Dopo diverse ricerche e ragionamenti, come promesso pubblico la seconda parte dell’approfondimento sulle New England IPA (qui la prima parte). Premetto che le informazioni sono molte, spesso e volentieri anche in contrasto tra loro. Come già detto, tanti sono i filoni di ricerca ancora aperti su molti degli approfondimenti collegati a questo stile. Non esistono formule certe per ottenere risultati ottimali, piuttosto bisogna studiare le varie opzioni per valutare il compromesso che meglio si adatta alla propria idea di birra e all’impianto con cui la si vuole produrre. Copiare passo passo ciò che fanno i birrifici non è sempre la soluzione ottimale per ottenere buoni risultati.

Come sempre qualsiasi correzione/osservazione è benvenuta: sono qui per ragionare e approfondire insieme a chi legge.

La scelta dei luppoli

Che si tratti di NEIPA o “semplici” IPA, la scelta delle varietà di luppolo da inserire in ricetta rappresenta sempre un passaggio complicato. Gli aromi che i luppoli possono sprigionare sono molteplici e variegati: se alcune sfumature sono ben definibili, spesso l’interazione tra le diverse componenti è difficilmente prevedibile. Questo risulta abbastanza evidente anche semplicemente leggendo le descrizione dei vari luppoli in rete: se in alcuni casi la base è comune (resinoso, agrumato, floreale) in molti altri troviamo descrittori piuttosto “fantasiosi” e molto spesso diversi a seconda del sito che andiamo a consultare. Questo perché i composti aromatici contenuti nel luppolo sono centinaia e, soprattutto, non lavorano in solitaria: spesso si combinano generando aromi diversi o rafforzandosi l’un l’altro. Alcuni composti “spariscono” o si trasformano durante il processo produttivo, dando luogo a risultati inattesi. È stato addirittura osservato (cfr. MBAA podcast 001) che non sempre una maggiore concentrazione di oli aromatici nei luppoli porta a un aroma più intenso nella birra, anzi, alcune volte avviene esattamente il contrario.

Data la complessità del tema, proverò a passare in rassegna alcuni elementi che trovo molto importanti, lasciando il resto all’esperienza che ciascuno di noi dovrà necessariamente sviluppare sul campo. Partiamo da uno schema essenziale e iper-semplificato che fotografa i principali composti aromatici che troviamo nei coni di luppolo.

I composti aromatici dei luppolo vengono genericamente indicati come “oli essenziali” e si dividono in tre grandi gruppi: idrocarburi, idrocarburi ossigenati e composti dello zolfo.

Gli IDROCARBURI sono abbastanza noti e conosciuti: parliamo di terpeni classici come mircene, pinene, limonene. Costituiscono la maggior parte degli oli essenziali del luppolo e sono altamente volatili. Questo significa che non passano generalmente le fasi di bollitura e riescono a entrare in soluzione solo se il luppolo viene aggiunto a freddo. Il risultato aromatico dei terpeni è variabile, ma mediamente ci troviamo nella regione del resinoso, pinoso e speziato (quest’ultimo da intendersi come aroma “pungente”).

Tutti i luppoli hanno una buona percentuale di idrocarburi, ma tipicamente i luppoli americani e neozelandesi ne sono più ricchi (cfr. Scott Janish). Sono ben note a tutti le sfuamture resinose e pinose di luppoli come Chinook, Simcoe, Columbus, Centennial, Cascade e via dicendo, utilizzati da sempre nelle IPA di stampo americano.

Gli IDROCARBURI OSSIGENATI (chiamati spesso terpenoidi) rivestono un ruolo ben più interessante nel processo di produzione delle NEIPA. Si tratta di un gruppo di composti vari che comprendono, tra gli altri, alcoli, esteri chetoni e aldeidi. La loro numerosità è elevatissima: ne sono stati individuati e classificati circa 300, ma se ne stimano più di un migliaio. Spesso hanno nomi simili tra loro e complicati da ricordare per chi non ha un background chimico alle spalle (geraniolo, geranile, acetato di geranile sono solo alcuni esempi). È quindi inutile (o almeno lo è stato per me) entrare troppo nel dettaglio chimico-fisico di questi composti.

È interessante invece sapere che derivano dall’ossidazione (sì, avete letto bene: ossidazione) degli idrocarburi. Parliamo di piccolissime ossidazioni che avvengono durante il processo di produzione del luppolo (essiccatura, pellettizzazione, conservazione) ma anche durante bollitura e fermentazione. In genere si fa riferimento alla loro concentrazione nel prodotto finito (coni e pellet), di cui costituiscono una buona percentuale degli oli che può variare dal 20% al 50%.

Alcuni idrocarburi ossigenati sono associabili direttamente a una specifica componente aromatica, come il geraniolo (floreale/rosa) e il β-citronellolo (lime), ma in molti altri casi l’associazione diretta con uno specifico aroma non è particolarmente indicativa, in quanto superata dall’effetto combinato dei diversi composti aromatici.

Gli idrocarburi ossigenati sono particolarmente interessanti nella produzione di NEIPA per via della biotrasformazione che possono subire durante la fermentazione (ne parleremo nel seguito). Queste trasformazioni intensificano le componenti agrumate del profilo aromatico del luppolo. Sembrerebbe che l’interazione di queste componenti agrumate “intensificate” con i composti dello zolfo sia un elemento decisivo nella generazione degli aromi agrumati/tropicali (lime, frutto della passione, mango) tipici delle NEIPA (cfr. Beersmith Podcast 189 con Stan Hieronymus).

Foto di Avinash Kumar su Unsplash

Arriviamo quindi alla classe di composti spesso sottovalutata ma di grande importanza nel profilo aromatico delle NEIPA: i COMPOSTI DELLO ZOLFO, altrimenti detti tioli o mercaptani. Incredibilmente, pur essendo così importanti, costituiscono una percentuale minima degli oli essenziali: parliamo di concentrazioni spesso inferiori all’1% sul totale degli oli aromatici. I composti dello zolfo sono responsabili di una serie di aromi molto particolari che possono spaziare dall’aglio, alla cipolla (ovviamente poco gradevoli) fino a mango, guava, melone, passion fruit, uva spina e il famoso fiore di bosso, altrimenti detto “piscio di gatto” (in inglese boxwood o cat piss).

I composti dello zolfo hanno nomi piuttosto complessi, quasi sempre indicati tramite sigle: il più conosciuto è il 4MPP che troviamo anche nei vini bianchi tipo Sauvignon. È l’aroma che caratterizza fortemente il luppolo neo zelandese Nelson Sauvin, chiamato così proprio per la somiglianza del suo profilo aromatico con quello di un vino bianco Sauvignon Blanc.

Ancora non è chiarissimo come gli aromi generati dai composti dello zolfo possano spaziare dall’aglio/cipolla fino al tropicale, ma una serie di ricerche portate avanti dall’azienda giapponese Sapporo (quella che ha rilasciato sul mercato il luppolo Sorachi Ace) hanno evidenziato come l’interazione tra composti dello zolfo e idrocarburi ossigenati (in particolare geraniolo e linalolo) esalti le componenti citriche dell’aroma indirizzandole verso lo spettro agrumato/tropicale (passion fruit, mango e simili). Questa sembrerebbe essere la ragione per in cui alcune varietà di luppolo ricche di geraniolo ma allo stesso tempo anche di tioli (come ad esempio Mosaic e Citra) emergano aromi tropicali, mentre in altri luppoli, tipo il Summit, i composti dello zolfo virino spesso su note non gradevolissime di aglio/cipolla.

Ecco dunque perché nelle NEIPA si usano spesso blend di luppoli con aromi tipicamente tropicali come Citra, Mosaic, Azacca e Galaxy insieme a luppoli che notoriamente hanno aromi agrumati/floreali come Cascade, Bravo, Centennial ma a volte anche Chinook.

Immagine tratta da:
https://appellationbeer.com/blog/cascade-a-study-in-hop-terroir/

Cosa fare, nella pratica? Personalmente ritengo che scegliere i luppoli in base ai dati quantitativi sugli oli essenziali non sia la strada giusta. Le dinamiche delle interazioni tra i diversi oli sono molto complesse e non ancora comprese al punto da poter trarre delle indicazioni precise sui luppoli da scegliere. Detto ciò, secondo me ha senso scegliere i luppoli da aroma selezionando varietà con spiccate componenti tropicali (Azacca, Citra, Galaxy, Mosaic) affiancandoli a varietà americane più classiche con intense note agrumate/floreali (Cascade, Centennial, Simcoe, Chinook) proprio per esaltare l’interazione tra tioli e terpenoidi (ovvero tra composti dello zolfo e idrocarburi ossigenati) spingendo sulle note tropicali.

Teoricamente, ma questo è un mio ragionamento, si potrebbero impiegare nel mix anche luppoli americani come Mt Hood o Crystal che hanno una buona intensità aromatica e al contempo un profilo nobile (floreale, leggermente agrumato) simile ai luppoli europei.

Non esagererei con il dosaggio di luppoli dal profilo notoriamente molto resinoso (come ad esempio Simcoe e Chinook) per evitare di sbilanciare troppo l’aroma sulle note di resina/pino. In generale abbinerei almeno un paio di varietà (una più tropicale, l’altra più citrico/floreale) ma non andrei oltre le tre-quattro tipologie diverse (sarebbe difficile valutare i dosaggi e il contributo aromatico della singola varietà nel caso in cui non si fosse soddisfatti del risultato).

Dry hopping: quantità

Entriamo a questo punto in un campo ancora più sperimentale, dove tracciare linee guida ben precise diventa ancora più difficile. Come vedremo, le scelte sono spesso frutto di compromessi e di valutazioni del tutto personali, spesso supportate dall’esperienza pratica piuttosto che da ricerche con una vera e propria valenza scientifica. Ciò detto, credo sia importante conoscere alcuni principi generali per evitare di sprecare tonnellate di luppolo. Ricordiamoci sempre che “di più” in questo caso non significa necessariamente “meglio”, quindi è bene non strafare.

Quando si tocca il tema NEIPA, si sente spesso parlare di Double Dry Hopping (DDH) in casi estremi anche di triplo dry hopping. Questo modo di dire, tanto diffuso perché di moda, può avere un significato sia temporale (ovvero aggiungere luppolo in diverse fasi della fermentazione) sia quantitativo (aggiungo il doppio o il triplo del luppolo rispetto a una “normale” IPA). Entrambe le interpretazioni sono applicabili al mondo delle NEIPA, ma su ciascuna è bene fare delle riflessioni.

Aggiungere più luppolo: ma fino a che punto? Partiamo da quello che può essere un quantitativo “standard” di dry hopping per una classica IPA. Parliamo di dosaggi che possono andare tra i 4 e i 6 g/L (mediamente, poi ci sono casi e casi). Sulle lattine il birrificio inglese Cloudwater, noto per le sue bombe luppolate, indica il dosaggio dei luppoli. Andiamo a vedere qualche esempio (cerchio in basso a destra nelle foto, prese direttamente dal sito del birrificio).

Nella DDH Pale troviamo un dosaggio di 16 g/L che sale addirittura a 24 g/L nella Double IPA. Ha senso aggiungere così tanto luppolo? (lasciamo da parte le considerazioni sul prezzo di queste lattine, che arrivano a costare anche 10€ per mezzo litro di birra).

Anzitutto va fatta una riflessione: questo dosaggio non credo indichi il tasso di dry hopping, ma la luppolatura complessiva rapportata ai litri di birra prodotti. Nel caso in questione, il tasso di dry hopping potrebbe ridursi a un più “ragionevole” 10 g/L perché il resto dei luppoli è stato in realtà usato in boil o più probabilmente durante il whirpool. A prescindere da questo, siamo comunque su dosaggi molto alti.

Esiste un limite alla solubilità degli oli essenziali nella birra, oltre il quale la concentrazione degli oli disciolti raggiunge il punto di saturazione (ovvero non aumenta anche se aggiungiamo pellet a secchiate). È stato addirittura osservato (link) che gli oli responsabili delle componenti citriche saturano prima di quelli che generano aromi erbacei. Il primo limite di saturazione (quello relativo alle componenti citriche) è stato individuato in un dry hopping di 4 g/L, il secondo a 8 g/L. Dopo gli 8 g/L saturano completamente gli oli essenziali, ma continuano a solubilizzarsi i polifenoli, con rischio concreto di aumento sconsiderato dell’astringenza.

Questo significa che una stessa varietà di luppolo con dosaggi di dry hopping differenti può portare a profili citrici o resinosi/erbacei a seconda del dosaggio. Da questo studio però non si capisce quale sia la concentrazione degli oli già presenti nel mosto in partenza, ovvero quanto luppolo sia stato aggiunto a fine boil o in whirpool. Inoltre, lo studio parla di dry hopping “statico” (che in genere è quello che si pratica in ambito casalingo): se la birra viene costantemente mescolata (nei birrifici lo si fa con pompe di ricircolo o anche insufflando anidride carbonica dal fondo del fermentatore) la solubilità aumenta e anche il limite di saturazione. Per questa ragione, alla fine dei conti, i dosaggi di Cloudwater potrebbero anche avere un senso (in effetti le loro birre, sebbene costose, sono generalmente piuttosto buone).

Per facilitare la solubilizzazione degli oli essenziali, si divide spesso il dry hopping in due o anche tre gettate: l’aggiunta di dosi più piccole aiuta la solubilizzazione degli oli, che potrebbero altrimenti aggregarsi più facilmente (anche grazie agli altri composti solidi presenti nella birra) e precipitare sul fondo. A ogni modo, l’articolo di cui sopra può essere preso come riferimento per estrapolare un limite di dry hopping ragionevole oltre il quale è meglio non spingersi, almeno in ambito casalingo, considerando che le possibilità di ricircolo della birra senza introdurre ossigeno sono molto limitate. Teniamo quindi a mente questo limite, che per le aggiunte complessive in dry hopping fisserei orientativamente intorno ai 12 g/L.

Dry hopping: tempi

Quando aggiungere il luppolo? Dalle considerazioni precedenti deduciamo che, quando si parla di alti tassi di dry hopping, è bene suddividere le gettate in almeno un paio di fasi. Se seguissimo la teoria classica, sposteremmo queste gettate dopo la fine della fermentazione. Questo perché, come ben sappiamo, con la fermentazione ancora attiva si perde molta carica aromatica a causa dell’anidride carbonica che fuoriesce dal fermentatore. Non solo, gli oli essenziali tendono a “incollarsi” alle cellule di lievito ancora in circolo precipitando sul fondo al momento della flocculazione.

Tuttavia, come abbiamo detto qualche paragrafo sopra, nelle NEIPA si cerca di potenziare l’aroma citrico proprio sfruttando l’azione del lievito che promuove la biotrasformazione (di più su questo tema nel seguito). È importante quindi prevedere una prima gettata a fermentazione ancora in corso, magari quando siamo arrivati a metà OG rispetto a quella iniziale. L’aggiunta in questa fase ha un altro vantaggio: l’ossigeno che inevitabilmente entra nel mosto insieme ai luppoli (userei categoricamente i pellet che intrappolano meno aria al loro interno) viene consumato dal lievito o espulso con l’agitazione e l’anidride carbonica, limitando l’ossidazione.

Una seconda gettata si può fare a fine fermentazione, o a fermentazione ultimata. Considerando che la fermentazione porta fuori dalla birra una parte degli oli essenziali, il tasso di dry hopping complessivo può anche salire oltre le soglie che abbiamo discusso prima (i famosi 4 g/L per gli aromi citrici). Per questo un target complessivo di 10-12 g/L mi sembra ragionevole. È ovviamente un compromesso da testare sul campo.

E il dry hopping a freddo?

Una ricerca ha dimostrato che con il dry hopping a freddo (intorno ai 4°C) si estrae più o meno la stessa quantità di oli essenziali (cfr. articolo Hopsteiner) che si estrarrebbe con il classico dry hopping a temperatura ambiente. Dato che è noto che il freddo limita invece l’estrazione di composti astringenti dal luppolo, si potrebbe avere la tentazione di fare almeno l’ultima gettata di luppolo a bassa temperatura. Questo è altamente sconsigliato, specialmente con gli alti dosaggi di dry hopping tipici delle NEIPA, per via del pericoloso fenomeno dell’Hop Creep (di cui ho parlato in un altro post) che può generare sovracarbonazione e diacetile in bottiglia.

Quindi? Luppolo a secchiate?

Dalle tante considerazioni fatte fino ad ora (molte altre se ne potrebbero ancora fare) mi sembra evidente come sia impossibile dare una indicazione precisa su quantità e tempi. Quello che facciamo a casa non può essere identico a quello che si fa in birrificio dove si lavora con fermentatori in pressione, insufflaggio di anidride carbonica e pompe per il ricircolo. Personalmente proverò un dry hopping in due fasi con un dosaggio di 5 g/L per ogni fase (10 g/L in totale): la prima aggiunta dopo un paio di giorni di fermentazione e la seconda quando la fermentazione si avvierà al termine. In questo modo spero di limitare gli effetti negativi dell’ossigeno che inevitabilmente introdurrò con il luppolo.

Per quanto riguarda il formato, userò senza dubbio i pellet (i coni sono sconsigliati per la minore resa aromatica e l’eccessiva quantità di ossigeno che si insinua nei coni). Un altro approccio interessante potrebbe essere quello di fare la prima luppolatura con i pellet e la seconda con i CRYO hops (luppolina): con questo formato si introducono di fatto solo gli oli essenziali limitando la solubilizzazione della componente vegetale. Usare solo luppolina è sconsigliato perché mancherebbe quella base di “boost” vegetale importante per il mouthfeel di queste birre. Per ora proverò i pellet, poi vedremo. Nella tabella seguente ho provato a schematizzare i pro e contro dei diversi approcci alla luppolatura, in base ai quali ciascuno sceglierà il proprio livello di compromesso.

La scelta del lievito

Eccoci arrivati a un altro elemento a mio avviso molto frainteso per quanto riguarda la produzione di NEIPA: il lievito. Si ragiona spesso per “sentito dire” senza fermarsi troppo a ragionare sull’effettivo ruolo che il lievito gioca nella produzione di questo stile di birra. Le considerazioni da fare si muovono su tre livelli distinti: flocculazione, biotrasformazione e profilo aromatico. Passiamoli in rassegna uno alla volta.

FLOCCULAZIONE. Abbiamo visto dai dati di Maye (cfr. post precedente) che la torbidità nelle NEIPA non è in genere attribuibile al lievito in sospensione. Da questo punto di vista possiamo quindi utilizzare lieviti con qualsiasi livello di flocculazione.

BIOTRASFORMAZIONE. Entriamo nuovamente in un ambito molto complesso, ancora oggetto di diversi studi e ricerche. Con il termine “biotrasformazione” applicato al dry hopping si intende genericamente la trasformazione di alcuni composti del luppolo. Questa trasformazione avviene solo in presenza di lievito attivo. È bene tuttavia distinguere tra due diverse tipologie di biotrasformazione che operano in maniera differente: la prima trasforma composti aromatici (come il geraniolo) in altri composti aromatici (come il linalolo), mentre la seconda trasforma composti non aromatici (i glicosidi) in composti aromatici. Si tratta di due fenomeni ben diversi.

Nel primo caso, da quello che ho potuto approfondire, la trasformazione avviene quando il lievito è attivo, indipendentemente dal ceppo. Diversi studi (tra cui “Biotransformation of hop aroma terpenoids by ale and lager yeasts”) hanno rilevato una riduzione della concentrazione di geraniolo durante la fermentazione e un contestuale aumento della concentrazione di citronellolo e linalolo, evidenza della trasformazione del primo nei secondi. Altre ricerche hanno confermato che durante la fermentazione avviene una trasformazione di diversi terpenoidi, non tutti ancora ben identificati. Questo porterebbe complessivamente a una trasformazione del profilo aromatico che vedrebbe intensificate le sfumature citriche. Difficile quantificare e qualificare esattamente questa variazione nel profilo aromatico, ma è bene sapere che esiste e che avviene durante la fermentazione se è stato aggiunto luppolo in late boil/whirpool o in dry hopping nel corso della fermentazione stessa.

Foto di Bruna Branco su Unsplash

Il secondo caso è forse ancora più complesso perché coinvolge solamente determinati ceppi di lievito. Parliamo della trasformazione dei glicosidi, composti non-volatili (e quindi non aromatici) contenuti nel luppolo e formati da due molecole: una aromatica e l’altra no. Nel nostro caso le due molecole legate sono glucosio e un componente aromatico del luppolo (in genere un terpenoide). Il glicoside diventa aromatico quando viene scisso il legame tra le due molecole che lo compongono, liberando quella aromatica. La scissione di questo legame si verifica per opera di diversi enzimi, tra cui quelli appartenenti al gruppo delle glicosidasi.

Imamgine da:
https://bit.ly/2G2jy1V

Solo alcuni lieviti sono in grado di produrre questa tipologia di enzimi e quindi solo alcuni lieviti possono liberare questa ulteriore componente aromatica intrappolata nelle molecole glicosidiche. Quali? Diverse ricerche sono state fatte su questo tema, ma i risultati non sono chiarissimi né definitivi per quanto ho capito, anche perché lo scenario non è del tipo “on-off”, ma dipende dalla quantità di enzimi rilasciati e da diversi altri fattori. La Lallemand ha fatto una ricerca sui propri lieviti (link) rilevando un livello significativo delle glicosidasi solo nei ceppi Belle Saison, BRY-97 e, ovviamente, il nuovo ceppo New England IPA.


Imamgine da:
https://bit.ly/2G2jy1V

Altre ricerche evidenziano come l’attività delle glicosidasi (ma anche di altri enzimi in grado di scindere il legame glicosidico) sia molto bassa se non assente in tutti i ceppi a bassa fermentazione e presente solo in alcuni ad alta (tra cui, immagino, i lieviti Vermont e simili). Alcuni ceppi di Brett (tra cui il Bruxellensis, cfr. Milk The funk) sembrano produrre una concentrazione significativa di enzimi in grado di rompere il legame glicosidico, ma non tutti.

Detto ciò, mi viene da chiedermi quanto questa caratteristica possa essere importante sul profilo organolettico di una NEIPA. Sicuramente dai glicosidi vengono liberate componenti aromatiche, ma non saprei dire quanto questo possa quantitativamente e qualitativamente influire sul profilo organolettico dello stile.

PROFILO AROMATICO. A questo punto viene da chiedersi perché spesso vengono usati lieviti inglesi per fermentare le NEIPA, se è poco probabile che contengano enzimi in grado di liberare la carica aromatica intrappolata nei glicosidi. La ragione, a mio avviso, è dovuta agli esteri che questi ceppi anglosassoni possono produrre durante la fermentazione. In genere nelle NEIPA si cerca un profilo fruttato che possa esaltare la componente aromatica dei luppoli, quindi esteri che ricordano frutta tropicale come mango ma anche pesca o un filo di banana. Togliendo i lieviti belgi, che hanno un evidente profilo fenolico (speziato) non adatto allo stile, non sono molti i lieviti in grado di generare un profilo fruttato delicato senza generare difetti (provate a far lavorare un US-05 a 25 gradi e vedete cosa viene fuori). Tra questi, il London Ale III è in genere quello più papabile, anche se non è “tecnicamente” un lievito da NEIPA. Un altro candidato è il famoso “falso” Bret Bruxellesis Trois (WLP644). Un “famoso” ceppo di lievito per le NEIPA è l’OYL-052 (DIPA Ale) della Omega Yeast, noto anche come “Conan“. Questo lievito sarebbe stato isolato originariamente proprio da alcune lattine di NEIPA prodotte ad birrifici del Vermont. È noto per produrre intensi aromi di pesca durante la fermentazione.

Del resto, stando a quanto scritto fino a qui, ci si rende abbastanza conto quanto anche la scelta del lievito per produrre una NEIPA sia frutto di compromessi, spesso indirizzati seguendo istinto ed esperienza. Detto ciò, non direi mai che una NEIPA senza il giusto lievito non è una NEIPA, come alcuni affermano con una certa fierezza. I fattori in gioco sono davvero molti.

Foto di David Becker su Unsplash

Regolare i sali dell’acqua

Chiudiamo con un commento velocissimo sull’acqua, anche perché questo secondo post è diventato lunghissimo e abbastanza complesso. Una spinta sui cloruri ci sta tutta, mi sembra ovvio. Solfati intorno a 50 ppm e cloruri belli alti (150-200ppm). Il pH di mash non lo farei scendere troppo, mantenendolo su un 5.3-5.4 in modo da portare avanti la bollitura con pH intorno a 5.4 (sempre per non favorire eccessivamente la coagulazione delle proteine). Questa la mia idea che sperimenterò presto.

In conclusione

Se vi aspettavate a questo punto una ricetta bella e pronta, devo deludervi. Preferisco che ognuno costruisca la propria ricetta in base ai tanti elementi fino a qui analizzati. A breve farò una cotta per sperimentare la mia idea personale di ricetta per questo stile, che pubblicherò dopo l’assaggio (probabilmente tra un mesetto o giù di lì). La mia NEIPA sarà rifermentata, perché come molti sanno non ho intenzione di dotarmi di complicati impianti di imbottigliamento in contropressione. Vedremo cosa succederà. È stato un bel viaggio teorico tra articoli e testi scientifici, ma ora bisogna mettere mano al pentolone e fare un po’ di esperienza sul campo!

A questo link la NEIPA che ho prodotto dopo tutte queste elucubrazioni.

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Ingegnere elettronico prestato al marketing, da sempre appassionato di pub e di birre (in questo ordine). Produco birra in casa a ciclo continuo dal 2013. Insegno tecniche di degustazione e produzione casalinga. Sono un divoratore di libri di storia e cultura birraria. Dal 2017 sono giudice BJCP (Beer Judge Certification Program). Autore del libro "Fare la birra in casa: la guida completa per homebrewer del terzo millennio"

13 COMMENTS

  1. Complimenti, come sempre abilissimo a unire tutti i fili in un’unica pagina. ^^ è un mondo che trovo interessantissimo, perché appunto c’è così tanto da studiare.
    Le variabili sono molte, e il non avere ancora abbastanza risposte certe è, almeno per il sottoscritto, un forte stimolo.
    Slainté

  2. Bravo, sei riuscito a farmi prendere voglia di produrla, tantissime informazioni tecniche (beato te che riesci a comprendere bene i podcast, io mi perdo, dovrei allenarmi di piu’ sull’inglese ascoltato ma ho poco tempo).
    Sto buttando giu’ la ricetta, vediamo cosa esce. Grazie veramente di tutto, come sempre.

    P.S.
    Sto pensando a come gestire il doppio dryhop fermentandola in pressione. Per ora l’idea è di mettere la prima metà in fermentatore dopo 2 giorni, poi attendere ancora i 3/4 di fermentazione e, travasando nei fusti e metendo in pressione, inserire la seconda metà del luppolo (sicuramente metterò anche del cryo) e lasciare fermentare e andare in pressione dentro al fusto. Che ne dici?

  3. Ciao Frank mi complimento con per te per la voglia e la passione che ti ha spinto a scrivere questi 2 articoli molto interessanti. le informazioni e i punti che hai toccato sono veramente molti e ce ne sarebbe da discutere, ma partiamo da una cosa che mi ha colpito.
    Quando ho letto il paragrafo sul lievito, ho finalmente capito perchè luppolare una Saison a fine bollitura non porta a nulla, almeno sotto il profilo aromatico, ho notato invece che l’ultima Saison realizzata con Belle Saison, avevo un gusto simile all’arancia dolce, quindi sicuramente anche il lievito da un suo contributo nel gusto. Sicuramente mi dovrò rileggere l’articolo più volte per capire se quello che ho capito è quello che intendi anche tu.
    Sarebbe molto interessante avere una panoramica più ampia dei luppoli per capire bene quali si prestano meglio a questo tipo di utilizzo.

  4. Ciao Frank, post davvero interessante, a tal punto da farmi fare una ricetta per una futura cotta di NEIPA.
    Detto ciò volevo chiederti riguardo alle aggiunte di luppolo prima del dry hopping. Leggendo in qualche sito americano consigliano di aggiungere luppolo in 3 fasi a fiamma spenta( intorno agli 80°) diciamo una aggiunta ogni 10 minuti dopo il flame out. Per intenderci dopo aver spento ogni 10 minuti aggiungo luppolo( x3 volte).
    cosa ne pensi? Se non mi sono perso dei pezzi, nel tuo articolo parli solo di DDH.

    • Ho aggiunto anche luppolo in hop stand (è nella ricetta). Non capisco però sinceramente quale possa essere l’utilità di aggiungere quote di luppolo a intervalli di 10 min

  5. Ciao Frank, sono appena tornato ad Aprile dalla California dopo aver passato 3 mesi a gironzolare da una Craft Brewery all’ altra, il tuo articolo dona agli home brewers italiani quelle conoscenze che altrimenti sarebbero difficili da reperire se non si conosce la lingua inglese.
    Purtroppo ancora in molti in Italia non capiscono che le IPA sono uno stile in cui gli elementi aromatici del luppolo non reggono bene il tempo e tanto meno gli scaffali dei supermercati.
    Le NEIPA poi sono ancora piu’ esagerate da questo punto di vista, in California ho assaggiato la stessa NEIPA appena infustata nella Birreria che la prodotta e quella comperata al Supermarket in versione lattina con data di produzione ad un mese, e la differenza si sente. Le NEIPA non viaggiano bene tanto che la distribuzione delle NEIPA nelle grandi Craft Brewery avviene solamente entro una determinata distanza. Vorrei solo aggiungere di NON cimentarsi in questo stile se non si posseggono fusti, come gia’ citato da te infinite volte il travaso in bottiglia porterebbe solamente ad ossidare il nostro prezioso liquido, a maggior ragione per una NEIPA che e’ molto piu’ delicata e super suscettibile ad ossidazione di ogni altra birra. Per quanto riguarda i lieviti, io uso con successo il Kveik Hothead, che abbinato ad una “unica” gittata di pellet al Whirlpool 75/80 C ed una di CRYO Hops a 24H dalla inoculazione lievito ed un’ altra in dry hopping nel fusto’ soddisfa appieno il mio palato ricreando quei sapori sperimentati negli States. Usate sempre luppoli piu’ freschi possibile, aprite le buste solamente al momento della gittata, usate i pellet piu’ vecchiotti per il whirlpool e quelli piu’ recenti per il dry hopping. Da quanto ho sperimentato credo che i CRYO Hops in termini di biotrasformazione hanno una marcia in piu’ ed infatti compro solamente questi!
    Il “falso” Bret Bruxellesis Trois e’ un altro eccellente candidato, io l’ho usato molte volte in abbinamento al Galaxy ed e’ stupefacente!, peccato che il Galaxy non lo si trovi in formato CRYO, essendo questo un processo detenuto gelosamente da Yakima.
    Non avendo i lieviti liquidi anche Il US-05 lavora bene ed in caso di sfiga, lo uso tranquillamente come lievito di scorta che non manca mai nel mio freezer.

  6. Ciao Frank,
    è da tempo che seguo i tuoi post,
    ti faccio i miei complimenti a mio parere sei uno dei massimi esperti in italia,
    il dettaglio ed il tuo essere esaustivo fanno la differenza.

    Ho una domanda in merito al DryHopping nelle Neipa,
    per via dei processi da te espressi è meglio buttare nel fermentatore i luppoli liberi,
    oppure metterli in HopBag, quindi uscirli prima della seconda gittata in dry?
    Così si ha la possibilità di farli sostare 2/3 giorni a gittata?

    • Ciao Mirko,

      personalmente uso solo e sempre pellet e MAI sacche, hopbag o altri contenitori, né in pentola né in fermentatore.
      L’uso di sacche o simili limita, spesso anche di molto, l’estrazione di oli e alfa acidi. Per liberarsi dei pellet è sufficiente fare una buona winterizzazione (4-5 giorni a 0-2 gradi) e poi sifonare dall’alto.

      • Si Frank, sono d’accordo con te, provato più volte, gli hopbag limitano di molto l’estrazione, il mio era in riferimento al tuo sapere sui vari processi di biotrasformazione, quindi mi chiedevo se fosse necessario limitare nel tempo la permanenza dei luppoli nel fermentatore, quindi estraendoli dopo un tot di giorni.

    • Nel post ci sono parecchie indicazioni sul lievito. C’è anche scritto che è sicuramente importante, ma non l’elemento più importane in questo tipo di birre. Quindi a mio avviso se non si usa lievito specifico (Conan liquido o New Wngland Lallemand Secco), US-05 o S-04 non cambia moltissimo. BRY-97 forse meglio per via degli enzimi che rompono i legami glicosidici. S04 è un lievito più “sporco” e difficile da gestire, io no lo userei.

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