Ricordo ancora distintamente, diversi anni fa, il giorno in cui mi consegnarono il nuovo frigorifero da dedicare alla birra. Era circa un annetto che producevo in casa. Qualche cotta nel box di un mio amico dove avevamo già un frigorifero, molte altre a casa da solo, dove mi ero costruito una camera di fermentazione per mantenere le temperature a valori ragionevoli anche in piena estate. L’arrivo del frigorifero apriva nuove possibilità: potevo finalmente gestire le basse fermentazioni, ma soprattutto condurre il famoso cold crash a fine fermentazione. La speranza, poi rivelatasi in parte infondata, era quella di ottenere sempre birre limpidissime. Non che la pulizia visiva non fosse già soddisfacente, ma ero comunque alla ricerca di una maggiore costanza.

A COSA SERVE ESATTAMENTE IL COLD CRASH?   

La domanda può sembrare banale, ma apre a diverse riflessioni. Cold crash è traducibile più o meno come abbattimento di temperature a freddo. Consiste nel portare la birra a bassa temperatura, idealmente vicino agli 0°C o addirittura sotto lo zero (la birra contiene alcol, quindi inizia a ghiacciare da un paio di gradi sotto lo zero). Nel sostantivo “crash” è insito un assunto molto importante: la temperatura viene fatta scendere repentinamente nel giro di qualche ora. Questo perché non ci interessa che il lievito sia ancora attivo quando la birra arriva intorno agli zero gradi dato che il cold crash parte dopo la fine della fermentazione. Il suo scopo principale è rimuovere la maggiore quantità possibile di particelle solide che sono rimaste in sospensione nella birra. Può trattarsi di granelli di luppolo (specialmente quando vengono utilizzati i pellet), ma anche residui di lievito, proteine, polifenoli. Il fatto che il lievito sia dormiente durante la fase di cold crash non ci interessa.

COSA HA DI DIVERSO DALLA LAGERIZZAZIONE?

In genere un cold crash si protrae per pochi giorni, mentre una lagerizzazione ne dura molti di più. Abbiamo tutti in mente il classico mese di lagerizzazione che deve “subire” una Pilsner per arrivare al giusto livello di maturazione e limpidezza. In realtà, riflettendoci un poco, nel nome “cold crash” non necessariamente si danno indicazioni sull’intervallo di tempo in cui la birra deve rimanere al freddo. Come già detto, il termine “crash” si riferisce più che altro al modo in cui la birra viene condotta a bassa temperatura, ovvero velocemente. È questa probabilmente la principale differenza tra una lagerizzazione, intesa in senso “classico”, e il cold crash. Oltre alla già citata assenza di attività del lievito durante la fase a freddo.

Nelle lagerizzazioni “tradizionali”, la fase a freddo viene condotta con il lievito ancora attivo a temperatura non estremamente bassa.  Greg Noonan, nel suo libro New Brewing Lager Beer, illustra nel dettaglio questo processo che non prevede alcuna pausa diacetile (il famoso diacetyl rest). Con questo approccio si inizia a ridurre la temperatura quando la fermentazione è arrivata più o meno a metà. Per evitare che il lievito si blocchi, si deve far attenzione a ridurre gradualmente la temperatura – il famoso grado centigrado al giorno – per accompagnare il lievito alle basse temperature di lagerizzazione evitando che si addormenti, visto che dovrà ancora mangiare punti di densità durante il periodo a freddo.

Con questo approccio i tempi di fermentazione complessivi si allungano, dato che il lievito lavorerà ancora più lentamente quando la temperatura arriverà stabilmente intorno ai 4-5°C. In questa fase, chiamata appunto lagerizzazione, il lievito, mentre consuma gli ultimi zuccheri residui, si occuperà anche di ripulire la birra dagli aromi indesiderati come acetaldeide (aroma di mela verde), diacetile (burro) o composti solforosi (uova marce, cerino appena acceso). Il freddo favorirà comunque il deposito delle sostanze solide e infine anche del lievito stesso man mano che la sua attività si esaurisce, ma i tempi complessivi saranno probabilmente più lunghi.

Dovrebbero essere quindi questi i tratti che caratterizzano una vera e propria lagerizzazione e che la rendono fondamentalmente diversa dal col crash: velocità di abbattimento (lenta), temperatura (in genere più alta di qualche grado rispetto al cold crash) e attività del lievito durante la fase a freddo. La durata, invece, può essere varaibile in relazione a quello che si vuole ottenere. Tuttavia, se un cold crash può durare anche pochi giorni (con scarsa efficaciam però), una lagerizzazione con lievito ancora attivo difficilmente si esaurisce nel giro di qualche giorno.

Di fatto ormai chiamiamo spesso lagerizzazione un cold crash prolungato applicato a una bassa fermentazione. Ma se il lievito non lavora (e raramente lavora se passiamo dalla pausa diacetile a una lagerizzazione a 0°C), il termine lagerizzazione non ha a mio avviso un’accezione particolarmente diversa da quella di cold crash.

La riduzione graduale della temperatura dalla fermentazione alla lagerizzazione servirebbe anche per non indurre stress nel lievito. Cellule stressate potrebbero rilasciare composti indesiderati nel mosto se la temperatura cambiasse troppo repentinamente. Leggendo nel manuale di Goldammer, in realtà sembrerebbe che questi composti siano dovuti principalmente al mancato riassorbimento da parte del lievito di alcuni sottoprodotti della fermentazione (come i composti solforosi) piuttosto che a una vera e propria “espulsione” dalle cellule di lievito raffreddate troppo velocemente. Goldammer cita anche l’autolisi, ma dubito che con le modalità di raffreddamento casalinghe (frigorifero) si possano mandare le cellule in autolisi durante l’abbattimento di temperatura. A me non è mai capitato.

QUANTO DEVE DURARE UN  COLD CRASH?

Citavo a inizio post l’arrivo del mio primo frigorifero, nel quale ho praticato i primi abbattimenti di temperatura, nella speranza di ottenere birre limpidissime in pochi giorni grazie all’effetto del freddo.

Passato l’entusiasmo iniziale, con il tempo ho realizzato che non funziona esattamente così. O meglio: non funziona così nella maggior parte dei casi. Me ne sono reso conto da quando ho acquistato un ulteriore frigorifero dedicato completamente alla birra, dove mi “dimentico” per alcune settimane i fustini. Faccio sempre il cold crash di almeno 3-4 giorni a fine fermentazione, prima di spostare la birra nel fustino più piccolo da 10 litri (da cui poi imbottiglio oppure servo direttamente la birra), ma nella stragrande maggioranza dei casi al momento del travaso la birra è ancora piuttosto velata (quando va bene).

Ci sono casi in cui la birra esce limpida dopo qualche giorno di cold crash a fine fermentazione, ma è l’eccezione piuttosto che la regola. Situazione generalmente opposta quando spillo (o imbottiglio) la birra dopo almeno altri 10-15 giorni di frigorifero. In questo caso l’eccezione è avere birra ancora pesantemente opalescente (capita, ma non così di frequente), mentre nella maggior parte dei casi la birra esce piuttosto limpida dal fustino.

Anche con lieviti più flocculanti, come quelli inglesi, la limpidezza migliora solamente dopo una quindicina di giorni di freddo. E questo indipendentemente dall’utilizzo o meno di chiarificanti. Nella prima foto qui sotto, la mia ultima Irish Red Ale con l’aggiunta di colla di pesce prima del cold crash; nella seconda foto, invece, una Blonde Ale, fermentata sempre con lo stesso lievito inglese (il London della Lallemand), stavolta senza aggiunta di colla di pesce. Entrambe le birre erano piuttosto velate dopo il cold crash di qualche giorno (la prima era torbidissima), ma sono diventate così dopo un cold crash prolungato (per la prima ci è voluto addirittura un mese, nonostante la colla di pesce).

Anche con un lievito belga come il Trappist High Gravity, con flocculazione media, dopo una decina di giorni di cold crash ho trovato la birra molto più limpida rispetto ai primi giorni. Anche in questo caso, se avessi imbottigliato dopo il classico cold crash di due-tre giorni, non avrei ottenuto questi risultati.

QUINDI? SERVE O NON SERVE?

Come abbiamo ampiamente discusso con Daniele in una puntata di MashOut! Podcast dedicata a questo tema, la limpidezza finale della birra dipende da una moltitudine di fattori: la stagionalità dei malti, che possono contenere diversi livelli di proteine e beta-glucani a seconda del raccolto, la grana della macinatura, l’efficienza della filtrazione durante ammostamento e sparge, il pH di bollitura, il trub che rimane in pentola dopo il trasferimento del mosto nel fermentatore, il tipo di lievito, la quantità di luppolo in dry-hopping e molto, molto altro. Impossibile controllare tutto. Più che altro è assai arduo ricondurre la torbidità di una specifica cotta a uno solo di questi fattori. C’è chi si convince che la birra sia venuta torbida perché si è dimenticato di aggiungere il Protafloc o l’Irish Moss a fine bollitura, ma raramente la motivazione della torbidità è riconducibile a una singola azione. Molto più spesso è dovuta a una concomitanza di cause, ma se il processo nel suo insieme è ben gestito, si risolve con un abbattimento di temperatura a fine fermentazione.

Quello che però mi sento di affermare con una certa convinzione è che raramente un cold crash di 3 giorni risolve la situazione. Sicuramente aiuta a rimuovere le particelle più grandi, come i pezzettini di luppolo, ma per una maggiore limpidezza servono diversi giorni in più e una buona gestione del processo nel suo insieme, tenendo a mente tutte le variabili citate prima. Molto spesso sono necessari almeno quindici giorni, se non addirittura 3-4 settimane. La limpidezza arriva, basta avere fiducia, pazienza e sperabilmente un secondo frigorifero.

Tutto ciò senza considerare la forma del fermentatore. Un contenitore alto e stretto (come un keg jolly da 19 litri o il troncoconico di un birrificio) allunga i tempi di chiarificazione perché aumenta il percorso che le particelle devono percorrere mediamente per arrivare a depositarsi sul fondo. Un contenitore basso e lungo (come i maturatori orizzontali che si usano in birrificio), al contrario, velocizza il processo di chiarificazione.

14 COMMENTS

  1. Molto interessante!!
    Se la durata del “cold” è proporzionale alla limpidezza, come hai verificato, il “crash” influisce o no sulla limpidezza? Ovvero, hai notato differenze se sei sceso di temperatura velocemente o più lentamente? Grazie!

    • No, non credo la velocità di discesa possa influire particolarmente. Credo sia diverso dalla velocità di raffreddamento a fine boil, la cui rapidità favorisce la formazione di coauguli. In questo caso si può favorire la formazione di chill haze (legami proteine-polifenoli) e il suo successivo deposito, ma ad influenzare la sua formazione è più che altro la temperatura che si raggiunge, non tanto la velocità con cui si raggiunge.

  2. La tecnica citata (Noonan) per la lagerizzazione mi sembra diametralmente opposta a quella di Narziss, di cui ho trovato cenno in Brewing Classic Styles. Mi sfugge come due metodi opposti possano portare allo stesso risultato… Ma non ho ancora approfondito sufficientemente l’argomento (3 cotte all’attivo e solo alte fermentazioni) e temo sia off-topic.
    Grazie per l’ottimo (come sempre) articolo, mi fai riempire quaderni interi di appunti!

  3. Ciao Frank, interessante questo ultimo punto.
    In particolare l’utilizzo di scambiatori a piastre o in controflusso pensi cambino la situazione rispetto alla serpentina messa in pentola?
    Io con il controflusso noto sempre limpidezza a mostro caldo, torbiditá quando il mostro si è raffreddato nel tubo Crystal.

    • Dipende, le variabili in gioco sono molte. Sicuramente lo scambiatore funziona meglio con un efficace whirpool in pentola, come fanno i birrifici, per portare meno trub possibile nel fermentatore.

  4. Ciao Frank, sempre interessanti i tuoi articoli. Questo inverno ho fatto le stesse prove col mio frigo, testando la stessa ricetta con lagerizzazioni, cold crash, fast lagering. La ricetta’ e’ la “mia pils” (bohemian rapsody) generalmente prodotta con il sistema fast lagering (21 gg massimo e imbottiglio)e quindi lagerizzazione molto corta, 5/10 gg. Fondamentalmente le mie prove si basavano proprio sulla velocita’ di abbattimento della temperatura. Da 1 grado al gg a 15 gradi in una notte, lasciando all’ aperto il fermentatore con temperatura esterna -4. Differenze sulla limpidezza? C’erano, io le vedevo se le cercavo, ma la stragrande maggioranza degli “assaggiatori” diceva che era la stessa birra. 15/20 grammi di irish moss a 10′ libero e travaso a meta’ o fine fermentazione, quelli fuzionano. So’ che non ti piace, ma nel mio caso funziona. E non solo per le tedesche.

    • Grazie del feedback! I travasi secondo me non influiscono sulla limpidezza, se non per il fatto che se uno pesca dal rubinetto potrebbe tirare fuori più lievito in fase di imbottigliamento se il deposito è troppo alto sul fondo. Ma quello che deve precipitare, precipita ugualmente, con o senza travaso.

      Penso anche che sia difficile fare confronti diretti sulla limpidezza se il mosto è diverso, anche se è la stessa ricetta: troppe le variabili in gioco (tra cui il tipo di malto, il particolare raccolto) a meno che non siano due cotte fatte davvero una vicinissima all’altra. In ogni caso interessante, grazie!

  5. Buongiorno Frank!
    Ma cold-crash più prolungati non andrebbero poi a compromettere l’attività dei lieviti per eventuali priming???

  6. Ciao Frank, dopo il cold crash in un’alta fermentazione o lagherizzazione per bassa fermentazione, la temperatura va riportata a quella ottimale del lievito per poi fare priming oppure si può aggiungere subito lo zucchero a 0-4 gradi?
    Grazie

    • Ci sono pro e contro in entrambi gli approcci. Se la riporti intorno alla tempertura di fermentazione, la rifermentazione riparte prima e combatti meglio l’ossigeno che si discioglie durante l’imbottigliamento. D’altro canto, lasciando riscaldare è possibile che salga dal fondo CO2 che riporta in sospensione (parzialmente) lievito e luppolo.

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