In genere non scrivo un post con la ricetta di una mia birra prima di averla prodotta, imbottigliata e assaggiata. In questo caso farò un’eccezione, visto che il processo produttivo di questa Flanders Red Ale richiederà ancora diversi mesi per arrivare a termine (potrebbe anche fallire miseramente, tra l’altro). Colgo l’occasione per raccontare questo particolare e antico stile birrario di cui non si trovano moltissimi esempi in commercio.

Devo dire che il mio rapporto con le Flanders Red Ale non è stato sempre idilliaco. Forse proprio perché di esempi non se ne trovano molti, e quelli più abbordabili sono spesso versioni commerciali edulcorate dello stile, a volte pastorizzate e rese più “accessibili” grazie agli zuccheri aggiunti.

Fortunatamente, spendendo qualcosa in più e cercando meglio, se ne trovano anche esempi genuini, più intensi ma anche più interessanti. Proviamo a capire quali sono le caratteristiche produttive e organolettiche delle Flanders Red Ale e cosa le differenzia dalle sorelle Oud Bruin.

 

Immagine da: flandersinvestmentandtrade.com

 

LO STILE

Le Flanders Red, chiamate anche Flemish Red, hanno origine nelle Fiandre, in Belgio. Questa zona geografica si estende da Est a Ovest nella parte Nord del Belgio (nel Sud del Belgio c’è la Vallonia, dove si parla soprattutto francese). Il termine Flemish significa fiammingo, e indica sia gli abitanti delle Fiandre, sia la lingua che viene parlata nella regione. In realtà, nelle Fiandre dell’Ovest, al confine con la Francia, capita che si parli francese oltre al fiammingo. Per rendere le cose ancor più complicate, le Fiandre nella parte Ovest del Belgio sono a loro volta divise tra Orientali e Occidentali (come si vede dalla cartina sopra), ma in realtà la regione delle Fiandre si estende in tutto il Nord del Belgio, dalla Francia alla Germania.

Nelle Fiandre sono nati i due birrifici storici che hanno dato origine agli stili Flanders Red (dette anche Flemish Red) e Oud Bruin (dette anche Flanders Brown). Il primo, Rodenbach, nelle Fiandre Occidentali; il secondo, Liefmans, nelle Fiandre Orientali. La distanza tra i due birrifici, tuttavia, è solamente di qualche decina di chilometri.

Non è facilissimo differenziare le Flanders Red dalle Oud Bruin, anche perchè, come capita spesso in Belgio, ogni birrificio fa di testa sua badando poco alle classificazioni stilistiche. In genere, si prende come macro distinzione quella esistente tra il processo di produzione di questi due grandi birrifici, ad oggi entrambi controllati dall’industria (Palm per Rodenbach, Duvel Moortgat per Liefmans).

Le Flanders Red tendono quindi a essere più acide e acetiche, meno caratterizzate dal malto, con note evidenti di frutta rossa e vini invecchiati; vengono fermentate con coltura mista di lieviti e batteri in fermentatori di acciaio all’inizio, poi passate in grandi botti (i cosiddetti foeders) per diversi mesi; vengono successivamente blendate per produrre diverse versioni a seconda della composizione del blend. Le Oud Bruin sono invece meno acide, più maltate, non passano in legno se non per brevi periodi. Ma il confine tra i due stili è labile, spesso è difficile posizionare le produzioni dei diversi birrifici in una specifica categoria stilistica.

A mio modesto avviso, la versione base della Rodenbach, chiamata Rodenbach Classic, è davvero poco interessante. Molto più intrigante la Gran Cru, nel cui blend entra una quota maggiore di birra invecchiata; o la Vintage, che non è un blend ma nasce da una singola botte in casi eccezionali. Interessante anche la Rodenbach Character Rouge, con aggiunta di ciliegie. Nelle versioni Gran Cru e Vintage l’acidità acetica è ben presente: non per tutti, forse, ma perfetta per bilanciare la base maltata. Tra gli esempi classici dello stile, citata anche dal BJCP, non possiamo dimenticare la Duchesse De Borgogne del birrificio belga Verhaeghe: a mio avviso non particolarmente entusiasmante, ma sicuramente un assaggio “semplice” e di facile reperibilità per chi vuole iniziare a conoscere questo mondo.

Un altro esempio, più moderno, di Flemish Red viene prodotto da Struise. La birra si chiama Ypres e prende il nome dall’omonima cittadina delle Fiandre Occidentali, che dista pochi chilometri dal birrificio.

Accennando al volo alle Oud Bruin, la Goudenband dovrebbe essere il cavallo di battaglia del birrificio Liefmans. In queste birre della Liefmans, tuttavia, trovo molta industria e poca artigianalità, ma è un mio parere. Decisamente più interessante la Wijnberg di De Ranke, una Oud Bruin semplice ma non banale, con un buon carattere e una grande bevibilità.

LA RICETTA DELLA MIA FLEMISH RED

Secondo diverse fonti, il colore scuro delle Flanders Red non deriva dai malti utilizzati, ma dalle lunghe – in alcuni casi lunghissime, parliamo addirittura di giorni – bolliture che ne andavano a scurire il colore donando note aromatiche di caramello, toffee, frutta rossa, frutta secca. Un tempo le birre prodotte dalla Rodenbach erano a fermentazione spontanea, ma da quando è arrivata l’acquisizione dalla Palm (nel 1998), il mosto viene inoculato con una coltura mista di lieviti e batteri e fermentato in acciaio, per poi essere passato in botte dove con il passare del tempo acquisirà la caratteristica nota acetica. La  “fermentazione mista” vede prima in azione i lieviti ad alta fermentazione e poi i batteri lattici che acidificano la birra; successivamente, la birra viene spostata in botte dove la produzione di acido acetico viene gestita tramite un rigoroso controllo della temperatura e aggiustata con il blending finale.

Per il grist ho scelto di affiancare al Pale di base qualche malto scuro con un po’ di carattere, non potendomi permettere una bollitura di dieci ore. La scelta è ricaduta su Monaco e Caramonaco per la venatura di caramello e frutta secca, e sullo Special B per la frutta rossa. Ho comunque bollito più del solito: due ore, per accentuare i toni maltati. Non ho aggiunto mais, che la Rodenbach utilizza in quantità non trascurabili a quanto sembra, si dice per “tagliare” la dorsale maltata. Sinceramente non ne sento il bisogno, è sufficiente costruire il grist in modo bilanciato.

Luppolatura solo in amaro per un totale di 16 IBU. Tale livello potrebbe inibire l’acidificazione da parte dei lattobacilli, ma come vedremo puntavo di acidificare soprattutto con lievito lattacido (che non ha problemi con gli IBU) e poi Brett+aria (acido acetico) e Pediococchi (resistenti al luppolo).

Ho scelto un mash a temperatura alta per produrre una quantità maggiore di destrine da dare in pasto a batteri e lieviti in secondaria. Ho ridotto la durata del mash a mezz’ora per recuperare un po’ di tempo dalla bollitura prolungata. Non ho verificato l’avvenuta conversione degli amidi (a occhio mi pare di averla raggiunta), ma poco importa. Se è scappato qualche amido in fermentazione, in questo caso specifico, anche meglio: riserve per la fermentazione secondaria.

LA FERMENTAZIONE

Per la fermentazione avrei potuto affidarmi unicamente al Roeselare Blend della Wyeast, come molti fanno. Si tratta infatti di un mix già pronto di lieviti e batteri in grado di condurre l’intero ciclo di fermentazione, come nei tini della Rodenbach. Nel blend troviamo lievito belga, che dovrebbe condurre la fermentazione primaria, poi Brett, batteri lattici e pedioocchi per la secondaria. Il blend è senza dubbio comodo, molti lo usano con successo, ma ho preferito seguire un’altra strada.

Non ho fatto molte produzioni acide, ma quella che mi è riuscita meglio, lo pseudo-lambic “Puzzetta“, è frutto di un blend ragionato, ottenuto dall’unione di birre provenienti da diversi fermentatori. Quando si lavora con batteri e lieviti selvaggi, secondo me la chiave per la riuscita della birra è il blend. Oltre a essere divertente da assemblare, offre al birraio l’opportunità di miscelare birre con caratteristiche organolettiche diverse, individuando il giusto bilanciamento. Certo non è semplice, si spreca birra, ma il risultato è meno dipendente dalla fortuna che interviene quando il batch è unico. In stili come le Flanders Red, poi, dove in un attimo l’acidità acetica può andare fuori controllo, il blend è a mio avviso fondamentale. Impossibile controllare lo sviluppo di acidità acetica senza botti sufficientemente grandi che riducono il contatto con l’ossigeno e senza una stanza a temperatura e umidità controllata.

Ho deciso così di portare avanti una fermentazione standard nel mio classico keg, per poi dividere il batch in due contenitori da 5 litri e far percorrere loro strade diverse. Per essere sicuro che la birra partisse da un buon livello di acidità lattica, ho pensato di sfruttare il Philly Sour in fermentazione primaria, già usato con successo in un altro batch. Ho quindi trasferito il mosto dal pentolone al keg dove fermento di solito, inoculando prima il Philly Sour della Lallemand (che ho descritto nel dettaglio qui) e poi, a distanza di 24 ore, una bustina di S04 della Fermentis. Usare un lievito belga per la primaria non è a mio avviso indispensabile in questo stile, in quanto alla produzione dei fenoli (comunque modesti se non proprio assenti nelle Flanders red) ci penseranno i Brett in secondaria. Ho preferito spingere l’S04 a 20°C per produrre qualche nota fruttata in più, che secondo me si addice molto bene allo stile.

Purtroppo questa volta qualcosa non ha funzionato con il Philly Sour. Per le prime 24 ore il gorgogliatore non ha fatto bolle. Ho comunque proseguito con il mio piano, inoculando l’S04 che avrebbe avuto il suo lag time. Evidentemente si è svegliato presto e ha tolto dal piatto tutti gli zuccheri al Philly Sour, che è notoriamente più lento. Il risultato è una fermentazione primaria con FG a 1.020 (ottimo: riserve di zuccheri per la secondaria) ma acidità di una qualsiasi birra “standard”. Tentativo fallito. Poco male, confido nel secondo passaggio.

A questo punto ho travasato la birra nella damigiana e nel piccolo fermentatore di plastica. Ho usato due contenitori diversi per ottenere (sperabilmente) risultati diversi:

  • nella damigiana di vetro, notoriamente più resistente all’ingresso di ossigeno, ho inoculato una busta di Roeselare Blend della Wyeast. Senza starter, per evitare di alterare il rapporto tra i vari microrganismi. Questa parte del batch dovrebbe sviluppare una acidità contenuta senza derive acetiche
  • nella plastica ho invece inoculato il fondo della Old Ale di Ca Del Brado (molto buona, con evidenti note acetiche) e una fiala, sempre di Ca Del Brado, della flora microbica con cui fermentano la loro Piè Veloce Brux (fiale che spesso regalano agli homebrewer di passaggio). Quest’ultima dovrebbe contenere principalmente Brett. La birra nella plastica, più permeabile all’ossigeno, dovrebbe prendere una maggiore deriva acetica. Deriva che faciliterò aprendo a un certo punto il fermentatore per gettarci dentro un paio di Oak Chunks (pezzi di botte di rovere) acquistati tempo fa su The Malt Miller.

Damigiana e fermentatore in plastica saranno tenuti in casa a temperatura ambiente, approfittando dei mesi invernali durante i quali la temperatura nel mio piccolo sgabuzzino non eccede mai i 20°C.

COME STA PROCEDENDO

Siamo oggi a due mesi dal trasferimento in damigiana e fermentatore in plastica. La damigiana ha iniziato a dare segni di vita dal gorgogliatore dopo una settimana dall’inoculo del Roeselare Blend. Nessuna evidente pellicola in superficie (solo qualche piccola bolla ai lati, vicino al vetro), ma gorgoglia regolarmente da fine Novembre.

Il secchio in plastica mi ha dato qualche preoccupazione in più. Per settimane non ha gorgogliato per nulla. Temevo non avesse una buona tenuta, ma premendo sul coperchio uscivano bolle, quindi ho immaginato che tutto fosse a posto. Dopo qualche altra settimana ancora nessun segno di vita dal gorgogliatore: la cosa mi ha insospettito parecchio. Ho provato a premere ai lati del fermentatore e ho notato che, mentre inizialmente il livello del liquido nel gorgogliatore (vodka, in questo caso) si spostava, mantenendo premuto tornava piano piano a pari. C’era evidentemente un problema di tenuta. Ho allora aperto il fermentatore e ho trovato la bellissima sorpresa che si intravede nella foto sotto.

Ho quindi preso un bel po’ di pellicola trasparente, qualche elastico e ho avvolto il coperchio del fermentatore. Il gorgogliatore ha preso a fare bolle e non si è più fermato.

PROSSIMI PASSI

Per ora non ho preso campioni dai due contenitori, quindi non so a che punto siamo con la fermentazione e l’acidificazione. Ma non è importante saperlo ora. L’idea è di imbottigliare tra qualche mese creando un blend tra i due fermentatori, tentando di bilanciare le caratteristiche organolettiche delle due versioni. Se all’assaggio risultasse troppa acidità in entrambi i fermentatori, o poca, o nulla, ho in mente di produrre un terzo batch con la stessa ricetta, da fermentare velocemente, per aiutarmi nel blend.

Nel caso, fermenterò il nuovo batch con un lievito molto attenuante (un diastaticus, probabilmente il Belle Saison) per evitare che una volta blendato mi crei problemi di ripartenza in bottiglia. Se servirà, acidificherò il nuovo batch con Pilly Sour.

Per ora, diamo tempo al tempo.

Qui i risultati dell’assaggio, a un anno di distanza della cotta: https://brewingbad.com/2021/11/come-la-mia-flanders-red-ale-a-un-anno-dalla-cotta/

 

2 COMMENTS

  1. Ciao, complimenti per la capacità di affrontare sempre nuovi argomenti alzando continuamente l’asticella!

    Ti segnalo un video della Lallemand sul Philly Sour in cui si dice che se viene inoculato insieme a un lievito “normale”, il lievito “normale” vince e non viene più prodotto acido.
    https://youtu.be/LuYqYHRAiWQ

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