroma erbaceo spinto tipo clorofilla o pellet di luppolo.

Se andiamo a leggere la descrizione che il BJCP ci fornisce per l’attributo grassy (link), troviamo come descrittore l’erba tagliata, affiancata anche dalla foglia verde. Ecco, in questo caso secondo me ci siamo: potrebbe essere questo il vegetale che ho avvertito anche io, più vicino al verde della clorofilla e all’aroma dei pellet. Il BJCP cita addirittura il Mosaic come uno dei possibili luppoli che più frequentemente sono all’origine di questi aromi. Secondo il BJCP, sono tollerati nelle IPA molto luppolate. Direi che ci siamo.

Attenzione, però. Questo grassy non è l’aroma erbaceo dei luppoli nobili tedeschi, più vicino al prato in fiore che alla clorofilla. O meglio, probabilmente può esserlo ma assume il descrittore grassy quando presente in concentrazioni massicce. Il BJCP evidenzia la sua presenza – possibile e tollerata – nelle birre molto luppolate, specialmente con dry hopping. Questo è un tema dibattuto, ma io tenderei a interpretarlo così: nella lager, se l’erbaceo diventa grassy è un difetto; nelle IPA, in genere no.

Nel descrittore grassy, il BJCP infila anche un’altra tipologia di aromi, totalmente diversi, prodotti dalle aldeidi tra cui l’esanale, che derivano dall’ossidazione degli acidi grassi (è una coincidenza che suoni come grassy, che invece viene da prato). Alcune volte, questi aromi vengono associati all’aroma pungente del cetriolo o al soapy ovvero il “saponoso”. Sinceramente non mi è mai capitato di riscontrare aromi del genere in una birra. Sicuramente non è il caso di questa IPA.

In conclusione: il vegetale/pellet che io ho percepito è probabilmente riclassificabile come grassy. Lo hanno percepito 2/3 dei proctor e 3/10 dei partecipanti. Alcuni lo hanno spuntato come vegetal, ma poi hanno specificato che si riferivano all’aroma di pellet. In genere è tollerato nelle IPA. A me non fa impazzire, ma ci può stare. Qui sotto un piccolo riassunto schematico della questione.

Cosa si intende con sulfur?

Ai composti dello zolfo abbiamo dedicato un’intera puntata di MashOut Podcast! (la #80), quindi non mi soffermo più di tanto sul tema. L’elemento curioso è che lo zolfo può dare vita ad aromi completamente diversi: dal cerino acceso, alla fogna, agli aromi tropicali, alla verdura bollita (tra cui il DMS), alla cipolla o all’aglio fino al famoso piscio di gatto (cat piss, che poi rientra sempre nel range del tropicale).

Lo zolfo può provenire dai luppoli, dalla fermentazione, dal malto, dal metabisolfito aggiunto. Già vi sento: ah, ecco il colpevole allora! Il metabisolfito che hai aggiunto per ridurre l’ossidazione! Boni, non traiamo conclusioni affrettate. Procediamo per gradi.

Tenderei ad escludere dall’analisi tutti quegli aromi legati alla verdura (DMS, cipolla, aglio) che non sono emersi con decisione dalle valutazioni. Ha fatto capolino giusto uno sporadico DMS in un paio di schede, comunque non penalizzante e che ci interessa poco.

Partirei invece dal catty, il vero elemento diviso di questa birra. Indicato espressamente nella scheda di uno dei proctor e in due schede dei partecipanti all’esame, ha portato a valutazioni opposte: quella del proctor da 42/50, quella di uno dei partecipanti da 19/50. Rispettivamente la più alta e la più bassa dell’esame.

Generalmente gli americani sono più abituati a questa sfumatura solforosa che può emergere da diversi luppoli americani, australiani o neozelandesi, tipici di molte IPA stra-luppolate prodotte negli USA. Agli europei in genere piace meno, essenzialmente perché nei luppoli europei questo tipo di aroma non si trova praticamente mai. Può quindi essere molto divisivo, cosa che è di fatto avvenuta in questo caso.

Il cat piss viene da un particolare composto dello zolfo, il 4MMP, che in dosi minori ha un aroma di black currant, ovvero ribes nero. Per alcuni frutta rossa, a volte anche leggermente tropicale. Il confine tra una caratterizzazione fruttata e piacevole e il piscio di gatto è labile e si nasconde nelle sfere sensoriali di ciascuno di noi, che sono diverse per definizione.

Altri partecipanti hanno segnato note sulfuree in questa birra, per un totale di 5+1 proctor se uniamo sulfureo e catty. Note aromatiche che mi sento di confermare. Non ci avevo fatto caso perché a me le note solforose, se leggere, in generale non danno fastidio. Ne sono consapevole e cerco di tenerne conto. Ma a qualcuno possono dare molto fastidio, come a me dà molto fastidio il diacetile. Nell’esame, solo in un caso questa nota solforosa ha portato a una forte penalizzazione della birra. Evidentemente, la persona che l’ha assaggiata non tollera questo tipo di aromi. Quindi? Dove starebbe l’oggettività del giudizio?

I limiti soggettivi diventano oggettivi 

Se c’è una cosa oggettiva, è che tutti abbiamo limiti soggettivi. Sono diversi, ognuno ha i suoi: è bene conoscerli e imparare a gestirli. Io, per esempio, mi sono reso conto che non riesco a percepire livelli di DMS molto bassi. Quindi, se qualcuno mi fa notare un basso livello di DMS in una birra, tendo a credergli.

Forse in questa birra c’era, ma non è stato l’elemento dirimente. Inoltre, il fatto che fosse molto chiara mi fa pensare a un condizionamento “visivo” (birra chiara = malti chiari = DMS). Il fatto che io non lo abbia percepito purtroppo non può essere preso come elemento probatorio.

Tornando a questa IPA, probabilmente lo zolfo e la componente grassy sono state le caratteristiche che ne hanno influenzato la valutazione. Il cat piss e l’erba tagliata (grassy, erbaceo o anche foglia verde) in questa birra sono effettivamente al limite del difetto. Sono difetti tollerabili nello stile: per alcuni sono caratteristiche addirittura gradite, altri le “schifano”. Io stesso sono stato in bilico diverse volte valutando la mia birra, più che altro per la significativa componente grassy. Lo zolfo e il cat piss non li avevo nemmeno avvertiti, perché in fondo mi piacciono.

Anche la percezione dell’astringenza è un fattore molto soggettivo. Per i 3 proctor non c’era, o se c’era la hanno trovata normale in una IPA. Più della metà dei partecipanti la hanno invece rilevata, seppur sempre a livelli bassi e tollerabili. Io inizialmente l’ho percepita di più, poi meno. Probabilmente, man mano che bevevo questa birra, ne è diventata una caratteristica integrata all’interno degli altri aspetti sensoriali.

E il metabisolfito? Se fosse lui il responsabile di tutto ciò? Non posso ovviamente escluderlo al 100%, ma diversi indizi mi fanno pensare che non sia così. Anzitutto il dosaggio, che è molto basso. Parliamo di 15 mg/L. La concentrazione finale di anidride solforosa (che produce l’aroma di cerino) dovrebbe essere sotto le 10 ppm. Nel vino si va ben oltre. Ho prodotto birre usando concentrazioni di metabisolfito 4 volte superiori, senza evidenti aromi di zolfo. La presenza del cat piss mi fa pensare più al luppolo come responsabile. Vedremo nelle prossime produzioni, ci farò più attenzione.

Devo dire che gestire questi esami è davvero un’esperienza fantastica che ti apre la mente. Alcuni potrebbero sentirsi scoraggiati perché sembra quasi che le valutazioni diventino completamente variabili e soggettive, ma ragionandoci sopra si evidenzia semplicemente ciò che abbiamo sempre saputo e che sempre dovremmo tenere a mente: siamo persone, non siamo macchine. Quello a cui dobbiamo puntare è allenare i nostri sensi e la nostra testa, ma non aver mai paura di esprimere quello che sentiamo.

E, soprattutto, accettare che l’oggettività assoluta non esiste quando si parla di percezione sensoriale. Per questa ragione i panel di analisi sensoriale vengono costruiti con un determinato numero di persone e i risultati analizzati con metodi statistici.

È proprio la conoscenza, l’accettazione e la gestione dei propri limiti che fa la differenza tra un degustatore attento, affidabile e scrupoloso e uno che “so tutto io e voi non avete capito un cazzo“. Tutti i miei sforzi quotidiani sono volti a non diventare questa seconda persona.

1 COMMENT

  1. “Lo zolfo e il piscio di gatto (che poi rientra sempre nel range del tropicale) in fondo mi piacciono” cit. Frank, 2023

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