Una ricetta per una birra Weisse in questo blog sembra quasi un’apparizione. Un evento unico – è la prima che pubblico – che potrebbe diventare irripetibile.

In realtà, non si tratta nemmeno della prima Weisse che produco in casa. Ne feci una tanti anni fa – credo fosse il 2013 – insieme ad un amico, appassionato dello stile. Non venne male, ma nemmeno bene. La ricordo troppo dolce, con un retrogusto che al tempo definii “di lievito”, ma che oggi chiamerei di panificato a bassissima cottura. L’espressività del lievito era bassa. Un birra bevibile, ma poco interessante.

Poi, è arrivata l’edizione 2025 di Pastorianus, concorso organizzato dal mio amico Daniele Cogliati. Mi ha chiamato come giudice, sono stato costretto a studiare.

Per prima cosa, mi sono dedicato a una serie di assaggi, alcuni dei quali sono confluiti in un lungo post (link) con foto e note di degustazione. È stato molto educativo. In qualche modo, questo percorso mi ha fatto rivalutare le Weisse. Non sono diventate le mie birre preferite, ma ho imparato ad apprezzarne le molte sfumature.

Quale migliore occasione per cimentarmi di nuovo con lo stile? Ho scelto però di alzare un po’ il grado alcolico e di lanciarmi in una Weizenbock chiara. Vediamo come è andata.

LO STILE

Come intuibile dal nome, si tratta di una Weissbier con il grado alcolico di una Bock tedesca. Più alcol, maggiore intensità. Ma anche più difficile da produrre, con evidenti difficoltà legate alla OG più elevata che può essere insidiosa in termini di fermentazione e calore alcolico.

Come in tutte le Weisse, le note principali sono quelle di chiodo di garofano e di banana/pera. Il bilanciamento tra queste due componenti aromatiche è estremamente variabile, dipende dall’interpretazione. Personalmente, preferisco le versioni dove la parte fruttata non sia troppo invadente e, soprattutto, non ricordi la frutta eccessivamente matura.

Come per le Bock e le Doppelbock, ne esistono due versioni: chiara e scura. Quella chiara è meno comune, forse anche per questo mi attirava di più. Durante il periodo dei miei assaggi non ne ho trovate da acquistare, perché non era ancora periodo. Mi sono rifatto al laboratorio di Pastorianus, dove ho assaggiato la Weizenbock di Gutmann, che mi è piaciuta molto.

Sono birre che si bevono in inverno e che non si conservano benissimo. Tendono a perdere piuttosto velocemente il bilanciamento aromatico, con la banana (l’estere acetato di isoamile) che si idrolizza, perdendo di intensità. Tendono a ossidarsi velocemente, tirando fuori aromi dolciastri eccessivi (miele, leggero toffee) che rendono la birra stucchevole. L’amaro infatti è basso, come in tutte le Weissbier.

Ricordo di aver bevuto la Vitus di Weihenstephan, diversi anni fa. Un esempio di Weizenbock chiara che all’epoca non mi entusiasmò. Delle versioni scure mi è capitato diverse volte di bere la Aventinus di Schneider Weisse, che non sempre ho trovato in forma.

Una nota aromatica che mi piace molto trovare nelle Weisse è la vaniglia/crema. Probabilmente viene dalla fermentazione, come in alcune Tripel. Dona una maggiore complessità, integrando banana e chiodo di garofano come in un dolce da pasticceria.

LA RICETTA

Ricetta abbastanza classica, con grist incentrato su malto Pils e malto di frumento. Mi sono divertito a usare il Crystal Wheat che mi aveva regalato tempo fa un amico, giudice BJCP e homebrewer americano che ha vissuto a Roma diversi anni prima di tornare in US, qualche mese fa.

Per questa birra ho acquistato l’ultima bustina di lievito liquido WY3068 che ha venduto Mr. Malt, prima di far fuori la Wyeast dal proprio catalogo. Purtroppo questo produttore non viene più commercializzato in Italia, per trovarlo bisogna acquistare dall’estero (ad esempio da Brouwland).

L’aspetto più difficile è stato decidere quanto luppolo buttare nel pentolone. Ho preso come riferimento una mia Doppelbock (questa) e mantenuto lo stesso rapporto BU/OG. Un lieve tocco di luppolo in aroma, giusto per dare un filo di complessità in più. Secondo il BJCP, le Weizenbock chiare (come le Bock chiare) possono essere leggermente più luppolate in aroma rispetto alle scure.

Raramente faccio mash multistep, ma in questo caso mi sono concesso un’eccezione. La pausa dell’acido ferulico serve per solubilizzare una maggiore quantità di acido ferulico dai malti (c’è sia nel frumento che nell’orzo). L’acido ferulico viene convertito in 4-vynil-guaiacolo dal lievito durante la fermentazione (l’aroma di chiodo di garofano). L’idea era quella di avere più fenoli che esteri.

Per evitare derive stucchevoli, ho cercato di ottenere un mosto molto fermentabile. Lunga pausa a 65°C e successivo veloce passaggio a 72°C, per essere sicuro di aver convertito tutto.

Il frumento, anche se maltato, è sempre una rogna da gestire. Ho ovviamente aggiunto lolla di riso (circa il 3% del peso totale). Per paura di sfarinare, però, non ho macinato il frumento abbastanza finemente. Ne ha risentito l’efficienza, che è stata più bassa del previsto. Ho aggiunto un paio di etti di estratto secco in bollitura per riportare in carreggiata il mosto.

Acqua molto leggera, mix a metà tra l’acqua di Roma (dura) filtrata a carbone attivo e acqua filtrata a osmosi.

LE FERMENTAZIONE

La busta di lievito era davvero vecchia. Dai calcoli di Brewer’s Friend, dei 100 miliardi di cellule ne rimanevano in vita circa 6 miliardi. Ho deciso quindi di fare un doppio starter. Il primo da 200cl. Senza agitatore magnetico perché volevo verificare che il lievito fosse vivo (con l’agitazione, a volte, non si forma la schiumetta).

Una volta appurato che la piccola fermentazione dei 200cl di mosto era andata a buon fine, ho fatto un secondo starter, da 1.5 litri, stavolta con agitatore magnetico. Il calcolatore mi faceva approdare a 200 miliardi di cellule, in netto overpitching rispetto ai 140 miliardi di cellule che mi sarebbero servite per la fermentazione.

Considerando che il principale effetto dell’overpitching è una minore produzione di esteri, me la sono sentita di rischiare. Alla fine, era quello che volevo.

Sempre per la paura di una eccessiva produzione di esteri, sono stato conservativo sulla temperatura di fermentazione. Partenza bassa, per alzare subito di un paio di gradi e poi gradualmente fino a 22°C.

Velocissimo cold-crash e imbottigliamento con rifermentazione parziale (ne ho parlato qui). L’obiettivo era arrivare a una carbonazione sostenuta, fondamentale per lo stile. Ho puntato a 3.2 volumi, sapendo che i calcoli mi portano sempre a una carbonazione leggermente più bassa del previsto. Il manometro non è molto preciso quando la birra ha una carbonazione parziale e molto bassa, nel fusto: la lancetta fatica a muoversi sulla parte bassa della scala, specialmente con i manometri economici che utilizzo.

Ho aggiunto la soluzione di acqua e destrosio in ogni bottiglia, tappato sulla schiuma (senza aggiungere lievito da rifermentazione) e lasciato rifermentare per 15 giorni a 24°C nella mia piccola camera da rifermentazione, riscaldata con cavo da terrario.

 

ASSAGGIO

Questa birra mi convinceva già al momento dell’imbottigliamento, quando era solo parzialmente carbonata e ancora molto giovane. Ricordo di averne bevuto con gusto un intero boccale mentre imbottigliavo. Anche i successivi assaggi si sono rivelati interessanti e piacevoli.

Quello che descrivo oggi è l’assaggio da una bottiglia che ha passato un mesetto a temperatura ambiente (a circa 20-22°C) e una ventina di giorni in frigo. Bottiglia tutto sommato giovane, con circa due mesi sulle spalle.

 ASPETTO  Ampio cappello di schiuma avorio, pannosa e persistente. La birra è di colore dorato carico, al limite dell’ambrato (nella foto sembra più scura). Leggermente velata, una volta versato anche il fondo acquista la torbidità tipica dello stile.

 AROMA  La parte speziata e fenolica spicca in primo piano con una intensità medio-alta. Le note principali sono quelle del chiodo di garofano, con una sferzata quasi balsamica – ma non medicinale – in sottofondo. Il fruttato è decisamente più basso rispetto allo speziato, con sfumature leggere di banana e pera non troppo mature. Una sferzata agrumata (polpa di limone) arricchisce il tutto, donando una piacevole freschezza. Quando si scalda emerge una delicata nota vanigliata, appena percepibile. Il maltato è di intensità medio-bassa con le classiche note di mollica di pane, cereale e panificato a bassissima cottura. Non mi pare di sentire il luppolo, ma potrebbe esserci un leggerissimo tappeto erbaceo in sottofondo.

 AL PALATO  Ingresso maltato con note di pane, mollica, cereale. Il chiodo di garofano ha una intensità medio-alta con venature quasi di cumino. La frutta si avverte leggermente di più rispetto al naso, le note sono dolciastre con banana e un filo di pera. L’amaro è basso, ma insieme al lieve flavour alcolico riesce a tenere in piedi il bilanciamento, senza sconfinare nello stucchevole. Il retrogusto è speziato con un tocco di pepe, lievemente fruttato (banana/pera). Torna la nota di vaniglia sul finale, dando l’impressione di un una torta speziata appena uscita dal forno.

 MOUTHFEEL  Rotonda e morbida. Corpo medio, bolla vivace che stuzzica il palato. Alcol ben nascosto, riscalda leggermente solo alla fine del sorso. Nessuna astringenza. Cremosità medio-alta, come da stile.

CONSIDERAZIONI GENERALI

Come dico sempre: la velocità con cui spariscono le bottiglie dal frigo (o le pinte dal fusto) è il vero segnale che una birra sia riuscita. Queste sono sparite abbastanza velocemente. Al di là delle considerazioni che si possono fare sull’aderenza allo stile, questa birra è buona. Il vero miracolo è che lo è nonostante sia una Weisse (scherzo!).

Ne avevo fatti solo 8 litri, pensando: ma poi chi se la beve. E invece, sono rimasto con l’ultima bottiglia nel frigo. L’ho portata anche a Pastorianus, dove l’abbiamo assaggiata tutti insieme dopo il concorso. I pareri sono stati positivi.

A me piace molto. La nota speziata è davvero piacevole e fresca, ma soprattutto è riuscito bene il bilanciamento complessivo al palato: dolce, ma non stucchevole. Se dovessi rifarla (non lo escludo), alzerei di un paio di gradi la temperatura di fermentazione: un po’ più di esteri ci sarebbero stati bene, a mio avviso.

Per il resto: buona. Mi ha davvero stupito.

Nota di colore: il nome Fuckwheat fa riferimento alla parola inglese fuckwit (wheat, al contrario di quello che molti pensano, si pronuncia uit e non uet). Fuckwit significa qualcosa come scemo, idiota, coglione. Mi sembrava adatto all’immagine di me stesso intento a passare il maledetto frumento (che tanto odio) nei rulli del mulino per fare poi tre step in ammostamento. Fuckwit, appunto: ma chi me l’ha fatto fare!

2 COMMENTS

  1. Ciao Frank, lo sbilanciamento che hai dato ai solfati in una birra che non dovrebbe essere amara c’è un motivo particolare? Forse con troppi cloruri poteva venire stucchevole?

  2. Sono semplicemente i sali che c’erano nell’acqua. 10 ppm di solfati sono praticamente zero. A queste concentrazioni, il rapporto solfati/cloruri è del tutto ininfluente.

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