Produco spesso birre inglesi, per diverse ragioni. Anzitutto, perché mi piacciono molto. Stout, porter, bitter, barley wine sono tra i miei stili preferiti, da sempre. Secondo, trattandosi di stili generalmente poco luppolati, risentono meno dell’ossidazione. Questo significa che per chi, come me, non ha un sistema di fermentazione e imbottigliamento che limita l’ingresso di ossigeno, queste birre hanno in genere una migliore riuscita in termini di resa aromatica e le bottiglie durano di più. Terzo, ma non meno importante, si tratta di stili che non si trovano molto in giro. I birrifici inglesi moderni esportano soprattutto birre luppolate o imperial stout: difficile trovare bitter, irish stout, barley wine inglesi sugli scaffali dei beershop. Capita, ma non così frequentemente e, specialmente per le birre poco alcoliche, non sempre le bottiglie o le lattine sono in ottimo stato.
Se gli stili inglesi sono tutti poco diffusi in Italia, le british strong ale lo sono ancora meno, perfino nel mondo anglosassone. Come recita il BJCP (stile 17A), si tratta di una categoria che raccoglie tutte le birre inglesi che per qualche piccola sfumatura organolettica non rientrano negli altri stili. Fanno parte di questo gruppo per esempio barley wine poco alcolici, bitter troppo alcoliche, stout alcoliche ma troppo chiare, e via discorrendo. Le british strong ale rientrano nella grande famiglia birraria dei “winter warmer”, ovvero birre che riscaldano nei mesi invernali, da sorseggiare davanti a un fuoco di torba. Parliamo sempre di stili anglosassoni, quindi il range alcolico è piuttosto basso se ragioniamo in termini moderni. Il BJCP fa oscillare l’ABV nel range 5.5%-8%.
Le british strong ale sono birre maltate, con una buona nota alcolica, più o meno luppolate ma mai amare né eccessivamente aromatiche. Al naso dovrebbero avere il classico fruttato da lievito inglese, che spesso ricorda vagamente la mela verde e la pera. Un equilibrio difficilissimo da gestire a mio parere, perché basta un grado di temperatura di fermentazione in più per produrre un fruttato sgraziato, spesso bananoso, per nulla gradevole.
Veniamo agli esempi classici. Ammetto di non averne assaggiate molte, appunto perché si tratta di uno stile poco diffuso anche in UK. Tra i pochi assaggi degli ultimi tempi, due mi hanno colpito in particolare. Il primo è stato la Hick’s di un birrificio che ho molto a cuore: St. Austell, produttore della Cornovaglia maggiormente noto per le sue birre luppolate come la Proper Job e Big Job. La Hick’s è una British Strong Ale che sul sito della St. Austell viene definita “full-bodied and strong”, anche se ha solo 5% ABV (la versione in bottiglia che ho bevuto io ha invece 6% ABV). A me è piaciuta molto: maltata, abbastanza intensa ma sempre bevibile. Fruttato molto tenue, quasi impercettibile. Sul sito citano malti Maris Otter, crystal e black. A lei mi sono vagamente ispirato per la mia ricetta.
Un altro esempio interessante, che avevo già assaggiato in precedenza ma mai ben inquadrato nella mia testa, è la Abboccata di Birranova. Donato di Palma, fondatore e birraio del birrificio, è famoso per non indicare mai gli stili sulle bottiglie, cosa che a me in genere non fa grande piacere. A ogni modo, ho assaggiato questa birra alla cieca, durante un incontro con altri appassionati bevitori, trovandola particolarmente buona e soprattutto in stile. Cercando sul web viene quasi ovunque classificata come british strong ale, categorizzazione che mi trova d’accordo. Anche in questo caso il profilo del lievito non si avverte netto (non so se il lievito usato sia effettivamente inglese), ma la parte maltata è davvero buona con note di caramello leggere, frutta secca come datteri e uvetta e un tenore alcolico medio (siamo sui 6.5 %ABV). Cantina della Birra la classifica come belgian strong ale ma credo (e spero) sia un errore, altrimenti non ci ho capito davvero nulla (né io, né gli altri 5 che hanno assaggiato questa birra alla cieca con me).
RICETTA
In questa cotta ho voluto provare i malti Hook Head, che fino ad oggi non avevo mai utilizzato. Da quello che ho letto e sentito, il Pale dovrebbe essere una sorta di via di mezzo tra Golden Promise e Maris Otter. Viene coltivato in Irlanda, nella penisola di Hook. Avrei voluto usare un vienna come base, con le sue sfumature nocciolate, ma mi sono accorto che non ne avevo e ho ripiegato sul monaco. Una percentuale importante, per amplificare la parte maltata.
Come lievito avrei voluto usare il London Ale I o III, ma non erano disponibili e alla fine ho ripiegato sul Burton Ale, che non avevo mai provato. La White Labs gli attribuisce note fruttate di mela e pera, che possono starci in una English Stong Ale se ben gestite.
Luppolatura inglese (poca) in aroma, in amaro il Saaz solo perché ne avevo in eccesso.
Acqua sbilanciata sui cloruri per accentuare il malto, un pizzico di sale da tavola per aumentare il sodio ed esaltare la parte dolce.
FERMENTAZIONE
Essendo la prima volta che utilizzavo questo lievito (WLP023 Burton Ale), mi sono mosso un po’ a braccio. Ho impostato un profilo standard, partendo basso ma non troppo con l’intenzione di attenuare ma non sopprimere del tutto il profilo fruttato del lievito.
La busta di lievito aveva data di produzione Ottobre 2018, quindi a Marzo 2019 aveva ben cinque mesi sulle spalle. Sono partito con uno starter da 1 litro con agitatore. Il lievito non ha dato segni di vita per un giorno e mezzo, quando si è sviluppata una sottile schiuma in superficie. Dopo una altro giorno ho aggiunto un ulteriore litro e mezzo di mosto per avviare il secondo step. Questo mi avrebbe dovuto portare, stando a calcoli conservativi, a un pitch rate di circa 1 milione di cellule per millilitro per grado plato, quindi leggermente superiore al tasso standard i 0,75. Ovviamente tutto in linea teorica.
Grazie allo starter la fermentazione è partita abbastanza spedita, producendo un ampio krausen che mi ha costretto ad applicare un blow-off già al secondo giorno di fermentazione. Dopo 6 giorni la densità è arrivata a 1.016, per poi scendere lentamente fino a 1.015 nel giro di qualche giorno. Ho imbottigliato puntando a 2 volumi.
Un paio di note sulla fase di imbottigliamento
- Dato che non avevo tempo, ho imbottigliato senza sanitizzare le bottiglie. È una cosa che ogni tanto faccio. Non mi ha mai creato particolari problemi, considerando che lavo ogni volta le bottiglie in lavastoviglie dopo aver bevuto la birra e le tengo chiuse con tappo di gomma dopo che si sono asciugate.
- mentre sistemavo il sifone nel fermentatore, mi è caduta nel mosto una scatola di tachipirina che tenevo sul microonde. Ovviamente le pillole erano chiuse ermeticamente nel blister e ho ripreso subito la scatola, ma la mano e la scatola stessa sono entrate a contatto con il mosto per qualche secondo. Niente di drammatico, anche perché la birra non mostra segni di infezione evidenti, ma era giusto annotarlo visto che, come vedremo, qualcosa che non va in questa birra effettivamente c’è.
ASSAGGIO
Ho volutamente aspettato diversi mesi prima di scrivere questo post. La cotta risale al 6 marzo, l’imbottigliamento al 29 Marzo. Ho fatto diversi assaggi nel frattempo ma nessuno mi ha convinto appieno. All’inizio la birra era tutto sommato bevibile ma non particolarmente buona. Dopo un paio di mesi l’ho portata al gruppo di assaggio BJCP dove è stata bevuta alla cieca e non è piaciuta (nemmeno a me, a dire la verità, l’ho trovata addirittura peggiorata). L’assaggio descritto nel seguito si riferisce a una bottiglia con più di tre mesi sulle spalle. E le notizie non sono buone. Affatto.
ASPETTO Scende nel bicchiere con un buon cappello di schiuma, leggermente beige, a bolle medio fini. La persistenza è accettabile ma non entusiasmante. È abbastanza limpida, anche se a freddo si sviluppa una leggerissima velatura da chill haze. Il colore è molto bello, ambrato carico con riflessi rubino. A vederla promette bene.
AROMA Infilando il naso nel bicchiere arrivano subito le prime avvisaglie che qualcosa non va. Nonostante i tre mesi di maturazione e un livello di alcol tutto sommato contenuto, l’aroma è dominato da una nota etilica per nulla piacevole. Subito dopo si avverte un tappeto fruttato, troppo intenso, con note di frutta matura (pere, mela, ma soprattutto l’odiata banana). Per arrivare al malto bisogna lasciare il naso nel bicchiere a lungo, cercando di isolare la mente dagli aromi etilici e fruttati: ecco che allora si percepisce un filo di crosta di pane accompagnato da sfumature lievi di caramello/toffee. Fortunatamente non c’è diacetile, ma l’aroma è tutt’altro che piacevole. I primi assaggi avevano un maltato più intenso e pulito, anche se il fruttato spinto era sempre lì a rovinare la giornata.
AL PALATO Purtroppo le cattive avvisaglie percepite al naso si confermano portando la birra alla bocca. Entra molto esile, povera di intensità, dominata dalla nota etilica che si scontra con un amaro sgraziato. Per fortuna il tutto sparisce in pochi istanti, lasciando un retrogusto amaragnolo non molto piacevole. Il fruttato è ancora invadente con note di banana e pera mature. Anche in questo caso è peggiorata moltissimo: le prime bottiglie non erano esaltanti ma si potevano tutto sommato bere. Questa finisce nel lavandino appena finito l’assaggio.
MOUTHFEEL Corpo molto esile, quasi watery. La carbonazione è l’unico aspetto positivo: leggera, azzeccata, è rimasta stabile nel tempo nonostante le bottiglie siano state fuori dal frigo anche durante l’ultimo mese in cui la temperatura è arrivata oltre i 30 gradi. L’alcol brucia un po’, rafforzato da un amaro astringente.
CONSIDERAZIONI GENERALI Questa birra è un vero disastro, su tutti i fronti. Salvo solo l’aspetto visivo, tutto sommato piacevole e in linea con lo stile. La cosa più incredibile è che è notevolmente peggiorata con il passare del tempo, ma non so spiegarmi bene perché. Potrei dare tutte le colpe all’ossidazione, ma è difficile da valutare visto che il colore era già ambrato in partenza. Ho prodotto altre birre maltate con il medesimo approccio, ma nessuna è peggiorata così tanto in pochi mesi. Ha subito sicuramente un po’ di caldo nelle ultime settimane, ma già da prima non era particolarmente piacevole. La fermentazione è andata apparantemente bene, la temperatura è stata controllata come faccio con le altre birre. Lo starter mi pareva ben dimensionato, la densità finale era in linea. Dalla descrizione della White Labs a questo lievito viene attribuito un profilo fruttato, ma non me lo aspettavo così intenso con una fermentazione a 18°C. Forse sarei dovuto partire più basso, almeno per il primo giorno. Ma non è solo il fruttato che disturba la bevuta. Il malto è sparito, non esiste, nonostante le dosi non bassissime di malti crystal. Il monaco non è sicuramente il malto migliore da usare in questo stile (avrei preferito il vienna ma non ne avevo), ma al limite si sarebbe dovuto sentire troppo, non troppo poco.
Non saprei. Se l’avessi valutata alla cieca avrei probabilmente attribuito i difetti più evidenti a una errata gestione della fermentazione, e probabilmente è così anche se sulla carta ho fatto tutto seguendo il mio solito approccio. Una di quelle volte in cui qualcosa è andato evidentemente storto ma non sai bene spiegarti perché. Prossima volta sicuramente cambio lievito e tolgo il monaco.
Possibile che le bottiglie non sanitizzare e l’incidente in fase di imbottigliamento abbiano inciso? Sinceramente non credo: la birra non sembra in alcun modo contaminata e non presenta segni di sovracarbonazione . Piuttosto, è possibile che il lievito troppo “anziano” abbia compromesso la fermentazione, anche dopo esser stato rigenerato con uno starter multiplo. L’unica cosa evidente dall’assaggio è che, per qualche ragione, la fermentazione non è andata bene (come nel caso della Irish Red Ale).
Link alla seconda versione di questa birra -> https://brewingbad.com/2021/06/old-geezer-v2-british-strong-ale/
Un’ultima curiosità: in inglese “Old Geezer” suona più o meno come “vecchio trombone”. Era così che mi immaginavo mentre bevevo questa birra per vecchi, al bancone di un pub, fissando il vuoto e pensando alle gioie della vita. Tra cui certamente non annovero questa birra. 🙂
E’ sicuramente colpa della tachipirina…. 🙂
scherzi a parte le birre inglesi sono un casino… io adoro le bitter e non sono mai riuscito a farne una anche lontamente vicina a quello che immaginavo io…