Ho passato anni cercando di comprendere nel miglior modo possibile l’impatto che l’acqua esercita nella produzione di birra. Ne ho scritto molto qui sul blog (link), ho contribuito alla lezione di un’ora sull’acqua dell’ormai scomparsa HBA (link) e ne abbiamo parlato anche con il mio compagno di podcast Daniele su Mashout! Podcast (link).

Non si può certo dire che non mi sia mai interessato e che non mi interessi tuttora al tema dell’acqua. Tuttavia, ho sempre l’impressione che si tratti di un argomento per la maggior parte non compreso, a cui alcuni non danno alcuna importanza (troppo difficile, non ci capirò mai niente!) mentre altri si fissano arrivando a dedicare all’acqua attenzioni maniacali, probabilmente eccessive.

L’approccio ideale, secondo la mia esperienza, si trova nel mezzo. Ovvero, comprendere quei quattro principi fondamentali e preoccuparsi solo di questi, lasciando da parte le fisime sulle acque storiche e soprattutto rendendosi ben conto che, nella maggior parte dei casi, l’aggiunta di un paio di sali e la regolazione del pH di mash, sparge e bollitura con aggiunta di acido alimentare risolvono tutti i nostri problemi. In modo semplice ed abbastanza efficace.

Il resto sono dettagli che possono diventare importanti se si ricerca la perfezione in una ricetta, ma restano molto meno importanti per la riuscita della ricetta rispetto ad altri parametri come la scelta del lievito, la gestione dell’ossidazione, le temperature di fermentazione e molto altro.

Sono ormai arrivato a oltre le 140 cotte nella mia carriera da homebrewer, ho modificato l’acqua dalla prima cotta nel lontano 2012. Ho prodotto birra con acqua di bottiglia leggera, mediamente leggera, con l’acqua di rete di Roma che è piuttosto dura (siamo oltre i 30°f), con l’acqua osmotizzata, con acqua di rete prebollita. Ho prodotto stout con acque dure, IPA con acque dure, Pilsner con acqua 100% osmotizzata. Ho fatto anche un paio di confronti testa a testa di produzione con acqua 100% osmotizzata e 100% di rete.

Insomma, un’idea me la sono fatta su cosa conta davvero quando si vuole gestire l’acqua e cosa, invece, conta molto meno. Procedere per priorità rimane secondo me la chiave della questione.

Il mio impiantino a osmosi (da sinistra a destra): filtro a carbone attivo, filtro a osmosi, filtro antisedimento

Quanto acido lattico è troppo?

La domanda che mi viene fatta più spesso, e che mi sono posto io stesso molte volte, è proprio quale sia il limite nell’utilizzo di acido lattico oltre il quale inizia a diventare un problema in termini organolettici. Detto in parole povere: quanti ml/L posso usare in produzione prima di rovinare la birra? Perché, è facile intuirlo quando lo si maneggia, l’acido lattico non è completamente insapore.

L’aggiunta di acido è tuttavia un’ottima soluzione per gestire le cosiddette acque “dure”. Con “dure” si intendono genericamente acque ricche di sali, ma per la maggior parte, a meno di casi eccezionali e di stili con necessità di acque molto particolari (qualche bassa fermentazione chiara come le Pilsner in stile ceco), quello che ci dovrebbe preoccupare di più è la concentrazione di bicarbonati, ovvero di HCO3. Ché poi,alla fine dei conti, sono i bicarbonati che determinano principalmente la durezza dell’acqua (la durezza in gradi francesi °f è pari circa alla concentrazione dei bicarbonati espressa in ppm e moltiplicata per 0.08).

Esistono vari modi per ridurre la durezza (ad esempio bollire o utilizzare calce spenta detta anche idrossido di sodio), ma l’approccio più semplice e immediato rimane l’aggiunta di acido. L’acido, che sia citrico, lattico o fosforico, può ridurre praticamente a zero la concentrazione di bicarbonati trasformandoli in acqua e anidride carbonica. Quello che ci interessa infatti è arrivare a un pH di ammostamento compreso tra 5.2 e 5.5 (misurato a 25°C), il resto ha decisamente meno importanza, come vedremo. Per arrivarci, la strada più semplice è aggiungere acido. Più l’acqua è ricca di bicarbonati, maggiore sarà la quantità di acido che dovremo aggiungere.

Torniamo alla domanda di prima: quanto acido lattico è troppo?

Molto difficile stabilirlo a priori, per diverse ragioni. La prima è che durante la fermentazione il lievito produce altro acido lattico, che si aggiunge a quello che usa il birraio per ridurre l’acidità. Difficilmente si riesce a prevedere quanto ne sarà prodotto durante la fermentazione. La seconda motivazione è che la percezione dell’acido varia a seconda delle persone e può naturalmente variare anche in relazione allo stile di birra che stiamo producendo. Mi pare evidente che in una Imperial Stout il sapore dell’acido lattico si avvertirà meno rispetto a una Helles. Quindi, dipende.

John Palmer nel suo libro “Water” indica 400 ppm ovvero 400 mg/L ovvero 0,4 g/L come soglia di percezione dell’acido lattico nella birra. Siccome 1 ml di acido lattico pesa 1,2 grammi, possiamo tradurre 0,4 mg/L in circa 0,3 ml/L. Mediamente per la produzione di 20 litri di birra nel fermentatore servono circa 30 litri di acqua, quindi il limite teorico totale di acido lattico da poter usare tra sparge e mash è di circa 0,3 ml x 30 Litri = 9 ml. Con questo limite si riescono a gestire decentemente birre chiare prodotte con acque anche fino a circa 300 ppm di bicarbonati.

Vi dirò di più. Ho provato a produrre due British Golden Ale molto simili (link), assaggiandole in parallelo. In una ho utilizzato circa 11,5 ml di acido lattico tra sparge e mash su un volume totale di acqua pari a 20 Litri, ovvero 0,58 ml di acido lattico per litro (praticamente il doppio rispetto al limite suggerito da Palmer). Nell’altra, pur partendo da acqua osmotizzata, per gestire pH di mash e sparge, essendo la birra molto chiara, ho comunque dovuto aggiungere 4.5 ml di acido lattico su 20 litri totali di acqua utilizzata ovvero 0,22 ml/L. Risultato? Non ho avvertito alcuna differenza significativa tra le due birre. 

Altro caso, più recente (link): una IPA prodotta con 100% acqua di rete di Roma (bicarbonati oltre le 408 ppm, 33°f). Acido lattico utilizzato in totale: 11 ml su 19 litri totali di acqua utilizzata, ovvero nuovamente quasi 0,6 ml/L. Risultato? Una IPA senza alcun sentore di acido lattico, in alcun modo.

E la famosa astringenza dovuta all’alta concentrazione di bicarbonati? Ovviamente non c’era, ma questo era prevedibile visto che la correlazione tra astringenza e bicarbonati è dovuta al fatto che un’alta concentrazione di questi ultimi tende a generare un pH alto in ammostamento, sparge e bollitura, con conseguente maggiore solubilizzazione di tannini. Ma se regoliamo il pH con l’acido mantenendolo nel range ottimale, il problema non si pone.

Quindi, di nuovo: quanto acido lattico è troppo? Suggerisco di provare voi stessi, senza troppi preconcetti o limiti mentali. È chiaro che su birre chiare e molto delicate dal punto di vista organolettico, cercherei di partire da acqua con meno bicarbonati per usare meno acido (che comunque andrà utilizzato). Ma parliamo di un ristretto numero di casistiche, per il resto non mi farei troppi problemi a usare acido lattico. Volendo si può usare il fosforico che dovrebbe sentirsi meno a parità di dosaggio, ma io continuo a usare lattico perché si trova più facilmente in formati ragionevoli per gli homebrewer.

Attenzione a cloro e simili

Come mai allora la prima volta che provai a produrre birra usando l’acqua di rete di Roma (link) molti anni fa, prima di acquistare l’impianto a osmosi, non ottenni un risultato soddisfacente?

La feci prima bollire per ridurre i bicarbonati e volatilizzare eventuale cloro, per poi usarla nella produzione di una English IPA. La birra non mi piacque affatto. Aveva qualcosa che non andava, ma non riuscivo bene a capire cosa.

Anni dopo provai a fare la stessa cosa (ho già citato la IPA in questione prima), filtrando però l’acqua di rete tramite un economico e pratico filtro a carboni attivi. Be’, il risultato fu totalmente diverso.

La colpa è del cloro? Ma non si elimina con la bollitura? Non lo so. Teoricamente sì, ma qualcosa che non andava in quella English IPA lo avevo sentivo e non sapevo bene a cosa ricondurlo. Esistono composti del cloro, come le clorammine, che non sono volatili e non si eliminano con la bollitura. Potrebbe essere stato quello?

Di nuovo, non ne ho la certezza. Ma ho la certezza che da quando utilizzo acqua di rete passata per un filtro a carboni attivi (e lo faccio spesso, magari tagliandola con quella osmotizzata, ma non sempre) le birre sono a posto.

Per filtrare l’acqua dal cloro è sufficiente comprare un filtro antisedimento (per evitare di portare pietre e pietruzze nel filtro a carboni attivi e rovinarlo subito) e un filtro a carboni attivi e collegarli in serie al rubinetto. Non si spreca acqua perché sono filtri che lasciano passare tutta l’acqua trattenendo solo impurità solide e cloro. Il filtro a carboni attivi si cambia ogni 3-4 mesi, ma probabilmente resiste anche un po’ di più. Quello antisedimento si può cambiare meno spesso, finché l’acqua ci passa dovrebbe fare il suo lavoro.

Solfati e Cloruri

Mentre solfati e cloruri si possono aggiungere abbastanza facilmente utilizzando Solfato di Calcio (Gypsum), Cloruro di Calcio o Sale da Cucina, per toglierli l’unica strada è l’osmosi inversa. Ma è davvero necessario toglierli? Quanti solfati e quanti cloruri sono davvero troppi?

Anche qui esistono tanti miti e concezioni derivanti dal sentito dire piuttosto che dalla pratica. Basta prendere le descrizioni del BJCP di birre prodotte con acque ricche di minerali, come le German Helles Exportbier (Dortmunder Export). L’edizione del 2015 (link) descriveva un possibile aroma solforoso e una certa mineralità al palato. Fortunatamente queste considerazioni sono state riviste nell’aggiornamento del 2021 (link), che ora descrive solamente una potenziale mineralità al palato che però, cito espressamente, si manifesta come “sharpness” (secchezza, amaro nitido) piuttosto che come vera e propria mineralità.

Ah, ecco. Volevo ben dire.

Ma di quanti solfati e cloruri stiamo parlando nell’acqua di Dortmund? (che poi è da vedere se ancora oggi venga utilizzata tal quale per produrre quei due/tre esempi originali di questo stile, che non si trovano nemmeno facilmente e che ancora non ho avuto occasione di bere)

Dai dati che girano in rete, sempre che siano veri, parliamo di 330 ppm di solfati e 130 ppm di cloruri per l’acqua di Dortmund. Sono valori che possono dare aromi solforosi? No, direi di no. Anche perché i solfati non sono gassosi e non sono volatili. L’acqua sulfurea, quella con l’aroma solforoso di uova marce, è un’altra cosa. È acqua impregnata di acido solfidrico, un composto dello zolfo volatile prodotto da batteri. Le famose acque albule, per intenderci. Vedo abbastanza remota la possibilità che un’acqua con tanti solfati possa dare aroma solforoso. È vero che il lievito può lavorare i solfati durante la fermentazione e convertirli in composti gassosi, ma questo non dipende tanto dalla concentrazione di solfati ma dalle condizioni di fermentazione e dal ceppo di lievito.

Quindi, possiamo dire che un’acqua con oltre 300 ppm di solfati, al limite, possa dare una certa secchezza ma non un contributo percepibile di mineralità. Non più di quanta ce ne sia solitamente nella birra, insomma. E 300 ppm di solfati non sono poche.

Mi è capitato una volta di assaggiare alla cieca un’acqua dove si sentiva in qualche modo un sapore “strano”, dovuto alla concentrazione di minerali. È l’acqua Essenziale, ma contiene solfati per 1590 ppm. Avete letto bene: quasi milleseicento ppm. Ecco, non mi farei problemi di impatto dei solfati sulla percezione minerale della birra per 100 o 200 ppm di solfati nell’acqua.

I cloruri si percepiscono ancora meno, perché non danno il contributo “salato” o “minerale” che possono dare i solfati in alte (direi altissime) concentrazioni.

Quello che invece è abbastanza consolidato, è il contributo dei solfati alla percezione dell’amaro/secchezza (la amplificano) e dei cloruri a quella dolce/maltata (la amplificano). Tuttavia, sembra – comprensibilmente – che sia molto più importante il rapporto tra la concentrazione dei due piuttosto che la loro concentrazione assoluta. La mia impressione è quindi che, nella maggior parte degli stili, si può facilmente lavorare modificando il rapporto tra i due con aggiunte dei sali anche arrivando a concentrazioni di 100-150 ppm dell’uno o dell’altro, senza avere impatto particolare sulla “sapidità” o su altre sensazioni che non siano l’amplificazione di secchezza (solfati) o rotondità (cloruri).

Ricordiamoci anche che le ppm di cui parliamo sono le ppm di solfati e cloruri nell’acqua di origine, non quelle nella birra finita a cui contribuiscono anche gli altri ingredienti. Tramite l’acqua possiamo agire solo su una parte dei solfati e dei cloruri che eventualmente finiranno nella birra finita, che di base ne ha già.

Qualsiasi acqua va bene, allora?

Ecco, no. Non volevo arrivare a questo.

Però, controllando opportunamente il rapporto solfati/cloruri per esaltare più o meno l’amaro rispetto al dolce (o la secchezza rispetto alla rotondità), rimuovendo il cloro e abbassando opportunamente il pH di mash (5.2-5.5) e di sparge (intorno a 5-5,2) possiamo usare anche acque relativamente dure e ricche di minerali. Questo, nella maggior parte dei casi.

Le eccezioni esistono ma secondo me sono davvero poche, intendo quegli stili per i quali sarebbe bene partire da acqua quasi osmotizzata (l’acqua Sant’Anna o la Blues dell’Eurospin vanno ad esempio benissimo). Stili di colore molto chiaro e particolarmente delicati dal punto di vista del profilo organolettico come Czech Pilsner, Helles, Helles Bock. Ma mi vengono in mente giusto questi tre. Le Pilsner tedesche (specialmente quelle del nord della Germania) sono in genere più secche, a volte anche con un profilo leggermente minerale.

A ogni modo vale la pena provare senza legarsi a preconcetti o peggio ancora ai profili delle acque storiche. L’acqua è sicuramente un elemento importante per la buona riuscita di una birra, ma lo è per alcuni aspetti chiave: il bilanciamento solfati/cloruri, la gestione del pH di mash, sparge e bollitura, al limite l’eccessiva presenza di magnesio o sodio (sopra le 100 ppm, non così frequente nelle acque di rete).

Prima di arrivare a usare acqua osmotizzata per qualsiasi cosa, con un grande spreco di acqua di scarto, per poi magari addizionarla nuovamente di sali a valle della filtrazione, è bene ragionare su quello che si sta facendo. Rispetto al passato, oggi abbiamo a disposizione diversi strumenti e additivi per modificare in modo semplice e immediato il profilo dell’acqua, adattandolo ai nostri scopi.

Io ad oggi utilizzo solo parzialmente il mio impianto a osmosi (link). In molti casi uso 100% acqua di rete filtrata dal cloro, in altri faccio 50% e 50% tra acqua osmotizzata e acqua di rete. L’acqua di Roma ha la fortuna di avere alti bicarbonati ma tutto sommato solfati e cloruri abbastanza bassi. Un limite è che non si possono alzare troppo i solfati senza portare il calcio a valori molto alti: si tende in genere a non portarlo sopra le 150 ppm, tuttavia lo stesso Plamer nel suo libro “Water” ci dice che il calcio non ha effetti particolarmente negativi anche se arriva oltre.

Possiamo tuttavia alzare i cloruri con sale da cucina senza intaccare le ppm di calcio (facendo attenzione a non far arrivare il sodio sopra la già citata soglia delle 100 ppm, meglio se sotto 50 ppm per non sentirlo proprio). Se invece devo aumentare i solfati di parecchio, magari uso un 20% di acqua osmotizzata, abbasso un po’ il calcio e lo rialzo aggiungendo Gypsum che nel contempo mi alza anche i solfati. Ingegnandosi un po’ si riesce a evitare di abusare dell’acqua osmotizzata, con beneficio per l’ambiente e anche per il tempo che ci si mette per raccoglierla prima di utilizzarla.

 

 

 

 

2 COMMENTS

  1. Ciao Frank,
    Perché l’acqua di sparge deve avere un ph più basso di quello di mash invece che lo stesso?
    Secondo te perché Brewfather non mette l’acido citrico come correttore del ph ma solo quello lattico e fosforico, esiste un motivo particolare o solamente perché non lo ritengono valido?
    Grazie

    • Ciao Federico, non è necessario acidificare l’acqua di sparge a quel livello, ma ormai è diventata una mia abitudine per portare il pH di bollitura a 5.2, range ottimale per quella fase di produzione. Tieni conto che nei grist chiari il pH di mash in genere sale un po’ durante l’ammostamento, quindi cerco di abbassarlo già dall’acqua di sparge, senza doverlo poi ritoccare a inzio bollitura. Inoltre, per il mash 5.2 è nella parte bassa del range di azioni degli enzimi, spesso lo tengo leggermente più alto per posizionarmi nella parte più alta del range di pH durante l’ammostamento, dove lavorano meglio le alfa amilasi.

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