Da quando ho iniziato a fare birra in casa, l’obiettivo principale è stato sempre quello di concentrare le forze. Il mio approccio è semplice: questo passaggio serve? migliora davvero la mia birra? perché lo dovrei fare? Se lo ritengo utile, lo faccio (indipendentemente dal tempo che richiede). Altrimenti, no. La logica “tanto male non fa“, che solitamente finisce per aggiungere minuti (se non ore) alla giornata di cotta, non la condivido. Ancor meno mi piace l’idea di applicare certe pratiche all’homebrewing solo “perchè i birrifici lo fanno“: le logiche di efficienza, performance e le dinamiche di un birrificio sono completamente differenti da quelle degli impianti casalinghi.

Anche per questo sono un BIABista convinto (ovvero faccio birra con il metodo Brew In A Bag, massimo 13 litri per cotta). Piano piano ho messo su un piccolo impianto elettrico controllato da un PID che mantiene perfettamente la temperatura di mash per tutto il tempo dello step di conversione. Aggiungere qualsiasi altro step richiederebbe interventi manuali da parte mia (il PID non è adatto per gestire in autonomia gli step di temperatura) che andrebbero a vanificare tutti i miei sforzi di automazione del mash.

Per questa ragione non ho mai applicato il protein rest e ora mi sto chiedendo: mi perdo qualcosa? Proviamo a indagare.

COS’È IL PROTEIN REST

Come sempre, cerchiamo online qualche fonte affidabile: Brew Your Own, in questo articolo, ci dice che viene definito protein rest quello step in cui si mantiene il mash ad una temperatura tra i 44C e i 59C.  In questo intervallo di temperatura sono attivi due enzimi: protease e peptidase, noti nel complesso come enzimi proteolitici.

Il primo, la protease, scinde il legame che lega gli amminoacidi (componenti delle proteine) mentre il secondo, la peptidase, riduce la complessità delle catene proteiche senza dissociarle negli amminoacidi. Il primo enzima lavora meglio nella parte bassa del range di temperatura, mentre il secondo in quella alta (un po’ come le alfa e beta amilase nello step di conversione).

Dato che generalmente le proteine medio/corte sono benefiche per la tenuta della schiuma, si effettua il protein rest attivando maggiormente l’enzima peptidase, mantenendo la temperatura intorno ai 56/57C per un quarto d’ora al massimo (al fine di non degradare troppo le proteine benefiche per la tenuta di schiuma).

PERCHE’ FARE IL PROTEIN REST?

La scomposizione delle strutture proteiche complesse del malto porta alcuni benefici:

  • riduzione della Chill Haze, che rende la birra opalescente quando troppo fredda (è composta da agglomerati di proteine)
  • scomposizione delle catene proteiche in FAN (Free Amino Nitrogens), nutrienti importanti per il lievito.
  • leggero aumento dell’efficienza di estrazione degli zuccheri (la gabbia proteica rende meno accessibile l’amido da parte degli enzimi)

COSA DICONO I SACRI TESTI

John Palmer (autore di How to Brew, cap. 14):

In fully modified malts, these enzymes (peptidase e protease NdR) have done their work during the malting process.

Brad Smith nel suo blog (autore del software per homebrewing Beersmith):

Since head retention depends on the level of high molecular weight proteins, any step in the mash that breaks down proteins is undesirable. For example, a protein rest in the 50-60 C (122-140 F) range would not be desirable.

Brew Your Own, in un articolo del 2008:

A rest in the temperature range between 113–138 °F (44–59 °C) has traditionally been called a protein rest. These days, many brewing scientists do not think that much protein degradation occurs during mashing and this is part of the reason that it is left to the maltster

Da queste considerazioni (e da molte altre che non ho citato) si evince che sono tutti d’accordo su un punto: nel caso in cui un malto sia ben modificato, il protein rest è superfluo. Il punto è: cosa significa malto ben modificato?

LE PROTEINE NEI CEREALI

Una delle fasi principali della maltazione dei cereali è quella in cui si fanno germinare i grani. In questa fase, detta appunto di germinazione, dal chicco nasce una piccola radichetta che viene fatta crescere per alcuni giorni. Più la radichetta viene fatta allungare, più il malto si definisce “modificato“. Ovviamente, dato che la radichetta, per crescere, consuma le risorse presenti nel grano (come ad esempio gli amidi), questo processo viene ad un certo punto fermato essiccando i chicchi. Più la radichetta è cresciuta, più la struttura proteica del malto è stata degradata rendendo di fatto superfluo lo step di protein rest durante il mash.

Come facciamo a sapere se un malto è sufficientemente modificato? Ci viene in aiuto un altro articolo di Brew Your Own, che ci spiega quali sono i parametri del “malt specification sheet” che possono darci un’idea del grado di modificazione del malto:

  • Azoto (Nitrogen) Totale (TN, valore %): come abbiamo visto sopra, le proteine sono fatte di amino acidi e quindi di azoto. Questo indice ci fornisce la percentuale di nitrogeno presente nel malto (1% di TN equivale a 6.25% di proteine).
  • Azoto (Nitrogen) Solubile in acqua (SN): indica la percentuale di azoto (e quindi proporzionalmente anche quella delle proteine) solubili in acqua. Più un malto è modificato, più questo valore è alto.
  • Indice di Kolback (SN/TN chiamato anche SNR): questo è il valore più importante in quanto direttamente legato al livello di modificazione del malto. Più questo indice è alto, più il malto è stato modificato (l’azoto e le proteine sono maggiormente solubili in acqua).  Valori sopra al 35% indicano malti molto modificati che non hanno bisogno di protein rest.

Bene, andiamo ora a leggere le schede di alcuni malti. Prendiamo ad esempio le schede di malti pils e pale della Dingemans e della Crisp Malting, molto presenti su siti come Birramia o Mr. Malt (potete scaricare le schede qui e qui) e andiamo a capire in che misura questi malti sono modificati. Molto spesso viene dato un range per l’indice di Kolbach, noi facciamo riferimento al caso peggiore (ovvero all’estremo più basso):

  • Dingemans Ale Malt > Kolbach: 35 
  • Dingemans Pilsner Malt > Kolbach: 35
  • Crisp Malting Maris Otter > Kolbach: 38
  • Crisp Malting EuropilsKolbach: 36

Come vediamo, anche nel caso peggiore, l’indice di Kolbach evidenzia malti ben modificati che non hanno bisogno di protein rest.

CONCLUSIONI

Personalmente, tenendo conto del mio setup (vedi inizio articolo), credo che continuerò a non inserire il protein rest nella mia tabella di mash (che prevede nella maggior parte dei casi un solo step + mash out). E’ vero che non sempre le analisi dei malti sono disponibili e che sicuramente esisterà al mondo qualche malto non ben modificato, ma sinceramente preferisco prendermi questo rischio piuttosto che mettermi di nuovo a smanettare con la mia resistenza elettrica.

Se i malti sono ben modificati, nel mosto troveremo la giusta quantità di FAN senza dover ricorrere al protein rest.

Dell’efficienza in genere mi preoccupo poco (uso qualche etto in più di malto, se necessario) e la chill haze dipende da tantissimi altri fattori oltre che dal protein rest (es. velocità di raffreddamento del mosto, whirpool, winterizzazione e in generale tutto ciò che fa coagulare le proteine, cfr. questo articolo).

Che un birrificio pratichi il protein rest non mi stupisce: loro hanno i mezzi per programmare gli step in automatico e inoltre in ogni cotta mettono in gioco ettolitri di birra che poi dovranno vendere. In quel caso il protein rest rappresenta una ulteriore safety nel caso di partite di malto “particolari” che applicherei anche io se campassi della birra che produco (a ogni modo non tutti lo fanno, basta che diate un’occhiata alla ricetta della Zest che Schigi ha pubblicato sull’ultimo numero di fermento birra).

Che dire, a voi la scelta.

10 COMMENTS

  1. Leggendo solo oggi questo articolo e condividendone i concetti, ne approfitto per porre a Frank la domanda: Per quale scopo (che non sia quello di disattivare gli enzimi ), facendo biab, esegui il mash out? e a quale temperatura lo esegui? grazie e rinnovati complimenti per il blog! 😉

  2. Oltre a disattivare gli enzimi, il mash out è utile per sciogliere meglio gli zuccheri nell’acqua e quindi migliorare di qualche punto l’efficienza.

  3. La temperatura di solito è intorno ai 75 gradi. ? L’importante comunque è non superare gli 80, per evitare di tirare fuori tannini dalla cellulosa dei grani.

  4. Ciao, ho scoperto oggi il vosto sito e mi sto leggendo con interesse i vostri articoli.
    Una sola cosa, è una fissa da chimico quale sono, ma non resisto a non dirla: nitrogen si traduce in italiano con azoto.
    Ciao

  5. Complimenti per l’articolo Frank!
    In effetti io ho sempre usato il protein rest solo per malti notoriamente un po meno modificati come il pils, monaco e vienna. Ma se le cose stanno così potrei anche iniziare a farne a meno!

  6. Anche io non ho mai effettuato il Mash-out con BIAB; tuttavia una sosta di 10 min a 72° la faccio per la schiuma (leggenda o realtà? Boh!). Proverò il mash out a 75° e vedere cosa succede a livello di efficienza, anche se strizzare a quelle temperature inizia a diventare impegnativo 🙂

    • Sempre a pensare alla schiuma… prima pensiamo a sapori e aromi! 🙂 La schiuma, se gestiamo bene tutto il processo, viene da se’.

  7. Ciao Frank, rispolvero un vecchio articolo per una nota. Possibile che in questo passaggio
    “Il primo, la protease, scinde il legame che lega gli amminoacidi (componenti delle proteine) mentre il secondo, la peptidase, riduce la complessità delle catene proteiche senza dissociarle negli amminoacidi. Il primo enzima lavora meglio nella parte bassa del range di temperatura, mentre il secondo in quella alta (un po’ come le alfa e beta amilase nello step di conversione).” siano stati invertiti i range di temperatura? Ovvero peptidase parte bassa, protease parte alta ?

    • Può darsi, ma in realtà, stando all’ultima letteratura che ho letto, entrambi gli enzimi sono attivi nella fascia 45-55°C. La differenziazione conta poco.

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