Penso che siamo tutti d’accordo nel ritenere le attività di imbottigliamento tra le più noiose al mondo. Dopo l’emozione della prima volta nel vedere la birra passare dal fermentatore in plastica al vetro delle bottiglie, la magia ben presto si esaurisce per lasciare spazio a una noia mortale. Sanitizzare le bottiglie, riempirle lentamente una a una, tapparle e riporle sono attività che qualsiasi homebrewer eviterebbe volentieri.

Una delle ragioni per cui ho scelto di passare a piccole produzioni da 12 litri è proprio ridurre gli ingombri e i tempi necessari per l’imbottigliamento: meno birra prodotta significa meno bottiglie vuote da tenere sugli scaffali, meno tempo per trasferire la birra dal fermentatore alle bottiglie, meno bottiglie da tappare e meno bottiglie piene da tenere in frigo. E sì, perché la maggior parte degli stili si conserva meglio in frigorifero, idealmente a 2-5°C, piuttosto che sugli scaffali a temperatura ambiente. A Roma, poi, da Maggio a Settembre – almeno – la temperatura media in casa non scende al di sotto dei 25°C, condizioni ambientali che obbligano a spostare per qualche mese nel frigo anche le birre a lunga maturazione, idealmente a una temperatura di 15°C. Con gli anni sono arrivato a due frigoriferi per la birra più uno di casa in cui a volte tengo qualche bottiglia, non potevo andare oltre.

La contropressione (o isobarico, che dir si voglia: ci siamo capiti) aiuta molto in questo senso, grazie ai fusti. Alcuni homebrewer, una volta passati alla contropressione, eliminano completamente il confezionamento della birra in bottiglia. Un passaggio un po’ estremo per me, perché alla fine le bottiglie possono servire per tante ragioni: spedire la birra a un amico, spedirla a un concorso, lasciarla maturare più a lungo potendo ogni tanto aprire una sola bottiglia alla volta per valutarne l’evoluzione. Inoltre, anche se produco 10-12 litri per cotta, mi risulta difficile consumare un intero fusto da 10 litri in tempi decenti. Sia perché non è salutare tenere certi ritmi di bevuta, sia perché mi annoierei a morte a bere la stessa birra per settimane senza poter assaggiare altro, solamente perché devo finire il fusto.

Esistono tuttavia degli approcci ibridi che permettono di gestire facilmente fusti e bottiglie secondo necessità, preservando la qualità della birra nel tempo, riducendo i tempi di imbottigliamento rispetto al classico metodo a caduta dal fermentatore in plastica. Quando ho iniziato a valutare il passaggio alla contropressione non ci credevo. Dai video che giravano online mi sembrava tutto estremamente complicato e scomodo: tubi, tubicini, altre cose da sanitizzare, bombole di CO2, pompe per il vuoto, mille manopole da girare per riempire una singola bottiglia. Dopo un anno di contropressione, invece, e dopo aver provato diversi approcci all’imbottigliamento, posso dire con serenità di aver semplificato la fase di imbottigliamento: meno bottiglie da gestire, processo più veloce, ingombro complessivo dell’attrezzatura più o meno uguale (a parte la bombola di CO2 che prima non c’era), grande felicità.

RIFERMENTARE O NON RIFERMENTARE?

Domanda da un milione di dollari. La mia risposta è – prevedibilmente – “dipende”. Non solo dallo stile di birra che si va a imbottigliare, anche da fattori pratici. Per mia esperienza personale, avvicinarsi alla contropressione continuando a rifermentare è un approccio sicuro che garantisce un buon risultato senza troppi sbattimenti. La rifermentazione protegge significativamente dall’ossidazione in bottiglia, eliminarla di punto in bianco quando si passa alla contropressione potrebbe creare più problemi che altro. Inoltre, imbottigliare birra non carbonata è molto più semplice: per molti versi il processo è identico al classico imbottigliamento con asta da travaso a caduta, solo che la birra viene spinta fuori dal fermentatore tramite una piccola pressione di CO2 e al posto dell’asta da travaso in plastica se ne usa una – molto simile – in acciaio inox con due vie: una per la birra e l’altra per sparare CO2 nella bottiglia in modo da buttare fuori quanta più aria possibile. Non serve desaturare completamente la bottiglia dall’aria, dato che la rifermentazione ci protegge – non completamente, ma in buona parte – dall’ossidazione.

Quali stili rifermentare?

Il tema è molto dibattuto, con argomentazioni molto spesso legate a impressioni ed esperienze, frequentemente polarizzate da un forte condizionamento personale. La prassi consolidata ci dice che le basse fermentazioni e le birre luppolate in genere risentono negativamente della rifermentazione, mentre stili inglesi, belgi o birre molto acoliche ne beneficiano. Le motivazioni tecniche dietro a questa scuola di pensiero non sono chiarissime, o almeno non lo sono per me (se trovate materiale scientifico a riguardo sarei felice di leggerlo).

Da un lato, rifermentare porta più lievito sul fondo della bottiglia, intorbidendo la birra se non si fa attenzione a come la si versa dalla bottiglia nel bicchiere. Questo è vero soprattutto per le basse fermentazioni, che spesso necessitano di aggiunta di lievito in fase di imbottigliamento per facilitare la rifermentazione. È davvero un peccato andare a “sporcare” nuovamente la birra dopo aver atteso un mese o più di lagerizzazione proprio per renderla limpida. Su questo non ci piove. Ma siamo tendenzialmente nell’ambito dei problemi “visivi”, importanti fino a un certo punto quando si beve una birra. Con un po’ di attenzione quando la si versa, la birra può rimanere piuttosto limpida. Insomma, un problema relativo.

Molti sostengono che la rifermentazione vada a modificare significativamente il profilo organolettico della birra, specialmente nelle basse fermentazioni. Questo è un punto molto dibattuto, su cui ci si accapiglia basandosi su impressioni personali o sul presunto rispetto di tradizioni birrarie (del tipo “si fa così punto e basta”). Si discute anche del contrario: c’è chi sostiene che Tripel e Saison debbano essere necessariamente rifermentate per esprimere al meglio il profilo organolettico classico dello stile. Oppure che le luppolate perdano intensità aromatica con la rifermentazione. Le ragioni tecniche per cui questi fenomeni avvengono non sono tuttavia chiarissime. È indubbio che la rifermentazione, essendo di fatto una fermentazione su piccola scala, possa dar vita a tutti quei fenomeni fermentativi che ben conosciamo: produzione di composti secondari (alcol, esteri, fenoli ma anche potenziali difetti come acetaldeide, diacetile, polialcoli) oppure rimozione parziale di alcuni composti aromatici del luppolo (per biotrasformazione o trascinamento sul fondo della bottiglia insieme alle cellule di lievito). Sul fatto che accadano non c’è dubbio, ma quanto ciò possa influire sul profilo organolettico del prodotto finito, è difficile dirlo. Il tema rimane controverso. A mio avviso, un approccio ragionevole è provare, assaggiare e farsi un’idea di quello che c’è nel bicchiere, senza lasciarsi condizionare a priori. Ho avuto delle sorprese seguendo questo approccio, sia in un senso che nell’altro.

Non dimentichiamoci poi che la rifermentazione in bottiglia, in alcuni casi, facilita la gestione della carbonazione. Stili con bollicina esuberante come Weizen, Tripel, Saison sono molto più semplici da gestire in bottiglia. Quando ci si avvicina ai 3 volumi (o oltre) di anidride carbonica disciolta nella birra, le pressioni in gioco iniziano a diventare impegnative. Far uscire la birra dal fusto con 20 psi e oltre di pressione applicata, senza produrre una montagna di schiuma, non è semplice. Serve una progettazione razionale dell’impianto con una linea sufficientemente lunga e una pressione di spinta adeguata. L’esperienza di bevuta dalla bottiglia è più immediata e la carbonazione più semplice da raggiungere.

Imbottigliare birra già carbonata

Imbottigliare birra già carbonata ha ovviamente i suoi vantaggi. Oltre al potenziale impatto sul profilo organolettico – controverso, almeno in alcuni casi – e sulla limpidezza (di cui abbiamo già discusso), ci sono aspetti pratici non secondari. In primo luogo, non si interrompe la catena del freddo. Questo può avere un impatto importante sulle basse fermentazioni più delicate (Pilsner, Helles e simili) e sulle birre luppolate. Quando si rifermenta in bottiglia, la birra subisce sbalzi di temperatura, passando dalla temperatura di fermentazione a quella del cold crash (o lagerizzazione), poi nuovamente a quella di fermentazione, poi a quella del frigo. Questi sbalzi, anche se gestiti con attenzione, non sono sicuramente benèfici per la birra. Saltando la fase di rifermentazione, la birra rimane sempre al fresco. Aspetto da non sottovalutare.

Se si salta la rifermentazione, la birra è pronta da bere in un tempo minore. Questo può essere vero in molti casi, ma dipende dal modo in cui si introduce anidride carbonica nella birra. A ogni modo, non lo ritengo un aspetto particolarmente importante anche perché qualsiasi birra, dopo la carbonazione, beneficia di qualche giorno di “riposo” per assestarsi (specialmente se l’anidride carbonica viene introdotta forzatamente). Si può assaggiare prima, quello sì, ma non è che sia la svolta definitiva. Sebbene osannato da molti, secondo me è un beneficio secondario.

Ben più importante è invece un altro aspetto: si può imbottigliare dal fusto quando e quanto si vuole. Inizialmente avevo sottovalutato questo beneficio, ma a un certo punto ho realizzato che si trattava della vera svolta. Grazie ai sistemi di imbottigliamento ad oggi disponibili (pistola cinese, iTap) di cui parlerò nel dettaglio in un altro post, il trasferimento da fusto a bottiglia è diventato abbastanza semplice. Si può tenere la birra nel fusto finché la si riesce a bere, poi si collegano un paio di tubi e si trasferisce la birra rimasta in bottiglia. Con iTap è ancora più semplice, potendo usare lo stesso rubinetto per la spillatura e l’imbottigliamento, inserendo un adattatore sul beccuccio. Ma anche con la pistola cinese, una volta presa la mano, le operazioni non sono poi così complicate. Si possono ad esempio riempire un po’ di bottiglie e lasciare la birra rimanente nel fusto, per continuare a berla finché non finisce.

Insomma, ho scoperto che con un sistema di imbottigliamento di birra già carbonata, una volta che si prende la mano, si raggiunge una maggiore flessibilità e addirittura si possono ridurre i tempi di imbottigliamento. Per me non era così ovvio, magari per altri lo è. Non esiste più “la giornata dell’imbottigliamento” da pianificare in anticipo, si imbottiglia quando si ha tempo. Se i volumi in gioco sono pochi, come nel mio caso, tutto diventa più semplice. L’ultima volta non ho nemmeno sanitizzato le bottiglie (eresia!), tanto si trattava di poca birra tenuta sempre nel frigo. Le bottiglie che uso sono super pulite (le sciacquo subito a mano dopo aver consumato la birra e poi le passo in lavastoviglie con il classico ciclo di lavaggio), la birra rimane sempre nel frigo, i rischi di contaminazione sono minimi se non inesistenti.

Insomma, al di là dei benefici organolettici, che possono variare in entità da stile a stile, diventando a mio avviso trascurabili in molti casi, l’imbottigliamento di birra già carbonata mi ha semplificato la vita. Non pensavo lo avrei mai scritto, ma devo constatare che è così.

Questo non significa che non rifermenterò più, anzi. Al momento ho la Beergun Blichmann, utilissima per imbottigliare birra non carbonata (molto meno per la birra già carbonata); una pistola cinese a tre vie (come questa o questa) per imbottigliare birra già carbonata (senza pompa da vuoto, ma di questo parleremo in seguito); un iTap in arrivo, per provare anche questa terza strada. Alcuni stili continuo a rifermentarli, ma non escludo di fare qualche tentativo di carbonazione forzata in futuro anche con Bitter o Stout. Certo, all’inizio si spende un po’ per i fusti, ma c’è da considerare che durano a vita (a differenza delle bottiglie e dei fermentatori in plastica). Grazie alla Beergun ho fatto pratica con bombole e trasferimenti in contropressione con rifermentazione prima di trasferire birra già carbonata, il che mi ha aiutato a gestire i primi errori (che ci sono stati) senza rovinare la birra. Al primo tentativo con la pistola cinese, sono riuscito a imbottigliare birra carbonata senza nessun intoppo.

ORA SEI DIVENTATO UN MANIACO DELLA CONTROPRESSIONE?

No, tranquilli. Non voglio convincere nessuno a passare al “lato oscuro”. Non penso nemmeno – in alcun modo – che sia l’unica strada per produrre buona birra in casa (per ora, la mia migliore Pilsner l’ho prodotta rifermentandola). Ci tenevo solo a evidenziare alcuni vantaggi pratici, per me inattesi, ai quali troppo spesso non si dà la giusta importanza. Ci si focalizza sulla riduzione dell’ossidazione (tutta da dimostrare in molti casi, specialmente se il processo isobarico non viene gestito in modo ottimale e con la giusta attenzione), mentre i notevoli vantaggi pratici passano spesso in secondo piano, o vengono ridotti a un banale “metto la birra in fusto e non faccio più bottiglie“, strada non praticabile da chi non ha voglia di bere per due mesi la stessa birra autoprodotta e non fa grigliate con gli amici in continuazione.

Alla fine dei conti, anche senza mettere in piedi complicati sistemi automatici (che aiutano, eh, ma si può vivere senza), i vantaggi pratici sono significativi. E la soddisfazione di avere alla fine un rubinetto sul frigo della cucina per spillare la propria birra da un fustino da 5 litri tenuto al fresco… be’, è indescrivibile. Cheers!

 

6 COMMENTS

  1. Ottimo post! Ti leggo sempre con molto interesse!
    Qualcuno però dovrebbe spiegarmi come imbottigliare la birra già carbonata. Ho provato con la pistola cinese, ma il risultato è stato un’ingente perdita di schiuma dallo sfiato e delle bottiglie riempite per 3/4 con birra sgasata!
    Appena entra nella bottiglia la birra fa un sacco di schiuma. Succede anche a te? 😉

    • No, a me è filato tutto estremamente liscio. In un prossimo post ne parlerò, ma comunque trovi tanti video su yuotube a tema.

  2. Ciao,
    sempre post interessanti, grazie mille.
    Volevo fare una domanda veloce senza troppi giri di parole, con la premessa che il processo di travaso e tutto quello che concerne sia fatto a regola d’arte; un fusto non vuoto, diciamo a metà o 3/4, puo’ creare problemi alla birra? Mi spiego meglio, se ho un fusto pieno e lo spillo fino a 3/4 in una settimana, e poi lo lascio li diciamo 4/5 giorni puo’ influire sulla qualità della birra? Perchè se lo riempio a metà o 3/4 e lo lascio li suppongo che non ci siano problemi. Ma se inizio la spillarlo non cambiano le cose? Grazie

    • Non dà grandi problemi, in genere. L’unico rischio è che nella CO2 della bombola ci sia un minimo di impurità (tra cui ossigeno) che potrebbe nel lungo periodo alterare il gusto della birra. Ma in genere, se è chiuso bene, non si dovrebbero verificare effetti particolari.

  3. Buongiorno, complimenti per il post! Molto molto interessante! Una domanda: per quanto tempo si conserva la birra nel fusto una volta che iniziamo a spillare? Che esperienze hai naturato in merito? Grazie per la risposta!

    • Dipende molto dal tipo di birra e da diversi fattori: fondamentalmente il problema credo sia l’ossigeno che entra, sia come impurità dalla bombola, sia dagli attacchi e dai tubi che magari non sono perfettamente saturati con CO2 all’inizio. In ogni modo, ho tenuto birre anche un paio di settimane senza grandi problemi. Poi non è che diventano imbevibili da un giorno all’altro, il processo è lento e continuo, ma per molto tempo si possoon bere tranquillamente anche se non mantengono esattamente le caratteristiche organolettiche di quando sono state spillate per la prima volta.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here