Quest’anno avevo detto che avrei continuato a dedicarmi al Belgio e l’ho fatto. Ho approfittato del periodo invernale per produrre e lasciar maturare una Belgian Golden Strong Ale (la mia prima prova con questo stile) e una Belgian Dark Strong Ale (affinamento di una ricetta a cui lavoro da un po’).

In questo primo post vediamo come è andata con la Belgian Golden Strong Ale.

LO STILE

Il Belgio è un mondo birrario a sé stante. Il BJCP ha tentato di incasellarlo in stili più o meno rigidi, ma ovviamente i birrai belgi se ne fregano alquanto. Spesso più che di stili si parla di capostipiti dello stile, ovvero di quelle birre iconiche che rappresentano in qualche modo la linea guida per lo stile.

Per le Tripel spesso si fa riferimento alla Westmalle Tripel, commercializzata per la prima volta nel 1934. Per le Belgian Golden Strong Ale, che per comodità chiameremo BGSA e che in Belgio chiamano spesso più semplicemente Strong Ale (dando per scontato il colore), la birra iconica che ha dato origine al tutto è la Duvel del birrificio Moortgat. Questa birra fu commercializzata per la prima volta nel 1923 con il nome di Victory Ale, poi cambiato in Duvel (diavolo) per indicare la natura traditrice e pericolosa di questa birra a causa della sua estrema bevibilità in relazione all’elevato grado alcolico.

Che siano stili abbastanza recenti è facilmente intuibile dal colore chiaro, legato a tecniche di maltazione che si sono diffuse su larga scala nell’Europa continentale solo verso la seconda metà dell’ottocento.

Al di là della storia, cosa lega o differenzia – oggi – le Tripel dalle Belgian Golden Strong Ale? Se a prima vista (e a primo assaggio) possono sembrare birre simili, descritte con termini generici come “fruttata”, “speziata”, “alcolica” o “secca”, andando a scavare più a fondo nel profilo organolettico alcune differenze emergono e sono anche abbastanza sostanziali.

 Il grado alcolico  Sebbene si tenda a dire che le BGSA sono più alcoliche delle Tripel (da BJCP possono arrivare a 10.5% contro i 9.5% delle Tripel), nella realtà non c’è tutta questa differenza: la Tripel di St. Bernardus è solo poco meno alcolica della Duvel (8.0% vs 8.5%), la Westmalle Tripel arriva addirittura oltre con i suoi 9.5% ABV. Anche la Delirium Tremens, altro esempio di BGSA, si ferma su 8.5% ABV. Questo aspetto non è particolarmente differenziante.

 Il profilo aromatico  Difficile incasellare il profilo aromatico degli stili belgi. Il BJCP ci ha provato, secondo me facendo un buon lavoro che però va sempre preso con le pinze. Ho provato a riassumerlo in questa infografica (qui il post dedicato) trascritta dalle descrizioni del BJCP.

Le Tripel sembrerebbero più speziate, con un fenolico spesso tendente al chiodo di garofano. Il profilo fruttato anche dovrebbe essere diverso: sulle Tripel tende più al citrico, con tracce eventuali di banana, nelle BGSA vira più sulla pera o sulla mela, oltre ad essere più intenso. A grandi linee secondo me ci può stare, anche se sulla maggiore intensità del fruttato delle BGSA avrei dei dubbi. Tutto molto vago comunque, e soprattutto molto legato alle singole interpretazioni (Westmalle e St. Bernardus sono Tripel piuttosto diverse tra loro, per dire).

 La secchezza e il “carbonic bite”  Qui secondo me troviamo un primo elemento importante. Come racconta questo interessante articolo su Beerandbrewing.com, l’idea alla base delle BGSA è di mantenere la bevibilità di una Pilsner con il profilo aromatico e l’alcol di una birra belga. Questo si ottiene grazie alla esemplare secchezza, ovvero alla bassissima concentrazione di zuccheri residui dopo la fermentazione, che scende al di sotto di quello delle Tripel. Parliamo di FG che possono arrivare a 1.005, affiancate da carbonazioni davvero sostenute (sempre lo stesso articolo di Beer & Brewing parla di 4.3 volumi di carbonazione in bottiglia per la Duvel!). Questo genera il famoso “carbonic bite” che contribuisce ulteriormente alla sensazione finale di secchezza.

 Infine, il colore  Anche qui, tratto essenziale: le BGSA sono birre chiare, molto chiare. Al livello di una Pilsner tedesca. L’attenzione che hanno da Moortgat per non far scurire il mosto della Duvel durante il processo produttivo è maniacale (sempre dall’articolo di Beerandbrewing.com).

Direi che di elementi ne abbiamo, passiamo alla ricetta!

RICETTA

Lo so, ho appena scritto che queste birre devono essere molto chiare, quindi si dovrebbero fare solo con zucchero e malto Pilsner. Ho preferito tuttavia aggiungere un filo di malto Vienna per avere una base maltata leggermente più presente. Siamo comunque ancora lontani dal limite superiore di colore per lo stile, che è 12 EBC. Ci mancava solo un po’ di Carapils per prendermi in giro da solo.

Lo zucchero semplice in questo stile, come anche nelle Tripel, è fondamentale. Necessario per favorire l’attenuazione e dare quel taglio secco nel finale. Ne ho aggiunto metà della dose a fine bollitura e metà quando il vigore di fermentazione ha iniziato a rallentare. Questo approccio dovrebbe aiutare il lievito a gestire meglio l’ingente mole di zuccheri semplici aggiunta favorendo l’attività fermentativa.

Si può usare zucchero da tavola o destrosio, io ho preferito andare sul classico e usare il Candy Rock Sugar chiaro (quello in cristalli). Non credo sia fondamentale in termini di apporto organolettico ed è anche una rottura da sciogliere prima dell’utilizzo, ma mi piaceva l’idea di seguire un approccio molto “classico”. Per l’aggiunta a fine mosto ho lasciato sciogliere i cristalli di zucchero in un piccolo campione di mosto prelevato dalla pentola di boil e trasferito per qualche minuto sui fornelli di casa; Per l’aggiunta in fermentazione ho sciolto i cristalli in acqua calda, bollito 2 minuti, freddato e versato nel fermentatore.

Il taglio luppolato è importante in questa birra, sia in amaro che in aroma. Per l’amaro ho preferito non esagerare perché non sapevo dove sarebbe arrivato il lievito: 30 IBU mi sembravano un quantitativo ragionevole. Per l’aroma mi sono affidato allo sloveno Styrian Goldings, classico per lo stile, con una aggiunta da circa 2 g/L a fine boil e un quantitativo uguale al secondo giorno di fermentazione, direttamente nel fermentatore.

Per il lievito ho scelto quello che molti citano come il ceppo Duvel, il WLP570 Belgian Golden Ale della White Labs (che dovrebbe corrispondere al 1388 della Wyeast). Difficile stabilire con esattezza se si tratti sul serio del ceppo Duvel, visto che il recupero da una bottiglia di Duvel, che è iper centrifugata per quanto io sappia, è piuttosto improbabile. Inoltre ci sono anche tanti miti su questo ceppo, si dice che venga da un birrificio scozzese e che la Duvel utilizzi addirittura due lieviti diversi in contemporanea in fermentazione. A ogni modo il WLP570 ha sulla carta un buon profilo aromatico, è diastatico (STA1+) e quindi attenua bene (fino all’85%), tollera l’alcol: per tutte queste ragioni mi sembrava più che adatto allo scopo.

Ho aggiunto nutrienti a inizio fermentazione per supportare il lievito che avrebbe lavorato in condizioni non ottimali, per via del grado alcolico e degli zuccheri semplici. Inoltre, l’aggiunta di composti azotati (amminoacidi) aiuta a ridurre gli aromi solforosi che spesso vengono prodotti durante la fermentazione dai ceppi belgi.

Acqua leggermente sbilanciata sui solfati, senza esagerare, per dare enfasi alla secchezza.

FERMENTAZIONE

Dopo una buona ossigenazione con bombola di ossigeno (1 minuto con flusso 1 L/m su 11 litri di birra) ho inoculato il lievito (che veniva da un sostanzioso starter). Per fermentare ho utilizzato il mio buon vecchio fermentatore in plastica anziché il keg, in modo da sfruttarne la forma più tozza e meno allungata rispetto al keg, cosa che dovrebbe rendere la vita più facile al lievito.

Appena ho visto le prime bolle uscire dal blowoff, ho aperto il fermentatore (che era in frigo) e ho lasciato fermentare aperto fino a quando il krausen ha iniziato a ridursi (più o meno un paio di giorni di fermentazione aperta). Al secondo giorno ho aggiunto il dry hopping, al terzo lo zucchero e poi ho richiuso.

Avevo equipaggiato il fermentatore con un rubinetto John Guest sul coperchio (al posto del gorgogliatore) da cui il blowoff poteva essere sganciato senza lasciar entrare aria. Dopo qualche giorno ho trasferito in un keg precedentemente saturato di CO2 (riempito prima con acqua e svuotato con bombola) sfruttando il circuito chiuso e il dislivello tra il rubinetto del fermentatore in plastica e il keg, posizionato più in basso. Un metodo non facilissimo da gestire inizialmente, ma una volta presa la mano è molto comodo. Notare lo scotch sul coperchio del fermentatore in plastica, per evitare che per errore possa saltare il coperchio durante il trasferimento (cosa che mi è successa in passato).

Nella foto manca la connessione tra rubinetto del fermentatore in plastica che ho attaccato subito dopo, tramite cui la birra è scesa per gravità nel keg mentre la CO2 usciva dal keg ed entrava nel fermentatore in plastica con un circuito chiuso in assenza di contatto con l’aria. Il dry hopping mi ha creato qualche problema di intasamento sul rubinetto, ma i residui di pellet per fortuna hanno solo rallentato il flusso senza bloccarlo del tutto.

Dopodiché ho lasciato la birra nel keg a temperatura ambiente un mese per assicurarmi che la fermentazione fosse davvero terminata e per lasciar maturare la birra. Per l’imbottigliamento ho scelto questa volta di provare la carbonazione mista, ovvero per metà carbonare forzatamente per poi far sviluppare l’altra metà della CO2 dalla rifermentazione in bottiglia.

IMBOTTIGLIAMENTO E RIFERMENTAZIONE

Dicevamo nell’introduzione della altissima carbonazione della Duvel, che sembra sia addirittura a 4.3 volumi. Non volendo arrivare a tanto (anche perché le normali bottiglie longneck non reggono questi volumi) ho puntato a 3.0 volumi. Le birre belghe devono essere ben carbonate, a mio avviso non meno di 3 volumi, forse meglio anche 3.5.

L’ambiente molto alcolico nella bottiglia non rende facile la vita al lievito che a volte fatica a rifermentare così tanto. Un metodo utile è quello di carbonare parzialmente in fusto per imbottigliare in contropressione e tappare sulla schiuma e nel contempo aggiungere una piccola quota di zucchero in fase di imbottigliamento per arrivare ai volumi desiderati. In questo modo si evitano problemi in imbottigliamento (passare birra a 3.0 volumi dal fusto alla bottiglia non è facile) e si sfrutta la rifermentazione per liberarsi di eventuale ossigeno inglobato nella birra in fase di imbottigliamento.

In questo caso ho carbonato forzatamente fino a 1.5 volumi e aggiunto 6,7 g/L di zucchero per arrivare a circa 3 volumi. Per fare i calcoli sulla quantità di zucchero da aggiungere in modo semplice si può usare il calcolatore di Brewer’s Friends impostando la temperatura della birra fino ad arrivare a una CO2 trattenuta in fermentazione dalla birra di 1.5 volumi (vedi immagine sotto).

Come zucchero ho aggiunto destrosio (corn sugar) insieme a una piccola dose di lievito (0,05 g/L) per aiutare la rifermentazione (in questo caso T58), entrambi aggiunti bottiglia per bottiglia.

Fondamentale, a mio avviso, rifermentare in cella calda a 25°C per aiutare il lievito e garantire una rifermentazione ottimale. Per l’occasione, essendo inverno con temperatura in casa intorno ai 18-20°C, mi sono appositamente costruito una piccola cella di rifermentazione assemblando un STC-1000 con cavo riscaldante per terrari da 50 Watt.  Ho lasciato la birra in cella calda per 3 settimane, verificando con assaggio lo stato della rifermentazione. Quella nella foto è la Belgian Dark Strong Ale, ma la cella di rifermentazione è la stessa.

ASSAGGIO

Visto che il post è già estremamente lungo, non mi dilungherò eccessivamente nella descrizione del profilo organolettico di questa birra. La birra mi piace molto, è riuscita piuttosto bene. Sono molto soddisfatto.

La cotta è del 30 Settembre 2022, quindi 5 mesi fa. La birra di cui descrivo l’assaggio ha maturato, dopo la fermentazione, quasi 5 mesi, di cui 30 giorni in fusto a temperatura ambiente e altri 39 giorni, sempre in fusto, in frigo. Il resto è maturazione in bottiglia a temperatura ambiente, a meno delle 3 settimane passate nella cella calda per rifermentare. Secondo me il livello di maturazione è ottimale, ma potrebbe ancora assestarsi per il meglio nelle prossime settimane. Trattandosi comunque di una birra chiara che beneficia di un leggero sentore luppolato, non credo possa ancora evolvere positivamente per molto.

L’aspetto, come si vede dalle foto, è in stile. Il colore alla fine ci sta. In alcune foto può sembrare più dorato di quello che è, ma abbastanza chiaro. La limpidezza in questa foto era estrema, ma lasciandola più tempo in frigo acquista un filo di chill haze, risultando alla fine leggermente velata. La carbonazione è buona, forse un pelino in più avrebbe giovato. La schiuma è fine, un velo persiste sempre fino a bicchiere vuoto, il che è una gran cosa.

Al naso ha un bel profilo fruttato/speziato di buona intensità. La frutta è delicata e ricorda soprattutto la pera, con un background agrumato (scorza di limone) molto fresco. Il fenolico è presente ma senza risultare invadente, vira verso il pepe bianco. Il luppolo fa capolino con una delicata nota erbacea, fresca. Una sfumatura balsamica impreziosisce il tutto. Al palato scorre davvero bene, l’alcol si sente il giusto ma non brucia. L’amaro è leggermente basso a mio avviso, qualche IBU in più avrebbe aiutato. La secchezza garantisce comunque una bevuta scorrevole, decisamente pericolosa.

L’ho fatta assaggiare a diversi amici homebrewer e giudici, che hanno apprezzato. Riporto sotto il commento di Angelo Ruggiero di Berebirra, amico, homebrewer, birraio e giudice BJCP con molta esperienza sul Belgio. Non fa mai uno sconto quando una mia birra non lo convince, ma stavolta ha apprezzato.

Il nome, “The Lesser Evil” (il male minore), è chiaramente un riferimento al diavolo, come lo stile richiede.

8 COMMENTS

  1. Grande Frank, bellissima birra ,molto pulita e con una gran schiuma. Il mash out classico a 78° era sottinteso poiché non lho visto in ricetta oppure ti sei fermato apposta a 72°.
    Ti volevo poi chiedere se le etichette le fai tu con programmi tipo Canva oppure era di tipografia, perché sono molto belle.

    • Lo step a 78°C non è in alcun modo fondamentale, quindi nemmeno lo scrivo. Se faccio sparge, come in questo caso, lo faccio perché anche l’acqua si sparge è a 78°C, altrimenti lo salto. Le etichette sono semplicemente fatte in una slide powepoint e stampate in copisteria. Lìimmagine è presa dal web, non dovrei ma le uso solo per darle agli amici 🙂

    • È il contrario. Di solito si fa prima dello sparge per disattivare gli enzimi che potrebbero continuare a lavorare durante lo sparge. Con il BIAB si va subito in bollitura e questo non serve.

  2. Ciao Frank
    Secondo te posso sostituire l’apertura del tino con una ossigenazione tramite pietra porosa e bombola di o2? Può essere sufficiente o c’è anche un problema di pressione da considerare?

    • Direi di no. Le dinamiche nin sono chiare, ma non credo che una ossigenazione continua possa essere una buona idea.

    • Non ricordo di preciso. Mi sa in questa quelli di Pinta, che sono un mix di aminoacidi, vitamine e zinco se non ricordo male.

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