Qualche tempo fa avevo acquistato della segale per utilizzarla in una delle tante versioni della mia saison (nello specifico, questa). Ne utilizzai un 15%, il resto mi rimase in dispensa. La segale è un cerale molto particolare, può essere piuttosto caratterizzante se impiegato nelle giuste dosi (di certo un 5% di segale in ricetta non cambierà le sorti di una birra). Si percepisce con un richiamo aromatico che solitamente viene definito “rustico” per via delle note pepate che sprigiona, soprattutto sul palato. Esiste anche uno stile dedicato interamente alla segale, le Roggenbier, classificate nel BJCP come stile storico della Germania. Da quello che leggo si tratta di una Dunkelweizen con il malto di segale al posto del malto di frumento (si utilizza infatti lievito da Weisse). Non ne ho mai assaggiata una, conto di farlo al più presto.
Come accaduto molte volte, gli americani a un certo punto hanno preso questo ingrediente e lo hanno messo dentro alla ricetta di una IPA. È così nata, ormai diversi anni fa, una nuova sottocategoria delle American IPA, le Rye IPA. Esistevano già nelle linee guida BJCP del 2008, come dettaglio della categoria 23 Specialty Beer, per poi conquistare un posto nell’indice generale nell’evoluzione 2015 delle linee guida, come sottocategoria delle Specialty IPA. Il bello di questo stile è che spesso rappresenta una sorta di viaggio indietro nel tempo nella storia delle IPA. Se ne possono trovare versioni anche moderne, chiare e poco maltate (il BJCP parla chiaro), ma spesso l’interpretazione dei birrai vede l’ingrediente speciale, la segale, incastonata in una cornice gusto-olfattiva che ricorda moltissimo le IPA americane di qualche tempo fa. Quelle modello “East Coast”, per intenderci: aromi per lo più resinosi/balsamici e agrumati, spina dorsale maltata ben presente con leggera spinta sui malti crystal e finale secco che le rende comunque facili da bere. La segale fa capolino con il tipico spunto rustico, a volte a mio avviso più come suggestione aromatica che vero e proprio aroma: “it may have low peppery rye malt aroma”, dice il BJCP.
Non ne ho bevute moltissime, ma ultimamente ho apprezzato la versione del birrificio Mukkeller, la Tulio Rye IPA, che mi è sembrata piuttosto in linea con la mia idea di Rye IPA. Un’altra che mi capitò di bere molto tempo fa è la Ruthless di Sierra Nevada.
RICETTA
La base di malti è leggermente più complessa di una classica IPA moderna. Come base ho usato solo malto Pale anziché il classico mix di Pale e Pilsner che ormai utilizzo quasi sempre nelle mie IPA, per dare maggiore risalto alle tonalità leggermente più tostate (biscotto, crosta di pane ben cotto). Ho usato tutta la segale che avevo in dispensa, arrivando al 18% del grist. Non solo per terminarla, ma soprattutto per caratterizzare la birra: usarne meno a mio avviso rende veramente effimero l’utilizzo di questo cereale in una ricetta del genere, orientata a far emergere la venatura speziata del cereale. Se impiegata in grandi quantità, la segale può rendere l’impasto gommoso e ostacolare la filtrazione, ma con il mio 18% non ho avuto nessun tipo di problema.
Come anticipato nell’introduzione, ho spinto leggermente sui malti caramel e crystal, rifacendomi alla intepretazione “old style” di questa birra. Inoltre, ho letto su diverse fonti che una base leggermente più intensa dal punto di vista maltato tende a far uscire meglio gli aromi della segale.
Una caratteristica di questa birra, sottolineata anche nella descrizione del BJCP, è la secchezza sul finale. Secondo loro è dovuta alla segale, ma io ho pensato di aiutarla impiegando un lievito molto attenuante: parliamo del ceppo Brett Trois, che nella versione della Omega Yeast è stato ribattezzato “Tropical IPA”. Un lievito inizialmente scambiato per Brett che si è poi rivelato un comune Saccharomyces (probabilmente variante Dyastaticus, vista l’altissima attenuazione). Grande attenuatore, se mantenuto a temperature medio/alte rilascia piacevoli aromi fruttati. Mi sembrava perfetto per questo stile.
Luppolatura classica con Chinook e Citra, quest’ultimo l’ho trovato solo in coni e me ne sono pentito: luppolare in dry hopping nel keg con i coni è scomodo, anche usando una sacca e dei pesi inox per farla affondare. Questa birra fa parte di un ciclo di prove (link) in cui ho sperimentato diversi approcci al dry hopping: in questo caso ho aggiunto il Citra a 2 giorni dall’inizio della fermentazione, per favorire la biotrasformazione; il Chinook è stato aggiunto a fermentazione finita, si è fatto un giorno a 22°C e 2 giorni a 9°C. Nessun travaso, spurgo o simili.
Ho usato acqua di rete di Roma prebollita. È un approccio un pò macchinoso ma la riuscita mi è sembra buona nelle ultime birre che ho prodotto.
Il mash l’ho tenuto un po’ alto nel tentativo di limitare l’attenuazione tipica di questo lievito, anche se probabilmente non c’è speranza di limitare la fermentazione di un ceppo variante Diastaticus semplicemente con un mash alto. Ma ci ho provato lo stesso.
FERMENTAZIONE
Per stimolare la produzione di esteri fruttati da questo ceppo di lievito, sono partito da una temperatura piuttosto alta: 24°C per un paio di giorni, poi 25°C e infine 26°C. Al quinto giorno di fermentazione la birra era già a FG (1,007). Dal grafico non si evince bene, ma il Chinook è rimasto a 9°C per circa 48 ore. Poi cold crash e riposo per una decina di giorni.
Come faccio ormai sempre, 5 litri sono passati nel fustino in contropressione e carbonati forzatamente, gli altri 5 sono stati imbottigliati con Beergun e rifermentati in bottiglia, con aggiunta di lievito da rifermentazione (0,04 g/L di Fermentis F2). Appena carbonate (dopo circa 5 giorni) anche le bottiglie sono state tenute in frigo.
ASSAGGIO
L’assaggio che descrivo in questo post è relativo a una bottiglia tenuta un paio di settimane in frigo dopo la rifermentazione. Avendo assaggiato sia la versione carbonata forzatamente che quella rifermentata, devo ammettere di non aver trovato differenze sensibili tra le due. Non ho fatto test alla cieca, ma la sensazione è stata quella di aver bevuto due birre del tutto simili in termini di resa aromatica.
ASPETTO Entra nel bicchiere formando un bel cappello di schiuma, con una discreta persistenza. Rimane sempre un velo sulla birra fino al termine della bevuta e la schiuma, mano mano che scende, forma dei merletti sul bicchiere. Tuttavia il cappello si riduce in ampiezza abbastanza velocemente. La schiuma è bianca, con bolle medio fini. Non è stato facile pulire la birra dal lievito, che è poco flocculante: a inizio bottiglia la birra è limpida, man mano che scende nel bicchiere inizia però a velarsi. Bel colore ambrato, con limpidezza variabile da buona a velata.
AROMA Molto buona l’intensità aromatica, con note evidenti di agrumi che ricordano pompelmo e scorza di limone. Resinosa quanto basta, con sentori di pino leggermente balsamici in sottofondo. Man mano che la birra si scalda nel bicchiere, l’aroma fruttato si apre sconfinando nel tropicale. Emergerono venature molto piacevoli di pesca, albicocca e mango, probabilmente dovute anche agli esteri della fermentazione. L’aroma di malto è delicato, fa capolino con suggestioni di caramello e crosta di pane. Chiude il quadro un tocco speziato, dovuto in parte all’alcol ma – forse – anche alla segale.
AL PALATO Più resinosa rispetto all’aroma, l’agrumato passa in secondo piano. Entra con un richiamo dolce dato dal fruttato (albicocca, mango, papaya), ben supportato da una buona base maltata con venature di caramello non invadenti e un piacevole e morbido tono biscottato che accompagna la bevuta. Lo speziato è presente, si avverte a fine bevuta sostenuto dal grado alcolico, lascia un caldo pizzicore a fine bevuta. Finale secco, con richiami agrumati nel retrolfatto. Amaro deciso ma rotondo, piacevole.
MOUTHFEEL Corpo medio nonostante la secchezza (merito probabilmente della segale), amaro ben piazzato ma non astringente. Leggero warming alcolico, che non disturba. Speziata al palato, stuzzica senza disturbare la bevuta. Carbonazione medio-bassa.
CONSIDERAZIONI GENERALI La definirei senza dubbio una birra riuscita. Oltre al fatto che mi è piaciuta molto (il fustino da 5 litri si è dileguato in pochi giorni), l’ho trovata molto aderente allo stile e all’idea di birra che avevo in mente. L’avrei preferita un po’ meno torbida, sarebbe forse bastata un po’ di pazienza in più durante la winterizzazione o la permanenza delle bottiglie in frigo. Ma fa nulla, ho apprezzato ugualmente!
Ciao
se non ho capito male hai usato della segale maltata.
Che differenze potrebbero esserci rispetto ai fiocchi, ,secondo te, da un punto di vista aromatico?
Credo molto poche. Sono malti base, tra versione maltata e versione non maltata (i fiocchi sono di fatto non maltati, leggermente scaldati per schiacciarli) non cambia granché in termini aromatici. Non credo si possa avvertire la differenza a questi dosaggi.
Buongiorno Frank,
se permetti, un paio di domande:
A) è possibile che la ricetta sia incompleta? Non trovo i quantitativi g/l del luppolo Belma;
B) nel caso in cui facessi la rifermentazione in bottiglia senza l’aggiunta del Fermentis F2, a che cosa andrei in contro?
Grazie, come sempre è un piacere leggere i tuoi articoli.
Ciao Andrea, la ricetta non è incompleta. Nella nota sotto alle gettate di luppolo trovi spiegato il perché: non ha senso indicare i g/L usati in amaro a 60 minuti, non è un parametro significativo e nemmeno i grammi assoluti, che variano in funzione degli alfa acidi del raccolto. Semplicemente metti in ricetta prima le gettate da aroma in base ai grammi litro, il resto lo metti a 60 minuti nella quantità che ti fa arrivare agli IBU totali previsti dalla ricetta. Per quanto riguarda il lievito da rifermentazione, aggiungerlo aiuta a far partire velocemente ila rifermentazione assorbendo più velocemente l’ossigeno che in genere finisce in bottiglia. Ma non è indispensabile.
Ciao Frank, grazie per i tuoi post molto dettagliati e precisi, ormai sei il mio punto di riferimento! Ho una domanda….. nella mia azienda agricola produco diversi cereali come: grano tenero (antiche varietà), grano duro, farro, segale…. Come potrei utilizzarli per inserirli in grist rustici per birre tipo saison, rye IPA ecc ecc? Io pensavo di cuocerli (pregelatinizzarli) in vapore, poi rullarli al mulino per malti, per poi essiccarli in essiccatore… secondo te posso evitare tutto questo sbatti semplicemente macinando ed inserendo nel grist? Ci sono pro e contro? Grazie mille in anticipo per i suggerimenti!
Ciao Carmelo, non sono grande esperto nella gestione di cereali non maltati. La cosa migliore sarebbe averli in fiocchi (credo nella pratica sia il primo processo che hai descritto), ma se non ne usi in quantità smodata puoi provare semplicemente a macinarli e inserirli in pentola con gli altri grani. Magari passando prima per una pausa di mash intorno ai 45-50 gradi per una ventina di minuti.
Grazie! Hai esperienze con il cereal mash?
No, ma è una strada che si può provare facilmente, specialmente su piccoli volumi