Contro ogni previsione, il fenomeno NEIPA, nato nel New England americano diversi anni fa, resiste ancora. L’interesse del pubblico è sicuramente scemato, ma esempi di birre in questo stile continuano a essere presenti in pub e beershop.
Dopo un iniziale scetticismo, devo ammettere di aver imparato ad apprezzare queste birre. Ovviamente, quelle fatte bene.
Qualcuno distingue tra NEIPA e Hazy IPA, anche se non esiste nessuna distinzione codificata. Secondo questa interpretazione, le prime sarebbero meno amare, più fruttate e tropicali, decisamente più torbide. Le seconde, le Hazy IPA, sarebbero una via di mezzo tra una NEIPA e la classica IPA.
Il BJCP non opera alcuna classificazione di dettaglio. Semplicemente, afferma che possono esistere NEIPA con vari livell di amaro, torbidità ed intensità aromatica.
Il mio interesse verte verso l’estremo delle NEIPA: colore chiaro, alta torbidità, forte carica luppolata ma amaro basso e soprattutto morbido. Davvero difficili da produrre.
Al di là dell’interpretazione dello stile, non è affatto raro, purtroppo, imbattersi in NEIPA spigolose, con un amaro tagliente e una luppolatura che pizzica sul palato. A volte emergono note vegetali o “verdi” così marcate da disturbare la bevuta, al punto da non riuscire ad andare oltre qualche sorso.
Quando però mi imbatto in lattine di birrifici come Other Half (USA), Verdant (UK) o Pomona Island (UK) in buona forma, la bevuta diventa davvero esaltante. Certo, si potrebbe criticare che queste birre si somigliano tutte. In parte è vero. Ma quelle ben fatte si distinguono nettamente dalle classiche IPA, regalando una serie di sensazioni non comuni che meritano di essere riconosciute.
Diversi anni fa, prima di abbracciare la tecnica della contropressione, provai a fare una NEIPA (link). Fermentai nel secchio di plastica, feci dry hopping aprendo il coperchio e rifermentai in bottiglia. Tutto sommato, la birra non venne nemmeno malissimo. Ero tuttavia ben lontano dai migliori esempi di stile, anche se probabilmente non ne ero ancora ben consapevole.
Gli anni sono passati, ho fatto diversi upgrade alla mia attrezzatura di fermentazione e dry hopping (contropressione, hop bong), ho studiato e riflettuto (qui alcune considerazioni più recenti sul dry hopping) e ho assaggiato molto (per quanto possibile, qui in Italia).
Alla fine, ho deciso di riprovarci. Stavolta, seguendo tutti i crismi del caso.
RICETTA
La base maltata è pressocché identica a quella della versione precedente. Ho aggiunto il Chit Malt, ovvero un malto d’orzo parzialmente modificato che dovrebbe contribuire alla torbidità.
Le dosi di luppolo sono simili alla versione precedente, ma i luppoli sono cambiati. Ho scelto le varietà che erano disponibili dal raccolto 2024, evitando quelle che avrebbero dato derive troppo tropicali (che non amo in questo stile).
È importante che una parte del luppolo utilizzato sia in formato Cryo, sia per evitare eccessive perdite, sia soprattutto per limitare l’astringenza e la deriva vegetale durante il dry hopping. In whirpool/hopstand si potrebbero usare anche estratti tipo il Dynaboost, ma non li ho trovati in formato da homebrewer.
L’idea iniziale era di utilizzare esclusivamente il lievito Verdant, apprezzato per la sua capacità di favorire le biotrasformazioni. Tuttavia, avendo avuto meno perdite del previsto, mi sono ritrovato con un paio di litri in più nel fermentatore. Per evitare il rischio di underpitching, ho aggiunto una bustina di WHC Saturated che avevo in frigo. Il blend di lieviti non era previsto.
Mash effettuato a 70 °C, con l’obiettivo di mantenere una OG significativa e contribuire alla morbidezza generale della birra.
L’amaro è moderato, anche se risulta difficile valutare con precisione gli IBU a causa dell’intenso dry hopping; è probabile che, alla fine, siano inferiori ai 44 IBU stimati.
Per quanto riguarda l’acqua, l’ho parzialmente filtrata tramite impianto a osmosi inversa, in modo da poter aggiungere cloruro di calcio senza portare i livelli di calcio a valori eccessivamente elevati.
ELEMENTI CHIAVE
Al di là della ricetta, che è abbastanza semplice, questa volta ho cercato di applicare alcune pratiche che ho studiato e su cui ho ragionato per diverso tempo.
Gestione del pH in bollitura
In ammostamento ho mantenuto il pH intorno a 5.5, per favorire il lavoro delle alfa amilasi. Invece di abbassarlo a 5.2 come faccio di solito, l’ho lasciato a 5.5 anche in bollitura proprio per ridurre la precipitazione delle proteine e favorire la torbidità. L’ho poi abbassato a 5.1 prima della gettata di luppolo a 5 minuti dalla fine della bollitura, per ridurre l’estrazione di polifenoli.
Biotrasformazioni
Il lievito Verdant produce enzimi in grado di scindere i glicosidi presenti nel luppolo, intensificando l’aroma luppolato.
Per stimolare questa biotrasformazione, solitamente si aggiunge il luppolo durante la fermentazione attiva. Tuttavia, anche il luppolo aggiunto in late boil o in hopstand attraversa la fase di fermentazione.
Per questo motivo, ho preferito abbondare con le aggiunte in bollitura e saltare quella a metà fermentazione, anche per ridurre la quantità di materia vegetale a contatto con la birra nel fermentatore, dato che non ho la possibilità di spurgare i residui dal keg a fine fermentazione.
Dry hopping
Per favorire una maggiore solubilizzazione degli oli del luppolo, ho preferito dividere il dry hopping in due fasi. Per la prima ho usato il formato cryo, sempre per evitare che l’eccesso di materia vegetale rimanesse troppo tempo a contatto con la birra.
Il secondo dry hopping l’ho fatto due giorni dopo, con luppolo in pellet. Ho usato l’hop bong per inserire il luppolo nel keg, riducendo sensibilmente il contatto della birra con l’ossigeno.
Ho abbassato la temperatura a 15°C, per ridurre l’estrazione di polifenoli. Ho abbattuto la temperatura dopo un giorno di dry hopping, travasando subito dopo tre giorni dal secondo dry hopping.
Avrei voluto smuovere il luppolo all’interno del keg di fermentazione tramite getti sporadici di anidride carbonica dal basso, ma il connettore per l’hop bong sul tappo del keg non mi ha permesso di inserire lo spinone che arriva fino al fondo. Avrei potuto insufflare la CO2 dal tubo di prelievo della birra, ma temevo che la gabbietta filtrante del luppolo si sganciasse. Ho quindi preferito rinunciare.
Gestione dell’hop creep
Il primo dry hopping a 20 °C dovrebbe aver ridotto il rischio di hop creep. Eventuali destrine residue sono probabilmente state consumate durante questa prima fase. In ogni caso, l’hop creep mi preoccupava poco, considerando che la birra sarebbe stata carbonata forzatamente e mantenuta sempre in frigorifero.
FERMENTAZIONE
Il cold crash prima del travaso è stato veloce, ma comunque sufficiente per liberare la superficie della birra dai pellet che, altrimenti, avrebbero intasato il connettore jolly e reso problematico il trasferimento.
Carbonazione forzata nel keg di servizio a circa 2.5 volumi. Le poche bottiglie che ho fatto le ho imbottigliate dalla spina con il Counter Pressure filler della kegland.
ASSAGGIO
Il post è già abbastanza lungo, quindi non mi dilungherò troppo nella descrizione organolettica della birra.
L’aspetto visivo è, a mio avviso, pienamente centrato. Il colore, dal vivo, risulta più chiaro rispetto a quanto appare nelle foto: paglierino, tendente al latte di avena. La torbidità è omogenea, senza particolati in sospensione. La schiuma è fine e di ottima persistenza.
L’aroma è molto pulito e piuttosto intenso. Spiccano note agrumate (pompelmo, mandarino) e resinose (aghi di pino, sentori balsamici), con accenni tropicali che ricordano il passion fruit e, in misura minore, il mango. Buona complessità. L’aroma è privo di note “verdi” o pungenti. Probabilmente i luppoli erano in ottima forma (e infatti lo sembravano appena aperti).
Al palato sorprende per la sua morbidezza. È completamente assente il bruciore che spesso si percepisce quando si usano dosi elevate di luppolo. L’amaro è di media intensità, molto morbido. L’alcol è impercettibile. Anche nel retrolfatto il luppolo si fa sentire intenso, fruttato, citrico e resinoso. Il finale è leggermente dolce, ma mai stucchevole; l’amaro riesce a pulire bene il palato, pur non essendo elevato.
Che dire: sono davvero stupito dalla riuscita di questa birra. Non mi aspettavo un risultato così positivo. Sicuramente una buona combinazione di impegno, processo solido, ingredienti in ottime condizioni e un pizzico di fortuna. Da rifare!