La partecipazione come giudice, lo scorso anno, al concorso per homebrewer Lost & Found organizzato a Taranto da Angelo Ruggiero e dedicato agli stili inusuali o poco diffusi, è stata l’occasione per approfondire la conoscenza delle Belgian Pale Ale. Per essere in giuria a Lost & Found bisogna un minimo prepararsi, soprattutto su quegli stili che non si bevono spesso.
Ciò significa navigare in rete tra i vari beershop online per cercare e ordinare tipologie di birre poco diffuse, assaggiarle, e magari provare a riprodurle in casa.
Questo contesto, unito al fatto che ultimamente mi sto dedicando alla scoperta di lieviti secchi che ho sempre snobbato nella mia vita da homebrewer, ha dato vita alla ricetta di questa Belgian Pale Ale, stile noto in Belgio come Spéciale Belge.
Le mie precedenti cotte dedicate a lieviti che avevo snobbato sono state una Tripel, piacevole ma non eccezionale fermentata con lievito Fermentis T-58 e una Bière de Garde, fermentata con lievito Fermentis BE-256 e molto riuscita.
Stavolta è toccato al Fermentis S-33. Vediamo come è andata.
LO STILE
Non mi dilungo troppo a parlare di questo stile perché lo ha già fatto la “Redazione Esteri” del blog Berebirra di Angelo Ruggiero, con un lungo e approfondito post sulla storia della Spéciale Belge.
In poche parole, sono birre nate all’inizio del 1900 per contrastare l’avanzata delle Pilsner tedesche in Belgio. L’occasione per “inventare” un nuovo stile è stata un concorso, indetto in Belgio, volto proprio a premiare quel birrificio che avesse prodotto una birra poco alcolica che potesse competere con le birre tedesche che stavano invadendo il Belgio.
Ci vollero due edizioni del concorso per decretare un degno vincitore, che si piazzò al primo posto con una birra ambrata, dal grist di malti ispirato alle Bitter inglesi ma meno amara, molto più secca, con un carattere fermentativo belga anche se lontano dalla speziatura delle Tripel.
Le Spéciale Belge hanno avuto molto successo inizialmente, ma dagli anni ’50 del novecento la loro produzione si è progressivamente ridotta. Ad oggi le producono pochissimi birrifici, tra cui il famoso De Koninck ad Anversa, città d’eccellenza di questo stile.
Non sono mai stato ad Anversa, ma nei mesi passati mi sono adoperato per recuperare esempi di questo stile da assaggiare. Sul sito Belgianbrewed.com ho acquistato sia la versione di De Ryck, sia la Bolleke di De Koninck (al momento mi pare non ci sia più nessuna delle due).
Entrambe mi sono piaciute molto. Le ho trovate birre facilmente bevibili, moderate, con una buona secchezza e una componente maltata delicatamente biscottata e un leggerissimo tocco di caramello.
Il contributo del lievito è quasi inesistente, si avverte una lieve nota fruttata senza la controparte fenolica. Qualcuno ci sente una nota speziata – assolutamente plausibile – ma siamo comunque lontani dal livello di fenoli di una Saison o di una Tripel.
RICETTA
Ho fatto un po’ di casino con questa ricetta, si vede subito dall’elenco dei malti: troppi, alcuni dei quali fuori contesto. Come mai è andata così? Preso dall’indecisione e dalla voglia di rendere questa birra bevibile ma allo stesso tempo complessa, ho adottato l’approccio che sconsiglio sempre a qualsiasi homebrewer: mettere dentro troppa roba.
Iniziamo quindi con l’avvertimento: don’t try this at home!
Partiamo dal lievito. Mi sembra abbastanza evidente che l’S-33 non sia il ceppo più adatto per questo stile. Non tanto per il profilo aromatico, che può andar bene non essendo un lievito fenolico, ma per l’attenuazione e la flocculazione: entrambe molto basse. Le Spéciale Belge sono birre secche ed estremamente limpide, spesso filtrate, due elementi in contrasto con questo lievito.
Tuttavia, ricordavo che il mio amico Angelo ne aveva prodotta una versione molto piacevole usando proprio l’S-33, così ho voluto tentare.
Passiamo al luppolo. Qui sono andato decisamente meglio. L’amaro inizialmente mi è sembrato un po’ alto, ma con la lunga lagerizzazione il livello di amaro si è molto equilibrato, risultando centrato.
L’acqua è la solita di Roma filtrata a carboni attivi. Ho aggiunto Gypsum per alzare leggermente i solfati. Anche qui, nulla da dire.
Veniamo ai malti. Proviamo a dare un criterio a queste scelte apparentemente scriteriate. Il Pale Ale come base ci sta: la birra dovrebbe poggiare su un leggero biscottato e non sul classico cereale del Pilsner, quindi direi che ci siamo. Il Vienna l’ho aggiunto perché lo utilizzo sempre nella mia Bitter, dove trovo contribuisca con un finale leggermente nocciolato. Discutibile, ma può starci. Il destrosio è per aiutare l’S-33 che ha un’attenuazione media tra il 68% e il 72%. Questo ha funzionato, sebbene alla fine l’attenuazione sia stata comunque un po’ bassa per lo stile.
I malti speciali: qui ho fatto casino. Non sono riuscito a scegliere tra Amber e Biscuit, alla fine li ho messi tutti e due perché ormai li avevo comprati. Genio! E anche in quantità non trascurabili. Sono malti simili nel colore: l’Amber dovrebbe essere più tendente al caramello (più “crystal”, se vogliamo), mentre il Biscuit dovrebbe avere note più delicate, biscottate appunto, meno crystal e più “Maillard”. Spoiler: usarli insieme non è stata una grande idea.
Come se non bastasse, siccome avevo tanto Caramunich III avanzato, ho pensato bene di mettercelo dentro. C’è da dire che, cercando in rete, questo malto dovrebbe starci bene in questo stile. Lo utilizzano anche Palmer/Zainasheff nella ricetta che si trova sul loro libro Brewing Classic Styles, addirittura al 6% nella versione all-grain della loro Spéciale Belge. Questo malto alla fine ci stava.
Il tocco finale è stato aggiungere il Carafa III Special (che avevo in grande quantità) per ritoccare il colore, cosa che si rivelerà non necessaria in alcun modo.
Per chiudere, il mash a 65°C per 90 minuti è pensato per spremere le beta-amilasi fino all’ultimo e ottenere un mosto che fosse molto fermentabile.
Insomma, sulla carta non c’è nulla di totalmente sbagliato in principio (a parte, forse, il Carafa III). Come vedremo, però, l’insieme di tutti questi malti non ha dato il risultato sperato, portando la birra al limite estremo dello stile (probabilmente anche oltre).
FERMENTAZIONE
Non avendo mai utilizzato l’S-33, ho deciso di andarci cauto e tenere la temperatura di fermentazione al limite basso del range.
Tutto è filato liscio. Bolle terminate dopo sei giorni, al decimo ho misurato la FG che era a 1.014. Ho tenuto qualche altro giorno a 23°C per stimolare eventuali code di fermentazione, poi ho travasato nel fustino da 10 litri e ho messo in frigo.
A questo punto, la birra era piuttosto torbida. Le birre ambrate torbide sono orribili. Dato che non avevo intenzione di trasferire in bottiglia una birra torbida, l’ho lasciata al freddo per parecchio tempo, prendendo ogni tanto un campione. Si è pulita molto lentamente, rimanendo comunque sempre velata.
Inizialmente ho dato tutta la colpa al lievito. Il fatto però che la birra nelle bottiglie, dopo la rifermentazione, fosse limpidissima, mi porta a pensare si tratti soprattutto di chill-haze da polifenoli e proteine e non torbidità da lievito. O meglio, magari inizialmente era anche dovuta al lievito, ma dopo un mese e mezzo di lagerizzazione non credo.
Come mai questa chill-haze? Non saprei dirlo. Il processo di produzione è sempre lo stesso, le mie birre di solito si puliscono abbastanza bene con qualche settimana di lagerizzazione. Sarà il malto base, non lo so (qui, un approfondimento).
Come faccio sempre con le birre del Belgio, metà batch l’ho carbonato rifermentando parzialmente in bottiglia, mentre l’altra metà forzatamente in un fustino da 5 litri che poi ho consumato alla spina. In rifermentazione, ho aggiunto lievito T-58 vista la lunga lagerizzazione.
ASSAGGIO
L’assaggio e le foto vengono dalla birra rifermentata che aveva passato circa tre settimane in bottiglia: 10 giorni nella cella a 25°C per la rifermentazione, poi a temperatura ambiente (circa 19-20°C). Non ho notato grandi differenze tra la versione alla spina e quella rifermentata, a meno della carbonazione che nel fusto ho tenuto un po’ più bassa per facilitare la spillatura.
ASPETTO Come già detto, la birra nelle bottiglie – a temperatura ambiente – è limpidissima. Una volta messa in frigo, compare una leggera velatura. Non tantissima, ma sufficiente per renderla torbida in foto. Con la giusta l’angolazione e il bicchiere più piccolo (vedi foto sotto) si riesce a evidenziare la reale limpidezza, che non è altissima ma nemmeno malvagia.
La schiuma è beige, con bolle fini, ottima compattezza e buona persistenza. Il colore della birra è ambrato carico quasi ramato, teoricamente nel range (che arriva fino al “copper” nel BJCP). Risulta tuttavia più scura rispetto agli esempi di stile citati nell’introduzione.
AROMA Il malto ha un’intensità media, con note principalmente caramellate (dark caramel) e un sottofondo che ricorda la frutta secca come datteri e uvetta con un leggerissimo tocco di frutta rossa, tipo prugna. Lievissimo biscottato. Gli esteri da fermentazione hanno una bassa intensità, con leggere note che possono ricordare la pera. Non avverto fenoli speziati ma un leggero tocco di speziatura che potrebbe provenire dal luppolo. Aroma nel complesso molto piacevole e pulito, troppo “profondo” e maltato per lo stile. La leggera frutta rossa sarà il temutissimo Brett di casa Brewing Bad? Sembrerebbe di no, ma ormai la fobia è nella mia testa. Staremo a vedere come evolve. Per ora non si sono formate pellicole nelle bottiglie e la carbonazione è regolare, ma è presto per cantare vittoria.
AL PALATO Ingresso decisamente maltato, dove tornano con una buona intensità le note di caramello, leggero biscottato (soprattutto nel finale) e frutta secca percepite al naso. Elegante. La dolcezza è ben bilanciata dall’amaro che accompagna la bevuta verso un finale piuttosto maltato e lungo, ma non stucchevole. Chiude mediamente dolce, non in linea con lo stile che la vorrebbe più secca.
MOUTHFEEL Corpo medio, un po’ troppo per lo stile. Carbonazione medio-alta. Avrei potuto nuovamente osare di più, devo prendere la mano con questa rifermentazione parziale. Leggera cremosità, nessuna astringenza né calore alcolico.
CONSIDERAZIONI GENERALI La birra è buona. La sto bevendo davvero volentieri. Il fustino da 5 litri si è volatilizzato durante un aperitivo in casa con un amico e mia moglie. Amico che non ama le birre belghe, tra l’altro. Devo dire, nel complesso, una birra molto equilibrata. Il lievito ha fatto un ottimo lavoro, ha anche provato ad attenuare oltre i suoi limiti ma più di tanto non è riuscito. Purtroppo, mi sembra abbastanza lontana da quello che avevo in mente di ottenere.
Se però dimentichiamo gli esempi classici citati nell’introduzione e ci limitiamo a leggere la descrizione che fa il BJCP dello stile, questa birra potrebbe essere considerata nei limiti dei canoni dello stile.
Cosa cambierei nella ricetta?
Sarei tentato di dire: tutto. E questa sarebbe una strada. Tuttavia, sono combattuto. L’idea di buttare totalmente questa ricetta nel secchio non mi convince appieno. I singoli elementi di per sé sono corretti, limando le quantità (e togliendo il Carafa III) si potrebbe secondo me arrivare a un buon risultato.
Sarebbe curioso, anche solo a scopo didattico, cercare di raffinarla un po’ e riprovare. Anche per vedere se la torbidità così difficile da ridurre sia stata colpa del lievito oppure no.
C’è però una parte di me che mi dice: prendi il BE-256, togli la metà dei malti e riprova.
Non so quale delle due parti vincerà. Sicuramente riproverò a breve, perché ormai ho imparato che per migliorare una ricetta l’approccio migliore è intestardirsi con almeno 2-3 prove consecutive per gestire al meglio il fine-tuning.
Seguite la newsletter per le anteprime sulla futura ricetta.
ciao Franck,
una curiosità che devo chiederti.
ho dato un’occhiata alle tue ricette e vedo che con malto pils non fai mai la sosta per le proteine ( mi pare…).
io ci ho provato un paio di volte, con malto Weyermann e Durst, e ho ottenuto birre velate in entrambe le occasioni.
so che dicono che i malti moderni non ne avrebbero bisogno, ma la mia esperienza è questa.
mi confermi che tu la salti?
mai avuto problemi?
certo, avessi una laboratorio (e sapessi come fare ) bisognerebbe fare ad ogni partita di malto l’analisi dei FANs e regolarsi di conseguenza.
ho letto il tuo articolo 2014
Vade retro protein rest, non mi avrai!
sei sempre della stessa idea?
grazie
ciao
Sì, sono sempre della stessa idea. C’è addirittura il prof. Charlie Bamforth che dice che l’attività degli enzimi proteolitici in 15 minuti di protein rest è praticamente nulla. Le opinioni continuano a essere contrastanti su questo tema.
Mediamente, negli ultimi tempi, ho ottenuto birre quasi sempre piuttosto pulite, spesso anche molto limpide. Ogni tanto capita quella che resta più torbida, ma si tratta ancora di casi rari (che ne so, una ogni 10-15 cotte) che non costituiscono un problema.
Farlo mi prolungherebbe di mezz’ora il mash tra proteine rest e salita alla temperatura di mash, senza contare che alle temperature di protein sono attive le lipossidasi che favoriscono l’ossidazione a caldo.
Continuo quindi a non farlo, se poi qualche birra rimane un po’ torbida me ne faccio una ragione. Se è fatta bene, è buona lo stesso.
Comunque servono più di un paio di volte per trovare delle correlazioni tra protein rest e limpidezza. Anche perché la limpidezza dipende da tantissimi fattori.