Nella mia prima “fase brassicola”, dagli inizi fino a qualche anno fa, il mio approccio è stato guidato dalla curiosità: produrre quanti più stili possibili. Penso sia un sentire comune, foraggiato dall’emozione della scoperta. Questo mi ha portato a fare tante cotte, migliorando le mie competenze e abilità produttive.

A un certo punto ho capito però che, per arrivare a padroneggiare un certo stile, o comunque per sviluppare una buona confidenza con un ambito stilistico – che siano il Belgio, le basse fermentazioni o le birre inglesi – è necessario focalizzarsi. Cotte ripetute della stessa ricetta, o quantomeno cotte successive che utilizzano ingredienti e metodi afferenti a un ambito stilistico, aiutano a sviluppare competenze in un percorso continuo di miglioramento (a volte anche di peggioramento momentaneo, ma fa parte del gioco).

Un paio di anni fa mi sono focalizzato sulle birre inglesi, gli scorsi due anni sulle belghe, ora è arrivato il momento di affinare il mio approccio alla produzione di luppolate. Ne ho prodotte in passato, ma ho bisogno di capire se il mio metodo funziona davvero. Senza hop-bong o altri ammennicoli ingombranti, con un tocco di metabisolfito e l’imbottigliamento diretto dalla spina (quando imbottiglio).

Partiamo da questa Double IPA, prodotta in fretta e furia prima delle vacanze. Qualche errore qui e là, ma nel complesso piacevole.

RICETTA

Come mai è venuta di questo colore? Anzitutto, non è ossidazione. La birra era buona, il colore brillante così come anche la luppolatura. Di ossigeno non ne ha visto, almeno non così tanto da scurirsi.

Malto

Il problema è il grist.

Ho buttato giù la ricetta un po’ di corsa, senza fare molto caso ai malti che stavo utilizzando. Nello specifico, la Dingemans produce un Pils e un Pale leggermente più scuri delle altre malterie. Questo, unito a una percentuale esagerata di Caramalt (mutuata dalla ricetta di una Tripel dove però era affiancato solo al Pilsner) ha scurito parecchio la birra.

Poco male. Per il futuro, via il Caramalt. Se utilizzerò di nuovo il Pale della Dingemans, il taglio con il Pilsner dovrà arrivare al 50% (non ne avevo a sufficienza per questa cotta).

L’aggiunta di zucchero è pensata per snellire il corpo. L’ho sciolto nel mosto insieme al dry hopping. L’idea è di far ripartire una piccola fermentazione e consumare eventuale ossigeno introdotto con il lancio dei pellet di luppolo liberi nel fermentatore.

Per raggiungere lo stesso risultato si potrebbe inserire il luppolo prima che la fermentazione sia finita. In questo caso ho preferito approfittare dell’aggiunta prevista dalla ricetta dato che, non avendo familiarità con il blend di lieviti, sarebbe stato difficile prevedere quando sarei stato abbastanza vicino alla FG.

Luppolo

Come sperimentato con successo in un’altra birra luppolata (link), insieme al luppolo e allo zucchero ho aggiunto anche una punta di metabisolfito di potassio, usato in questo caso come antiossidante. Rispetto alla scorsa volta, ho sensibilmente ridotto la dose: sono passato da 40 mg/L a 14 mg/L.

Dovrebbero corrispondere, più o meno, a 8 ppm di solfiti. Un valore minore delle 10 ppm richieste dalla legge per evitare di scrivere “contiene solfiti” in etichetta, se si trattasse di una birra commerciale.

Con la luppolatura non ho voluto esagerare. Sono convinto, e questa è tra le ipotesi che vorrei verificare con queste prove, che non c’è bisogno di aggiungere dosi folli di luppolo se viene utilizzato in modo adeguato.

Basta guardare la ricetta clone della famosissima Pliny The Elder, la Double IPA di Russian River, ricetta condivisa da Vinnie Cilurzo stesso. La somma dei g/L di luppolo tra late boil e dry hopping nella ricetta di Cilurzo è 14 g/L, più o meno 7 g/L in late boil e 7 g/L in dry hopping. Questo dosaggio è quello massimo a cui intendo arrivare, non ho intenzione di entrare nel mondo delle Hazy IPA, delle DDH (Double Dry Hopped) o delle TTH (Tripel Dry Hopped) con questi esperimenti. Sono altri tipi di birra, al momento non mi interessano.

“Di più” non significa necessariamente “meglio” o “aroma più intenso”. Alcuni oli essenziali vanno in saturazione con dosaggi troppo alti, l’aroma cambia e non è quello che sto cercando in queste IPA.

Acqua

Per quanto riguarda l’acqua, continuo con il mio approccio: acqua di rete di Roma, filtraggio solo con carboni attivi e utilizzo di tanto acido lattico. Zero sprechi. Mi trovo molto bene, nonostante le oltre 400 ppm di bicarbonati della mia acqua di rete. In questa cotta sono arrivato a 0,75 ml di acido lattico per litro di acqua utilizzata (tra mash e sparge) senza evidenti conseguenze sul profilo organolettico. Almeno, io non le ho avvertite.

Lievito

Ho provato per la prima volta il nuovo formato PurePitch Next Generation della White Labs, di cui Pinta.it mi ha gentilmente offerto un campione in prova.

FERMENTAZIONE

La mia intenzione non era fare una Hazy IPA. Ero cosciente che questo blend di lieviti Hazy Daze, molto fruttato e con bassa flocculazione, non sarebbe stata la scelta ideale per una IPA classica. Ma lo avevo in frigo, non volevo far passare troppo tempo rischiando di non poterlo poi più utilizzare. Poco male.

Si tratta di un blend di diversi ceppi, formulato dalla The Yeast Bay ma prodotto e impacchettato dalla White Labs nel suo nuovo formato Pure Pitch Next Generation. Viene pubblicizzato come un formato che non necessita di starter. Sarà vero?

Al di là della comunicazione pubblicitaria, volta sicuramente a catturare l’attenzione, il tema è sempre lo stesso: il lievito liquido, nella busta, soffre. Con il tempo perde vitalità, non importa quanto ce ne sia dentro inizialmente, prima o poi lo starter potrebbe servire.

Il problema, ormai, è capire quanto “prima” o quanto “poi”, visto che i calcolatori che utilizziamo non sono in alcun modo adatti per stimare quanto il lievito si mantenga vitale in queste nuove bustine.

Secondo la White Labs, il nuovo formato mantiene il lievito praticamente al top della vitalità per ben 6 mesi. Ci crediamo? Boh, non ho alcun elemento per esprimere una valutazione personale. Facciamo che ci crediamo. Usare in questo caso il calcolatore di Brewer’s Friend non ha alcun senso, visto che dopo 5 mesi dava già vitalità a zero anche con il formato fialetta, per il quale la White Labs stima invece una vitalità del 62.5% dopo 6 mesi.

Tramite il numero del lotto stampato sulla busta di lievito (oppure inquadrando il QR code sulla confezione) si possono recuperare i parametri di qualità del lievito dal portale della White Labs. Risultano 2.15 milioni di cellule per millilitro al momento del packaging. Il che si traduce in un totale di 150 miliardi di cellule in un singolo pacchetto. Dopo 6 mesi, secondo la White Labs, sarebbero ancora a circa 140 miliardi.

Nel mio caso, la confezione sarebbe scaduta dopo 4 mesi e mezzo, quindi ipotizzo ne avesse uno e mezzo sulle spalle. Il mio pitching rate target, in base al volume (10 Litri) e alla OG (18°P) avrebbe dovuto essere pari a 10x18x0,75=135 miliardi di cellule. Considerando che lo zucchero l’ho aggiunto dopo, la OG era anche più bassa di qualche punto. Ci stavo dentro alla grande, quindi ho aperto la busta e ho inoculato dopo aver ossigenato con bombola e pietra porosa inox per 30 secondi. Così, senza starter. Ansia.

La mattina successiva all’inoculo, ancora nessuna bolla dal blow-off. Ho iniziato a essere preoccupato, ma dovevo partire. Ho lasciato in pace il frigo e mi sono messo in viaggio.

La sera mi scrive mia moglie, che era rimasta a casa, e mi manda questa foto. La bottiglia del blow-off era piena di mosto, che in parte aveva inondato anche il fondo del frigo e il pavimento.

Non avevo visto bolle al mattino perché avevo attaccato il tubo del blow-off all’uscita della birra! Probabilmente la fermentazione era partita, ma la pressione generata dalla CO2 non era ancora sufficiente per spingere fuori il mosto.

Ho dato indicazioni a mia moglie per spostare il tubo sul connettore corretto, ma nel frattempo ho perso più di 2 litri di birra. Tante le imprecazioni a distanza, per una distrazione che non è la prima volta che mi capita. Ma vabbè.

Le bolle sono andate avanti per parecchio tempo, come si vede dal grafico sotto. Mi è sembrato un blend molto lento a terminare la fermentazione. Dopo una ventina di giorni, la FG si è stabilizzata a 1.012 con un 83% di attenuazione, in linea con le aspettative.

Avrei voluto fare un cold crash ancora più lungo per pulirla meglio, ma a fine mese sarei dovuto partire per le vacanze, non avrei avuto il tempo per berla prima. Così ho attaccato il fusto alla spina dopo una quindicina di giorni di freddo e me la sono bevuta, dopo averla carbonata forzatamente.

Non ho rilevato difetti riconducibili a un affaticamento del lievito. La lentezza nel consumare gli ultimi punti di densità potrebbe essere semplicemente dovuta al blend di lieviti. Non avendolo mai utilizzato prima, non posso però esserne certo. Nel complesso, la fermentazione mi sembra comunque andata bene anche senza starter.

ASSAGGIO

Assaggio dalla spina. Pochi i litri che mi sono rimasti. Al momento del travaso nel fustino di servizio, ne ho recuperati solo 6 litri tra perdite sul fondo e mosto fuoriuscito dal blow-off a inizio fermentazione. Sono finiti in un lampo. Segno che alla fine, nonostante i vari incidenti, la birra è tutto sommato riuscita.

 ASPETTO  Schiuma fine, ottima persistenza. Il colore è al limite per lo stile, siamo sull’ambrato leggero. Ricorda una IPA East Coast vecchio stile. Limpidezza non esemplare ma buona, è velata ma non torbida. Dalle foto fatte con la macchina fotografica sembra più scura e più torbida di quello che in realtà è. Nella foto sotto, fatta in controluce con il cellulare, il colore e la limpidezza sono più vicine alla realtà.

 AROMA  Buona intensità. Non eclatante o super esplosiva, ma decisa. Dominano le note resinose e balsamiche. Aghi di pino, bosco di conifere. Rinfrescanti. Subito dopo si percepisce la parte agrumata, che ricorda soprattutto il pompelmo. Tropicale molto leggero, lieve passion fruit nelle retrovie. Man mano che si scalda, emergono note di pesca e albicocca, probabilmente dovute al blend di lieviti utilizzato. Aroma molto pulito, fresco, senza difetti.

 AL PALATO  Una Double IPA non dovrebbe mai risultare pesante al palato. E questa birra, devo dire, fa il suo lavoro in questo senso. Ingresso leggermente dolce e fruttato, arriva subito la sferzata balsamica a mitigare il tutto. Tornano l’agrumato e i sentori di pesca e albicocca percepiti al naso. Accompagnano verso un finale in cui fanno capolino note di miele. L’amaro è abbastanza intenso, forse un pelo basso, ma nel complesso il bilanciamento è buono. Scivola via, liscia.

 MOUTHFEEL  Nessuna astringenza. Morbida. Carbonazione media. Alcol non percepito.

 CONSIDERAZIONI GENERALI  Nel complesso mi sembra una birra estremamente godibile. La resa del luppolo è stata buona. Non eccelsa, ma puntuale. È molto morbida, forse questo è l’aspetto più piacevole della bevuta. Scorre sul palato senza scossoni, spigoli o astringenza. Il colore mi è sfuggito un po’ di mano, ma il malto non ingolfa il sorso. Una birra luppolata vecchio stile, con una base maltata più presente rispetto alle Double IPA contemporanee. Il tutto è ben bilanciato dall’amaro e dalla luppolatura balsamica, si beve con estremo piacere. La prossima volta ridurrei il malto Pale o il Caramalt, per un risultato più contemporaneo.

3 COMMENTS

  1. “per un risultato più contemporaneo” t’è venuti di getto o ci hai pensato la notte? 🤣

  2. Ciao Frank, nel calcolo del pitch rate non avresti dovuto usare 1 invece di 0.75 nella formula? Ale ad alta intensità?

    • La densità al momento dell’inoculo (prima dell’aggiunta del destrosio) era 1.064. Non è altissima. A ogni modo ero comunque in overpitching, quindi ok.

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