Da quando ho iniziato a fare birra in casa, ho puntato diversi stili come obiettivo da riprodurre per migliorarmi. In alcuni casi, dopo un po’ di lavoro, sono riuscito a trovare la quadra. In altri, ancora no. Sulle basse fermentazioni ho ancora molto da imparare, ma i primi risultati iniziano a vedersi. Questa, se non ricordo male, è la terza Pilsner che metto in produzione. La prima, miracolosamente, non venne male. Ma fu un assaggio di diversi anni fa, possibile che all’epoca non avessi l’esperienza né il palato per valutare il risultato con un minimo di oggettività. Potrei essermi lasciato prendere dall’entusiasmo. Della seconda versione non ho nemmeno parlato nel blog, visto il risultato modesto. Questa è la terza Pilsner, per la prima volta fermentata in keg e servita in due versioni: da fustino, carbonata forzatamente; in bottiglia, rifermentata.
La definisco semplicemente “Pilsner” perché non è né ceca né tedesca, ma una via di mezzo. Del resto, esistono mille sfumature tra questi due estremi stilistici del BJCP. Questa volta mi sono posizionato nel limbo, sfuggendo alle classificazioni. Per comodità ho inserito la Six Pils Under tra le birre della Germania nel menù delle ricette del blog, solamente perché non avevo ancora ricette per questa categoria e da qualche parte la dovevo mettere.
Il nome viene da Six Feet Under, una serie di qualche anno fa che mi catturò per diversi mesi. Acquistai un cofanetto completo con i DVD e me la sparai per settimane, senza riuscire a fermarmi. Nessun legame con la birra, ma il gioco di parole del titolo mi piaceva.
IL MIO APPROCCIO PRODUTTIVO ALLE LAGER
Colgo l’occasione di questo post per snocciolare qualche mia idea sul processo di produzione delle basse fermentazioni, spesso avvolto da un velo di miti, leggende e dogmi intoccabili. Non ho mai gradito l’approccio di chi sostiene che “le Pilsner si fanno così e basta“, “se usi un altro approccio non è una Pilsner“. Certo, serve un lievito a bassa fermentazione (le finte Pilsner ad alta fermentazione dei kit pronti rimangono finte Pilsner, siamo d’accordo), ma si possono ottenere discreti risultati anche se si rifermenta, se non si pratica la decozione, se si utilizzano malti diversi dal Pilsner, luppoli che non siano Saaz, lagerizzazioni brevi e via discorrendo. Starà al nostro palato discernere se abbiamo fatto un buon lavoro oppure no. Non a qualcuno che sbraita su internet senza aver nemmeno assaggiato la nostra birra.
Premetto che non sono un esperto in questo ambito della produzione dal punto di vista pratico. Tra le oltre 110 cotte che ho messo in fermentazione da quando ho iniziato a fare birra in casa, non più di 10 sono state basse fermentazioni. Di queste, ne ricordo solo tre venute discretamente: la mia prima pilsner (fu probabilmente una botta di fortuna), una Hoppy Lager e la Doppelbock, prodotta recentemente. Nessuna di queste tre può essere definita una birra perfettamente riuscita rispetto allo stile di riferimento, ma le ricordo come tre birre piacevoli da bere. Tutte e tre sono state prodotte con il lievito secco W34/70 della Fermentis.
Tuttavia, in questi anni ho studiato e assaggiato molto, quindi qualcosa mi sento di poterlo raccontare. Per chi volesse approfondire, consiglio su tutti questi due libri:
- New Brewing Lager Beer di Greg Noonan, con una impostazione molto classica
- Lager di Dave Carpenter, più recente, moderno e scorrevole.
Ne esistono molti altri – alcuni decisamente più tecnici, altri focalizzati sulla storia – ma questi due a mio avviso danno un quadro esaustivo del processo produttivo, sia inteso in senso classico che declinato secondo un approccio più attuale. Non voglio dilungarmi troppo nei dettagli (lo farò probabilmente un giorno in un post dedicato), anche perché – incredibilmente – non ho cambiato opinione rispetto a quanto scrissi diversi anni fa, quando ero ancora un homebrewer in erba, in questo post. Un articolo che rimane tra i più letti del blog, con oltre 25.000 visualizzazioni da quando è stato scritto nel 2014. Prima di addentrarmi nella ricetta di questa nuova Pilsner, vorrei quindi sviscerare alcuni concetti chiave, secondo me molto importanti.
Pausa diacetile
Si parla tanto della pausa diacetile, ma a molti non è chiaro da dove venga e perché. Per farla breve – brevissima – le basse fermentazioni iniziarono a diffondersi in Germania nel corso del 1500 per diverse ragioni, tra le quali la temperatura di fermentazione giocò un ruolo primario: le basse temperature a cui i lieviti lager riescono a fermentare inibiscono l’azione di molti lieviti e dei batteri, frenando le contaminazioni indesiderate. Questo, all’epoca, era in netto contrasto con quanto avveniva nelle alte fermentazioni, quasi sempre contaminate per via delle temperature di fermentazione più alte e delle poche conoscenze – più che altro empiriche – che si avevano all’epoca su lieviti e fermentazioni. Grazie alla fermentazione con lieviti lager, che avveniva a bassa temperatura (processo che in Baviera potevano permettersi grazie alle grotte scavate nelle montagne), si riducevano di molto le contaminazioni rendendo la birra più piacevole al palato e durevole nel tempo. Le lager difficilmente inacidivano, cosa che accadeva spesso con le alte fermentazioni.
Tuttavia, a bassa temperatura, i lieviti lager lavorano lentamente in tutte le fasi della fermentazione, compresa quella finale, durante la quale riassorbono composti non piacevoli dal punto di vista organolettico, come diacetile (aroma burroso), acetaldeide (mela verde/vernice) ma anche composti solforosi ed esteri. Per arrivare a un prodotto finito di buona qualità, le fermentazioni dovevano necessariamente essere molto lunghe. Alzando la temperatura si sarebbe velocizzato il processo, a discapito di una maggiore produzione di esteri (se l’aumento avveniva nelle prime fasi della fermentazione) ma soprattutto correndo il rischio di far partire le contaminazioni. Quindi: ai tempi delle prime basse fermentazioni non si faceva la pausa diacetile (che prende il nome dal principale composto di cui si velocizza il riassorbimento, ma vale anche per gli altri a cui ho accennato), anche perché non era possibile gestire con agilità variazioni di temperatura, visto che le birre venivano fermentate in grotte scavate nelle colline.
Con il passare degli anni si sono sviluppate tecnologia e conoscenza: abbiamo scoperto che la fermentazione è un processo biologico, sono stati isolati i primi ceppi di lievito, abbiamo scoperto i batteri, messo in commercio prodotti sanitizzanti; sono arrivati i frigoriferi, i sistemi per il controllo della temperatura e via discorrendo. Questa rivoluzione è partita più o meno agli inizi del ‘900. A quel punto molti birrai, specialmente quelli che guidavano grandi birrifici e volevano accelerare il turnover in birrificio, hanno iniziato ad alzare la temperatura di fermentazione delle lager verso la fine, diciamo quando si arriva a 2/3 della fermentazione, per velocizzare il processo di maturazione senza compromettere il profilo organolettico del prodotto (i composti aromatici principali, come esteri e polialcoli, vengono prodotti durante i primi giorni di fermentazione). Pian piano la pausa diacetile è diventata prassi comune. Ancora oggi è così in molti birrifici, artigianali o industriali che siano. In un certo senso rappresenta un segno dei tempi che cambiano e delle conoscenze che aumentano. Se poi si vuole per forza rimanere aggrappati alle antiche tradizioni, nessun problema.
Lagerizzazione, winterizzazione o cold crash?
Anche qui, la confusione regna sovrana. Tendenzialmente, se posso permettermi un azzardo, nell’uso corrente i tre termini sono sinonimi. Si tratta di un passaggio a freddo (più a freddo possibile prima che la birra ghiacci), più o meno lungo (da una settimana a diversi mesi), volto a far depositare i composti solidi per pulire la birra. Questo approccio vale per le alte e per le basse fermentazioni indistintamente, solo che in genere nelle basse lo indichiamo con il termine “lagerizzazione”, mentre nelle alte con “cold crash” o “winterizzazione”. Tutte le birre beneficiano di un cold crash prolungato (15-20 giorni), ma nelle alte fermentazioni spesso i lieviti sono molto flocculanti e quindi il tutto si riduce a 3-7 giorni di freddo, processo che viene sovente indicato come “cold crash“. Sappiate però che non tutti concordano su queste definizioni.
Nel suo dettagliatissimo libro, di impostazione più classica, Noonan inserisce invece la lagerizzazione come prima fase della fermentazione secondaria delle lager, seguita da quelle di fining (chiarificazione) e imbottigliamento. La pausa diacetile non è prevista in questo processo, i composti indesiderati vengono riassorbiti lentamente durante la prima parte della lagerizzazione, con il lievito ancora attivo.
Secondo Noonan, e quindi secondo il metodo classico, il lievito è ancora attivo durante la fase di lagerizzazione, almeno in un primo momento, quando la temperatura viene mantenuta tra 1-5°C. Sempre secondo Noonan, la durata della lagerizzazione dovrebbe essere proporzionale alla densità finale della birra (e quindi, in linea di massima, anche a quella iniziale e al contenuto alcolico). Tuttavia, a un certo punto lo stesso Noonan descrive una sorta di secondo passaggio nella lagerizzazione, portato avanti a temperatura ancora più bassa, anche al di sotto dello zero. In questo ulteriore passaggio il lievito è fermo e la FG è stata raggiunta. Il freddo serve sostanzialmente a far depositare il lievito e finalizzare la precipitazione di proteine, polifenoli e dei composti solforosi eventualmente rimasti in soluzione.
Se si esegue una fermentazione con pausa diacetile, la lagerizzazione si riduce di fatto a un cold crash prolungato. Si può scendere repentinamente con la temperatura quando si raggiunge la FG, ovviamente senza eccedere per evitare stress al lievito (in un normale frigo questo non accade anche se lo si mette al massimo, per via dell’inerzia termica della birra). A questo punto non ci resta che assaggiare la birra di tanto in tanto per valutare tramite vista e palato quando è arrivato il momento di imbottigliare.
Spunding, carbonazione forzata o rifermentazione?
È risaputo che la rifermentazione non giova alle basse fermentazioni. Tuttavia, se mi chiedete di mettere sul tavolo delle motivazioni tecniche precise e circostanziate a supporto di questa affermazione, ammetto di non averne. Tutti concordano su questo aspetto, ma le motivazioni restano vaghe. Quel che è certo è che, quando nella bottiglia avviene una nuova fermentazione, anche se modesta e di breve durata, qualcosa succede. Questo qualcosa si concretizza nella produzione di composti aromatici indesiderati, quali e soprattutto quanti non si sa di preciso. È anche plausibile che l’effetto della rifermentazione sia maggiormente evidente su stili molto delicati, come Helles e Pilsner, meno su stili più muscolosi come Bock e Doppelbock.
Per quanto riguarda invece lo spunding, ovvero la carbonazione con l’anidride carbonica prodotta dalla fermentazione stessa (chiudendo una valvola nel fermentatore) e la carbonazione forzata, ovvero anidride carbonica aggiunta a fine fermentazione da una bombola, le differenze sono – a mio parere – tutte nella testa di chi le sente. Avendo però sempre praticato la seconda, con buoni risultati, non posso pronunciarmi più tanto. E non c’è niente di male nel praticare lo spunding se si dispone dell’attrezzatura, si risparmia anche anidride carbonica.
RICETTA
Poco da dire sulla ricetta di questa pilsner in se’, che è la copia di quella sperimentata per la Kveik Pilsner. Le uniche differenze sono nel lievito, che in questo caso è il W34/70, e nel tipo di malto, che è il Bohemian Pilsner. La luppolatura è la stessa. Abbiamo quindi una base maltata di Czech Pilsner e una luppolatura alla tedesca in cui fa capolino un luppolo sloveno. Né ceca né tedesca, come dicevamo.
Ho impostato una bollitura da 1 ora e mezza, per favorire la coagulazione delle proteine e migliorare la limpidezza, ma anche per accentuare leggermente il profilo maltato grazie alle reazioni di Maillard che avvengono durante la bollitura.
Per quanto riguarda l’acqua, ho usato la Sant’Anna come base, molto povera di minerali, a cui ho aggiunto Gypsum e Cloruro di Calcio fino ad arrivare oltre la soglia delle 50ppm di calcio, importanti per aiutare la chiarificazione della birra. Ho sbilanciato il rapporto solfati/cloruri sui solfati, per accentuare il taglio amaro.
FERMENTAZIONE
Non ho variato molto il profilo di fermentazione rispetto alla mia prima pilsner. Avvio a 9°C e temperatura mantenuta stabile fino a quando l’attenuazione non è arrivata più o meno a 2/3 rispetto alla FG attesa. Dopodiché aumento graduale di temperatura per la pausa diacetile, mantenuta fino a FG. Successivamente discesa rapida (non avevo bisogno di lasciare attivo il lievito) e lagerizzazione a bassa temperatura fino a quando l’assaggio non mi ha restituito una buona limpidezza e una birra pulita e rotonda.
A questo punto 5 litri sono stati trasferiti in contropressione in fusto e carbonati forzatamente, mentre gli altri sono passati in bottiglia, sempre in contropressione con Beergun. Nelle bottiglie ho aggiunto lievito da rifermentazione (F2 delle Fermentis) e soluzione di priming, per poi lasciarle una decina di giorni a temperatura ambiente. Finita la carbonazione, anche le bottiglie sono finite in frigo. Ho puntato a una carbonazione di circa 2.5 volumi.
Esiste un altro metodo di fermentazione, detto Fast Lager, che prevede di alzare la temperatura di fermentazione già da prima e per più volte, gradualmente, ogni volta che la densità arriva a dei valori ben precisi. Sostanzialmente la filosofia del Fast Lager è la stessa del metodo con la pausa diacetile alla fine, ovvero ridurre i tempi di fermentazione senza alterare il profilo organolettico. Con il Fast Lager si risparmia qualche giorno ulteriore di fermentazione, ma lo trovo un metodo applicabile se si ha una misura automatica della densità, altrimenti è un po’ scomodo prelevare tutti quei campioni di birra. Preferisco mantenere stabile la temperatura per qualche giorno, per poi passare direttamente alla pausa diacetile, anche se nel complesso la fermentazione dura qualche giorno in più.
ASSAGGIO
Ho fatto diversi assaggi di questa birra, sia dal fustino che dalle bottiglie. Quello che descrivo oggi è relativo all’ultima bottiglia rimasta, rifermentata, a distanza di un mese dall’imbottigliamento. Dopo la rifermentazione è stata tenuta sempre in frigo. A un assaggio distratto, a bicchiere pieno, le due versioni – rifermentata e non – sembravano veramente identiche. Un test alla cieca, eseguito su tre bicchieri con verifica a triangolo, ha evidenziato invece alcune differenze. Sottilissime, ma sufficienti per distinguere le due versioni a occhi chiusi.
Abbiamo eseguito il test alla cieca, in momenti diversi, sia io che mia moglie. Incredibilmente, abbiamo preferito entrambi la versione rifermentata. Aveva un aroma leggermente più fresco e vivace. Quella nel fustino sembrava un filo più spenta, a tratti si percepiva un leggerissimo sentore di cartone (ma a volerlo proprio trovare). Parliamo di inezie, che a bicchiere pieno scomparivano del tutto. Non posso certo trarre conclusioni di alcun tipo da un singolo test, anche perché il problema potrebbe derivare da qualche errore inconsapevole nell’infustamento (magari è rimasta un po’ di aria nel fustino, nonostante lo abbia riempito di acqua e svuotato con CO2). Ma il confronto è stato interessante.
ASPETTO Entra nel bicchiere con un bel cappello di schiuma pannosa, bianca, a bolle fini e molto persistente. Piuttosto limpida (la versione in bottiglia è leggermente più velata), di un bellissimo colore giallo dorato.
AROMA Intensità medio-bassa, aroma incentrato su tonalità agrumate, soprattutto limone. Emerge qualche spunto floreale che ricorda un campo di margherite, insieme a una venatura erbacea che a tratti si colora di erbe aromatiche (maggiorana). La base maltata fatica ad arrivare al naso; forse si percepisce uno sbuffo leggermente mieloso, ma potrebbe essere suggestione. Nessun difetto, aroma molto pulito e delicato.
AL PALATO Ingresso deciso con una buona intensità. Domina il limone, con un leggero erbaceo in secondo piano. L’amaro entra ben bilanciato ma dura poco, lasciando subito spazio a un finale leggermente dolce per lo stile, con note di cereale e mollica di pane. Una corsa gustativa da Helles, piuttosto che da Pilsner: l’amaro non bilancia perfettamente il residuo dolce e il taglio erbaceo è troppo timido. Dal malto Bohemian mi sarei aspettato qualcosa in più: il suo contributo sembra spiccare nella dolcezza residua, meno nel flavour.
MOUTHFEEL Corpo medio, carbonazione media. Nessuna astringenza.
CONSIDERAZIONI GENERALI Questa Pilsner è la mia prima bassa fermentazione gestita interamente con l’attrezzatura in contropressione. La prima che ho prodotto senza rifermentazione (i 5 litri nel fustino). Complessivamente una birra piacevole, senza dubbio un passo avanti rispetto alle precedenti produzioni. Non sono però ancora arrivato alla birra che ho in mente: manca il taglio erbaceo, il bilanciamento dolce/amaro non è perfetto per una pilsner, il malto è ancora poco incisivo (non che debba esserlo troppo, ma un filo di più). Il mix di luppoli non mi ha convinto appieno: troppo limone, troppo agrume. Nella versione con il Kveik – che aveva la stessa identica luppolatura – era uscito quasi un naso da Blanche. Pensavo fosse dovuto al Kveik, ma probabilmente c’era lo zampino dell’Aurora, luppolo associato spesso a descrittori tipo lime, lemongrass, bergamotto. Dal punto di vista estetico la birra è venuta perfetta, ma nel complesso c’è ancora da lavorare.
Cosa modificherei? Non credo la base maltata, che potrebbe funzionare meglio con una luppolatura diversa. Toglierei l’Aurora, e probabilmente caricherei un po’ di più il luppolo nelle gettate in aroma. Non aumenterei però le IBU, dato che le ultime tre birre prodotte con la stessa busta di pellet Aurora (questa, la Kveik Pilsner e la Kolsch) sono venute tutte meno amare del previsto: temo che la colpa sia proprio di questo lotto di luppolo Aurora che magari aveva meno alfa acidi rispetto a quanto dichiarato sulla busta. La birra è comunque finita presto, segno che si lascia bere con piacere.
Ciao Frank, grazie per questo nuovo articolo; come mi avevi anticipato ha risolto buona parte dei miei dubbi.
Vista la situazione che ti avevo descritto ieri, come la vedi se una volta trasferito il mosto nel fermentatore e inoculato il lievito ci attenessimo, come dire, al metodo degli antichi?
Non avendo pieno controllo delle temperature ma avendo a disposizione una stanza molto fredda, vorrei lasciare il fermentatore al freddo e al gelo per un mese (e anche più) senza alcuna pausa diacetile, travasi e rampe di temperatura.
Pensi sia fattibile? d’altronde se non si ha fretta e il lievito ha tutto il tempo di poltrire e riattivarsi quando gli pare, sarebbe un po’ come riprodurre la lagerizzazione nelle “grotte” degli antichi, no?
Grazie sempre per la disponibilità!
L’idea ci sta, ma il rischio che vedo è la gestione del lievito. I processi di un tempo si affinavano con prove e prove, e successiva selezione del lievito che si adattava a lavorare a determinate temperature. Ora, per fare un esempio, non so se il W34/70 sia in grado di lavorare e 6°C senza stress o intoppi della fermentazione. non fare la pausa diacetile ci sta, ma farei attenzione a non far scendere la temperatura sotto i 9-10°C.
ops! questa non ci voleva…
avevo capito che qualsiasi lievito lager fosse in grado di mantenersi attivo a bassissime temperature (la tumultuosa avverrebbe comunque intorno sopra i 10°)
L’idea era:
– 4/5 giorni intorno ai 10°-12° dopo l’inoculo del lievito
– niente pausa diacetile (non abbiamo fretta)
– trasferimento in stanza fredda per oltre un mese (senza travaso)
leggendo anche il tuo post “sono stato azzurro di sci” mi ero persuaso che la procedura non fosse perfetta ma potesse andare bene 🙁
Se estendi la prima fase a 10 giorni, potrebbe funzionare. Ma non garantisco. 🙂
Ciao Frank ottimo articolo come sempre.
Volevo solo consigliarti di utilizzare carahell piuttosto che il Munich. Per esperienza posso dirti che quest’ultimo personalmente l’ho trovato invadente in una base maltata per pils.
Grazie del consiglio, ma a me il munich non dispiace affatto in questa percentuale. Non lo trovo affatto invadente, anzi.
Ciao Frank, complimenti per l’articolo che ho letto con molto interesse, anche perché da poco sto iniziando ad approcciarmi al mondo delle lager.
Avevo letto che nelle basse fermentazioni le variazioni di temperatura, verso la pausa diacetile e poi verso la lagherizzazione, vanno fatte molto gradualmente (1 °C/d). Vedendo che tu non hai seguito questo approccio, mi chiedo se pensi sia evitabile (visto che tira via parecchio tempo…). Grazie in anticipo per la risposta.
Per quanto riguarda la lagerizzazione, la risposta è nel post nel paragrafo dedicato alla lagerizzazione. 🙂 Riassumendo: si fa lenta se vuoi far lavorare il lievito durante la lagerizzazione, altrimenti non c’è problema. Troppo veloce potrebbe stressare il lievito, ma per troppo veloce a mio avviso si intende tipo “abbattimento”. Con un normale frigo non si va in genere così veloci. Per quanto riguarda la pausa diacetile, la salita l’ho fatta gradualmente, variano di 1-max 2°C al giorno.
Faccio lager (e birra) da moltissimi anni e seguendo i vari blog, forum chi si approccia allo stile è sempre terrorizzato dal diacetile che fa da padrone nelle discussioni. A livello di HB mi sembra un falso problema, che riguardi più che altro i megabirrifici le cui necessità di liberare i maturatori in fretta impongono regimi di variazione di temperatura che scoraggiano i neofiti allo stile.
Posto che tu abbia inoculato una quantità sufficiente di lievito e in buona salute, e lasci lagerizzare abbastanza a lungo (6-8 settimane) è davvero un problema che non si pone.
L’unica volta che l’ho sentito nella mia birra è stato quando ho usato del 34/70, poi sono tornato dal mio fido Bohemian 2124 e più mi sono mosso. Il mio processo di produzione(non ho controllo della temperatura) consiste nella fermentazione in una stanza fredda in inverno, imbottigliamento con spunding, lagerizzazione nel giardino di casa in un angolo all’ombra e coperto con teli. La temperatura la lasciamo a madre natura! 😉
Capita il diacetile anche a livello hb, e comunque velocizzare un po’ aiuta sempre. Anche noi hb (tu sei fortunato a vivere al freddo! 🙂 ) abbiamo problemi di occupazione delle camere di fermentazione.
Che ne pensi Frank?
Tra un paio di settimane apro il fusto e assaggio…
cosa mi aspetta? 😉
Pilsner (New Zealand)
Batch Size 25 L
OG 1.055
FG 1.014
Boil Time 75 mins
IBU 45.3
Colour (EBC) 7.3
ABV 5.44%
Fermentables
Premium Pilsner Malt (84%) Munich I (8%)
Acidulated (6%)
Rice Hulls (2%)
Mash Temp
51 °C 10 min.
66 °C 30 min.
72 °C 30 min.
77 °C 10 min.
Hops
Chinook 60 min. (IBU: 34.1)
Mosaic 15 min. (IBU: 11.1)
Mosaic dry hop 3 g/L 4 days
Yeast SafLager WB 34/70
Fermentation Steps
10 °C 12 °C 15 °C (dry hop) 14 °C 13 °C 12 °C 11 °C 10 °C 2 °C
Il Ph di mash basso (4,9-5,0-5,1 a 10/15/20 min) che non ho corretto, ha contribuito secondo me al mash sbilanciato sulle Alfa amilasi e quindi dell’FG un po’ alta (ma che potrebbe non essere un male).
Ph breboil 5,1
Fermentazione 25 giorni Lagherizzazione 28 giorni
Parte infustata e parte Imbottigliata con 6g/L destrosio e lievito F2
Perché quegli step? Con 30 minuti a 66°C converti solo parzialmente gli amidi con le beta, passando poi alla temperatura delle alfa estrai zuccheri complessi. Con quei tempi non puoi nemmeno sapere quanto lavori effettivamente l’una e quanto l’altra. Perché questo doppio step? Così la FG diventa imprevedibile a mio avviso. Inutile che ti dica che il protein rest con quei malti non serva a nulla, se non potenzialmente a ossidare a caldo e rovinare la schiuma 🙂
Ho cercato il doppio step proprio per controllare le beta e privilegiate le alfa per avere un po’ più di zuccheri complessi e bilanciare l’uso aggressivo del luppolo.
Ho pensato di equilibrarla così, con step da Bock più che da Pilsner.
Sul protein hai ragione, ma ormai è un’abitudine quando uso i certo malti. Brutta abitudine dici?
Puoi ottenere lo stesso scopo con una singola temperatura di mash intermedia, tipo 66 o 67°C. Non vedo proprio la necessità del doppio step. Per me il protein è inutile se non deleterio con quei malti, non vedo perché farlo. Tieni conto che a temperatura al di sotto dei 65°C sono attive le lipossidasi (LOX) degli enzimi che promuovono l’ossidazione a caldo che potrebbe dare problemi nel lungo periodo. Perché rischiare se non serve? Inoltre, degradi inutilmente proteine a catena medio lunga che potrebbero aiutare la schiuma.
Si in effetti hai ragione, il protein devo scordarmelo proprio se uso solo malto d’orzo.
Sul mash invece qualche dubbio mi rimane, son convinto che ho maggior controllo dividendo gli step e giocando sui minuti. Certo a leggerlo così (30+30) sembra una roba messa lì a caso.
Il mio ragionamento si basa su una velocità di lavoro della beta molto più lenta delle alfa, in questo caso sfavorita anche dal ph basso e da mash diluito. Quei 30 min a 66 avevano l’obbiettivo di chiudere le beta con relativamente pochi zuccheri semplici.
Cosa che ottengo con step unico a 67/68? Forse si, ma mi sentivo più sicuro così…
Mi intrometto in questa discussione sugli step del mash perchè anche io mi sono trovato bene con 2 step a 65 e 71 gradi per 30 minuti cadauno. Usando il GrainFather spesso mi risultavano birre con poco corpo e con questo mash a 2 step (di facilissima gestione, visto che basta impostare temperature e tempi ed è automatico) ho ottenuto birre con più corpo. Frank, perchè dici che la FG diventa imprevedibile con 2 step?
Come fai a sapere quanto ha convertito la beta amilasi in 30 minuti? E quanto poi convertirà la alfa?
Dalle prove che ho fatto ottengo un FG più alto da 2 a 4 punti, non di più. Per capire se la fermentazione è finita aspetto che il Tilt sia fermo per almeno 3 giorni durante i quali alzo la temperatura di un paio di gradi per essere sicuro. Quando rifermento in bottiglia uso destrosio al limite inferiore del range previsto dallo stile e lievito neutro e ottengo una carbonazione media.
Ma secondo te questo approccio può fare la differenza?
Sinceramente mi sembra di aver migliorato un pò il corpo. Poi magari potrei ottenere lo stesso risultato con lieviti liquidi meno attenuanti o maggior attenzione ai malti. Volevo solo dire che i 2 step del mash un qualche effetto ce l’hanno.
Il corpo lo puoi aumentare anche semplicemente facendo mash più alto. Non vedo necessità di fare doppio step per aumentare il corpo.
Intendi mash tutto a 68, 69 gradi? Ma gli enzimi della betaamilasi non lavorano bene fino a 65?
Lavorano fino a 68-69°C, ovviamente con meno intensità e per meno tempo man mano che si sale. Per questo dico che si può facilmente controllare il mix tra zuccheri semplici e complessi con un solo step. Se l’obiettivo è aumentare il corpo (che poi dipende solo in minima parte dalla FG), di può semplicemente alzare la temperatura di mash.
Mi intrometto nella discussione, per confermare quanto detto da Krank, premetto che le mie precedenti esperienze sono state gestite sempre con unico step 66/67°, porto ad esempio la mia ultima bassa fermentazione, si tratta di una vienna-lager sulla quale ho provato il doppio step 64°/40min e 69°/20min, ho chiuso la fermentazione 3 punti più alti dal range del lievito 34/70.
Mi chiedevo come mai, ma ho trovato la risposta in questa discussione.
Ciao Frank, a che temperatura hai imbottigliato con la beergun? Io di solito per le birre ad alta fermentazione ho sempre rialzato la temperatura dopo il cold crash, anche per favorire la formazione della schiuma nel collo della bottiglia. Ci sono problemi a seguire questa procedura per una bassa fermentazione? Inoltre dovrò rifermentare con il cbc della Lallemand, lo inserisco contestualmente alla soluzione di priming nelle bottiglie prima di procedere al riempimento? Non vedo soluzioni alternative per evitare di far svanire la schiuma nel collo della bottiglia al momento di tappare.
Grazie
Se devi rifermentare la temperatura devi alzarla comunque durante la rifermentazione, quindi tanto vale farlo all’imbottigliamento così faciliti la formazione di schiuma e oltretutto il lievito parte anche prima. Sì, io metto prima zucchero, poi lievito in tutte le bottiglie e poi imbottiglio.