La storia di questa Best Bitter è un po’ travagliata. Tutto nasce da una chiacchierata con un mio carissimo amico, anima vagabonda con cui ormai da quasi 20 anni viaggio in giro per Irlanda, Scozia e Inghilterra. Ogni anno ci facciamo almeno un veloce giro insieme, diverse pinte al bancone e tante chiacchiere. Per un puro colpo di fortuna, siamo riusciti a partire anche quest’anno: un ultimo viaggio, a Gennaio, in UK. Prima che scoppiasse la pandemia.
Quando siamo tornati, pieni di ricordi e di emozioni, ci siamo promessi di rivederci quanto prima davanti a un paio di pinte per rivivere insieme i ricordi salienti del nostro viaggio. Poi è arrivata la pandemia, e per mesi ci siamo incrociati solo tramite videochiamate. Dopo il lockdown, siamo finalmente usciti per due chiacchiere in un pub all’aperto. In quell’occasione ho proposto di incontrarci nuovamente a casa mia, una sera di Agosto, per goderci qualche pinta di bitter autoprodotta e poco gasata, direttamente dal fustino da 5 litri. Come se fossimo in viaggio al bancone di un pub. Preso dall’entusiasmo del momento, mi sono reso conto solo successivamente di essere molto stretto con i tempi di produzione. Ho voluto ugualmente sfidare la sorte, che con i lieviti inglesi – in 9 casi su 10 – significa birra sovracarbonata.
Sono ripartito dalla ricetta della mia ultima bitter che non era venuta affatto male. Ho applicato le modifiche che mi ero ripromesso di fare e ho pianificato la cotta. Tempo per ordinare lievito liquido non ne avevo, ho rimediando scegliendo tra le bustine che tenevo in frigo: il London della Lallemand mi è sembrato un ottimo candidato. Non lo avevo mai provato, mi piaceva l’idea di sperimentare. Purtroppo, non conoscendo bene le dinamiche di fermentazione di questo lievito, ho finito per imbottigliare troppo presto. Non potevo fare altrimenti, dato che la birra era a Roma e io a Fregene (cittadina di mare vicino Roma) e non potevo seguirla passo passo. Quando sono ripassato a casa, ho misurato la densità: era ancora alta, ma ho deciso di correre il rischio e lanciare il cold crash per tornare a imbottigliare e infustare qualche giorno dopo. È finita che la birra ha sovracarbonato: di brutto quella in bottiglia, meno quella nel fusto (consumata molto prima).
Tuttavia, resta una storia – e una birra – che vale la pena raccontare. La ricetta, una volta rimossa la gasatura eccessiva dalla birra, mi sembra veramente ben centrata.
RICETTA
La mia idea di bitter resta quella elaborata e raccontata in un post di qualche anno fa, dove trovate anche la ricetta della prima versione di questa birra. Dopo un paio di passaggi sono arrivato a questa terza versione: non molto diversa dalla prima, ma aggiustata e ricalibrata in alcuni aspetti a mio avviso essenziali.
Ho mantenuto la base di Vienna della seconda versione (nella prima avevo usato il CaraHell). Sebbene non propriamente tradizionale, si adatta molto bene allo stile esaltando la base maltata con leggere sfumature di nocciola che stimolano il retrolfatto. Rispetto alla seconda versione ho tolto il Roasted Barley che non c’entrava una mazza, sostituendolo con una dose ridotta di Pale Chocolate. Questo malto mi piace molto perché in piccole dosi riesce a dare un tocco di secchezza tostata senza alterare troppo il colore e senza sentori di cioccolata, che in questo stile c’entrano poco. Avrei preferito usare un Maris Otter come base, ma non ne avevo.
Ho eliminato il dry hopping, che si può anche fare ma secondo me non aggiunge molto in una bitter, se non potenziale ossidazione. Ho preferito limitarmi a un paio di gettate a fine bollitura per flavour (15 minuti) e un filo di aroma (5 minuti). Luppoli assolutamente classici. Avrei messo più Fuggles, ma era finito.
Quando ho prelevato il primo campione di mosto dal mash e misurato, il pH si era assestato a 5.4. Ho preferito lasciarlo così, anche se di solito faccio mash a 5.2. L’ho portato poi a 5.2 prima della bollitura.
FERMENTAZIONE
Non conoscendo questo lievito, mi sono mosso applicando le conoscenze acquisite con altri lieviti inglesi. In genere è meglio partire bassi per evitare una produzione eccessiva di esteri; non troppo bassi, però, altrimenti si potrebbe perdere il carattere inglese leggermente fruttato tipico di questi lieviti. Man mano che le bolle dal gorgogliatore rallentano e la densità scende, alzo la temperatura per evitare che il lievito flocculi troppo presto (altra caratteristica dei lieviti inglesi), rallentando all’infinito la fermentazione degli ultimi punti di densità. E preferibile, in genere, alzare la temperatura già alla fine del secondo giorno di fermentazione. Senza salire tanto – un paio di gradi in tutto – e senza aspettare troppo tempo.
Se avessi avuto tempo, avrei lasciato a 20°C per almeno 15 giorni senza nemmeno misurare la densità. I lieviti inglesi sono così, ci mettono una vita per finire. Ma, come già scritto, non avevo tempo. Ho imbottigliato sebbene la densità misurata fosse 1.014 (AA 67%) contro 1.012 (AA 72%) stimata da Brewfather in base a lievito e ricetta.
La densità, misurata dopo aver sgasato il campione preso dalla bottiglia sovracarbonata, era scesa a 1.010 (AA 77%). 4 punti di densità consumati in bottiglia producono circa 2 volumi di carbonazione. Aggiunti a 1.8 volumi del priming arriviamo più o meno a 4 volumi: una carbonazione da Weizen, in pratica.
Come al solito, ho imbottigliato metà cotta aggiungendo soluzione di priming in ogni bottiglia insieme a lievito CBC della Lallemand per velocizzare la rifermentazione (non necessario, ma lo aggiungo sempre per ridurre l’ossidazione). Stavolta ho rifermentato anche la birra nel fustino da 5 litri, sempre con aggiunta di lievito e priming. Siccome mi capita che ogni tanto gli attacchi del fustino perdano, non mi andava di lasciare la bombola di CO2 attaccata per carbonare forzatamente. Non potendo passare a casa per diversi giorni, temevo di trovarmi la birra non carbonata e la bombola vuota. Inoltre, una bitter rifermentata nel fustino ci sta tutta. Con il priming ho puntato a una carbonazione di 1.8 volumi in bottiglia e 1.5 volumi nel fustino.
ASSAGGIO
10 Agosto, torno a Roma per una notte. Arriva il mio amico, montiamo il rubinetto e proviamo a spillare la prima birra dal fustino. Per un po’ non esce nulla, poi riduco la pressione e inizia a fluire qualcosa. Probabilmente il tubo di silicone nel fustino si era strozzato per la troppa pressione che si era generata all’interno. La birra esce con schiuma generosa, piuttosto velata (le pinte successive si puliranno un po’, ma non molto), senza segni evidenti di eccessiva carbonazione. La assaggiamo. Ci piace. Forse ancora un po’ “green”, qualche giorno di assestamento in più le avrebbe fatto bene. Ma buona. Finiamo il fustino nel giro di qualche ora, addirittura rimane tempo per provare a stappare una delle bottiglie. Leggermente più carbonata, ma nulla di trascendentale.
Il giorno dopo metto le bottiglie avanzate in un frigo a temperatura controllata (18°C) e me ne torno al mare. Dopo 15 giorni rientro a Roma e decido di stappare una delle bottiglie. La sorpresa non è gradevole: carbonazione sensibilmente aumentata, senza gushing ma con evidente formazione di grandi bolle che risalgono dal fondo della bottiglia smuovendo il fondo. Versando una bottiglia per intero, facendo attenzione a non fare troppa schiuma, porta a un risultato visivo piuttosto brutto.
Passate le madonne e smorzata la voglia di buttare le restanti 8 bottiglie da mezzo litro nel lavandino, passo all’approccio “scaraffamento”. Ovvero verso con decisione la birra in tre contenitori diversi facendole fare più schiuma possibile e lasciando tre dita di fondo nella bottiglia per evitare di portare il lievito nel bicchiere. Dopo una decina di minuti, quando la schiuma si è ridotta sensibilmente, travaso il tutto in un unico bicchiere.
Sorpresa! La birra si presenta praticamente perfetta nel bicchiere. Limpida, colore brillante, schiuma leggera e persistente. Carbonazione quasi assente, come una vera bitter spillata a pompa, all’inglese. Mi rincuoro e assaggio con curiosità.
ASPETTO Appena stappata si nota subito la formazione di abbondante schiuma nel collo della bottiglia. Non fa gushing, ma se non la si versa subito nel bicchiere la schiuma inizia a fuoriuscire. Dopo averla desaturata, se si fa attenzione a non versare il fondo, la situazione varia notevolmente. La birra si presenta a questo punto nel bicchiere con una schiuma media, a bolle medio/fini (ancora leggermente troppo grandi per lo stile ma decenti), di colore bianco. Ottima persistenza, ne rimane un velo che copre la birra fino al termine della bevuta. Di colore ambrato, si presenta piuttosto limpida.
AROMA Aroma di intensità media. La luppolatura inglese emerge con note delicate di limone e suggestioni floreali (lavanda). Leggero erbaceo nelle retrovie che ricorda l’erba di un campo in fiore. Malto in secondo piano con sfumature biscottate, miele chiaro e leggeri sbuffi di caramello. Si percepisce un tenue aroma fruttato che richiama pesca e albicocca: potrebbe derivare dagli esteri del lievito ma anche dall’interazione delle varie tipologie di malto. Chiude una nota di marmellata di agrumi. Aroma decisamente da bitter inglese. Nessun difetto evidente.
AL PALATO L’ingresso è maltato, di buona intensità. Sfumature che vanno dal miele, al biscotto, fino al caramello, con una punta di caramello molto tostato a media corsa. L’amaro frena giusto in tempo la deriva dolciastra, chiudendo con uno spunto amaricante deciso e puntuale, ritirandosi prima di diventare invadente. Nel retrogusto troviamo ancora frutta (agrumi) e note di nocciola, accompagnati da leggerissimi spunti terrosi. Rotonda, molto beverina ma allo stesso tempo complessa, con una corsa gustativa armonica nella successione dei sapori.
MOUTHFEEL Carbonazione molto bassa, perfetta per lo stile (ovviamente dopo una desaturazione di una decina di minuti). Morbida, avvolgente. Nessuna astringenza né calore alcolico.
IMPRESSIONI GENERALI Senza ombra di dubbio la migliore Bitter che abbia prodotto fino ad oggi. L’imbottigliamento affrettato e la sovracarbonazione rovinano un po’ l’atmosfera quando si stappa e si versa la birra nel bicchiere, ma con un po’ di pazienza si riesce a recuperare. La birra si trasforma, mostrando tutto il suo carattere inglese. Sono contento di aver aumentato un po’ gli IBU e di aver tolto il Roasted Barley. Come già scritto, si può intepretare lo stile in vari modi e con ricette molto diverse tra loro. Questa è la mia personale interpretazione, a cui sono arrivato dopo diverse prove. Il lievito della Lallemand si è comportato molto bene dal punto di vista organolettico. Non so se sarebbe ripartito comunque in bottiglia se avessi imbottigliato dopo, probabilmente no (o comunque non così tanto). A ogni modo la ricetta ci sta, ho già in fermentazione la stessa birra ma stavolta con un lievito liquido: lo Yorkshire della Wyeast. Rimanete sintonizzati! (qui la nuova versione)
Ciao, mouthfeel non è il palato in inglese?
Nella valutazione della birra, volendo essere coerenti e usando sempre l’italiano, potresti mettere gusto dove hai messo palato e palato dove hai messo mouthfeel.
I tuoi articoli sono fortissimi e interessanti, quindi faccio solo per romperti un po’ le scatole…
Beppe
Mouthfeel si traduce come “sensazioni boccali” ma è un termine che non mi piace, quindi uso mouthfeel che lo capisce anche chi sa zero di inglese. “Al palato” sta per flavour che è molto difficile da tradurre con una parola sola in italiano, essendo l’insieme delle sensazioni di gusto e retrolfazione. Tutto qui. 🙂 E grazie per i comolimenti!
Ciao Frank, non ho mai usato il Maris Otter e vorrei sapere a livello gustativo come sarebbe cambiata la tua birra sostituendolo al Pale. Inoltre confermi che a questo lievito gli bastino 15 giorni per completare la fermentazione o è meglio arrivare a 20 giorni? Grazie
Visto come è andata, direi che non confermo per niente 🙂 meglio aspettare e andare sul sicuro. Il Maris Otter dà un contributo biscottato leggermente più intenso, ma non è detto che si percepisca poi così nettamente rispetto al Pale classico.
Ciao, domanda probabilmente banale (non è che abbia così tante produzioni alle spalle)…
[…] con i lieviti inglesi – in 9 casi su 10 – significa birra sovracarbonata.
Qual è mediamente il comportamento degli inglesi? Son sempre arrivato abbastanza direttamente e senza intoppi a FG. Ma le ultime 3 cotte con il classico S-04 mi sono ripartite in bottiglia.
Sarà anche il caldo estivo, ma a sto punto mi viene da pensare che non arrivo davvero a FG e che gli ultimi punti siano molto lenti…
Hai colto esattamente il punto: i lieviti inglesi (con alcune eccezioni) in genere fermentano velocemente nei primi giorni ma poi rallentano molto. Per alcuni (come il ceppo ESB liquido della Fuller’s, il WY1968) è necessario alzare molto velocemente la temperatura (e anche di molto) già al secondo giorno di fermentazione, altrimenti si pianta. In altri casi è bene semplicemente aspettare più tempo prima di imbottigliare. Tenere le bottiglie in frigo appena finita la carbonazione aiuta a evitare sovracarbonazioni, che con il caldo purtroppo sono quasi inevitabili. Mi è capitato diverse volte di acquistare bitter artigianali non filtrate di ottimi birrifici italiani e di trovarle sovracarbonate (può capitare se non sono state conservate bene).
Ciao Frank, dopo aver letto questo post ho pensato di condividere la mia esperienza con questo lievito.
Avevo avuto lo stesso problema sulla FG anni fa con con un altro lievito inglese (Mangrove Jack’s M15) ma volendo comunque provare a brassare una bitter ho fatto un po’ di ricerche.
In effetti nel data sheet del lievito London c’è scritto che non consuma il maltotriosio (come buona parte dei ceppi inglesi), di conseguenza è necessario averne meno possibile nel mosto.
Il consiglio su parecchi forum americani, confermato anche da alcuni paper, è quello di fare mash a temperature relativamente più basse (63 °C) e per più tempo, e sostituire parte del malto con zucchero.
Ho brassato la mia bitter qualche settimana fa con un mash di quasi due ore a 63 gradi e con un 10% di zucchero in ricetta: in quattro giorni la densità è passata da 1044 a 1010, esattamente l’attenuazione prevista da brewfather.
Spero possa servire!
Grazie per il contributo! Ma non capisco a cosa possa servire produrre meno maltotriosio per evitare la ripartenza in bottiglia. Se non lo consuma, non lo consuma nemmeno in bottiglia. Aumentare l’attenuazione di per se’ non mi interessa, anzi, lo trovo controproducente in una bitter che ha bisogno degli zuccheri residui per dare ciccia al palato (basta bilanciare bene con il luppolo). Il problema è che questo lievito ci mette una vita ad arrivare a FG, ma alla fine ci arriva. Produrre meno maltotriosio in questo senso non lo vedo particolarmente utile.