I difetti che si possono trovare nella birra sono molti. Basta dare un’occhiata a questa guida di ben 42 pagine per capire facilmente la dimensione del problema. Non è facile essere preparati a riconoscere tutti i difetti, anche perché alcuni fanno capolino raramente nella birra. Persino in quelle fatte in casa.

Io stesso, nonostante abbia provato diverse volte i kit Aroxa, sia come partecipante che come docente in corsi di degustazione, non sono ferratissimo su tutti i difetti. Proprio per questo ho ordinato un kit Siebel (li spediscono da Monaco) per fare un po’ di ripasso.

Non sono kit economici, ma rappresentano un buon investimento. Si possono acquistare in più persone dividendo la spesa, come ho fatto in passato con il kit Aroxa (link). Stavolta preferisco provarli da solo in casa, per concentrarmi adeguatamente e sperimentare anche diverse concentrazioni del difetto.

Tecnicamente, credo di essere abbastanza preparato sui difetti: ne conosco abbastanza bene l’origine chimica perché li studio e li racconto nei vari corsi di degustazione da anni. Percepirli e riconoscerli nella birra, però, è un altro paio di maniche. Serve tanto allenamento e anche consapevolezza che alcune percezioni, che siamo convinti di aver ben collegato a un determinato difetto, potrebbero trarci in inganno.

Quando sono in giuria nei concorsi, mi capita ogni tanto di trovarmi attorno quel tipo di giudice che in ogni birra trova dieci difetti tutti insieme, sebbene in piccola quantità. E allora mi domando: sono io che non sono capace? Può darsi, per carità; ma il dubbio che qualcuno – ogni tanto – la butti lì per darsi un tono, resta.

Così ho pensato di ragionare su alcuni difetti che raramente trovo nelle birre fatte in casa. L’obiettivo non è tanto criticare gli altri che invece li sentono (anche se a volte l’impressione è che se li inventino), ma domandarmi se sono io che non ho allenato il naso e il palato a sufficienza su questi difetti. Fatemi sapere cosa ne pensate nei commenti, sono molto curioso.

Autolisi

L’autolisi avviene quando le cellule di lievito di rompono. Questa rottura determina la fuoriuscita delle sostanze che si trovano al loro interno, generando potenzialmente diverse tipologie di difetti.

Il più comune è l’aumento delle sensazioni cosiddette “umami”, che ricordano il dado o il brodo di carne. Nelle birre scure questo tipo di difetto può emergere come aroma di soia.

Dalle cellule di lievito possono uscire anche composti solforosi, generando puzzette che spaziano dal cerino alla mondezza in decomposizione. A volte, si può arrivare anche alla gomma bruciata (pneumatico).

Se provate a lasciare un residuo di lievito al caldo per qualche giorno, vi renderete conto di quanto tutto ciò sia estremamente spiacevole. Un aroma fastidioso, a tratti rivoltante.

Non mi è mai capitato di avvertire l’autolisi nella birra a tale livello di intensità (quello emanato da residui di lievito lasciati al caldo per parecchi giorni), né in birra commerciale né in esempi prodotti in casa.

Poche volte, forse due o tre, ho percepito una sensazione umami in Barley Wine con più di una decade sulle spalle. Una nota sapida che non mi è dispiaciuta affatto. In birre scure molto invecchiate mi è capitato di trovare un aroma di soia non estremamente piacevole. Ma parliamo di casi estremi. Invecchiamenti lunghi, decisamente oltre lo standard, troppo anche per stili più resistenti all’invecchiamento.

Non ho mai percepito autolisi nelle birre fatte in casa.

Ricordo che di questo difetto parlai già molti anni fai, quando ero lanciatissimo nella mia crociata contro i travasi, che reputavo inutili e dannosi (link). Oggi molte cose sono cambiate, ma all’epoca (parliamo di 10 anni fa), molti homebrewer erano convinti di percepire aromi di autolisi quando non travasavano la birra subito dopo la fermentazione.

Questa fobia era talmente radicata nei vari thread sui forum (ma anche in diversi testi dell’epoca) da aver inizialmente instillato in me l’ansia da travaso. Passavo giorni a controllare periodicamente il fermentatore (che tenevo nell’armadio in corridoio) per verificare quando sarebbe uscita l’ultima bolla dal gorgogliatore per poi correre a fare il travaso.

In seguito scoprii che non era necessario, anzi: spostare la birra da un contenitore all’altro, specialmente con i vecchi secchi di plastica in presenza di aria, fa più danni che altro.

Questo perché ormai i lieviti, per quanto possano venire trattati male, sono di una qualità sufficientemente alta da non generare questo tipo di difetti, anche se lasciati per giorni a contatto con la birra nel fermentatore. Può capitare, specialmente se si maneggiano lieviti liquidi senza la dovuta attenzione, ma è un evento raro. Poco diffuso tra i principianti, che spesso ricorrono ai lieviti secchi, più facili da gestire.

Secondo me, ma potrei sbagliare, l’autolisi è un po’ come l’ossidazione: quando la birra ha qualcosa che non va ma non si riesce a capire bene cosa, si finisce per segnalare uno di questi due difetti. Hanno talmente tante sfaccettature aromatiche da risultare adatti per ogni occasione.

Ma l’autolisi vera, nelle birre di oggi, secondo è molto rara.

Colpo di luce (skunk)

L’aroma generato dal colpo di luce è difficile da descrivere. Viene definito semplicemente come skunk, che può essere sia l’aroma solforoso che emette la puzzola quando si sente minacciata, sia l’odore di certe varietà di marijuana (sembra derivi da composti solforosi anche in questo caso).

Il difetto si genera dalla foto-ossidazione indotta dai raggi ultravioletti che colpiscono gli iso-alfa-acidi dei luppoli. Dato che questi raggi vengono schermati dal vetro delle bottiglie marroni, è raro trovare lo skunk nelle birre fatte in casa, mentre è più comune nelle birre industriali, specialmente quelle di alcuni brand molto famosi.

Alcuni birrifici utilizzano un particolare tipo di estratto di alfa acidi pre-isomerizzati (come questo) che inibisce l’effetto della luce sul luppolo. Quindi non è detto che una birra in una bottiglia trasparente subisca necessariamente il colpo di luce.

Devo dire che mi sarà capitato di trovarlo al massimo un paio di volte in una birra fatta in casa, in tanti anni di giuria. Curioso come si possa invece generare molto velocemente nel bicchiere se beviamo la birra all’aperto, sotto il sole.

Difetto non fastidiosissimo, devo dire. A tratti anche tollerabile.

Esanale (erba tagliata)

Del difetto erbaceo ho parlato approfonditamente in un post precedente (link). In inglese viene chiamato “grassy” con riferimento all’aroma dell’erba appena tagliata. Chiaramente, in molto casi non è affatto un difetto ma una caratteristica positiva introdotta dall’utilizzo, in particolare, di luppoli continentali europei. In questo caso l’aroma grassy non deriva dall’aldeide esanale, ma dai terpeni del luppolo.

Quello che non ho mai percepito in un birra è proprio il difetto erbaceo legato all’aldeide esanale (qualcuno lo associa anche all’acetaldeide), nemmeno in una birra industriale.

L’esanale è una delle aldeidi che vengono misurate quantitativamente nella birra per valutarne lo stato di deterioramento. Fa parte, insieme al T2N (trans-2-nonenale, l’aroma di cartone bagnato) e a molte altre, delle cosiddette staling aldehydes, ovvero delle aldeidi che caratterizzano l’aroma di birra “vecchia”, non fresca.

Le aldeidi possono formarsi a partire da diversi composti, più comunemente derivano dall’ossidazione dell’alcol (etanolo o alcoli superiori, questi ultimi formano chetoni), dall’ossidazione degli acidi grassi insaturi (da qui deriva l’esanale) o dalla degradazione di alcuni aminoacidi (aldeidi di Strecker, tra cui la benzaldeide che apporta aroma e sapore dolciastro di mandorla).

Alcune aldeidi si formano nelle prime fasi del processo di produzione ma rimangono legate ad altri composti, senza impatti immediati sulla birra. Possono tuttavia liberarsi con il tempo, generando difetti.

In genere, questi processi degenerativi sono fortemente accelerati dalla temperatura: le birre tenute al caldo invecchiano prima. Per questo, i difetti legati a queste aldeidi sono tipici delle birre industriali che passano molto tempo nei giri infiniti della distribuzione non refrigerata.

Trattandosi molto spesso di degradazioni i cui precursori scaturiscono da ossidazioni a caldo durante la produzione del mosto (è il caso dell’esanale) per poi svilupparsi ulteriormente in bottiglia fino a diventare difetti (processo accelerato dal caldo), per certi versi questi difetti sono inevitabili se la birra è molto delicata, troppo vecchia e soprattutto se viene tenuta al caldo.

Scenario poco comune nelle birre fatte in casa, che in genere vengono trattate con cura da chi le produce, soprattutto se poi le deve inviare a un concorso. Il cartone bagnato mi è capitato qualche volta, probabilmente perché è più facile da identificare rispetto all’esanale.

Acido caprilico (cera, formaggio di capra)

Gli aromi caprilici derivano da tre acidi grassi che si trovano spesso nel latte di cocco e nel latte di alcuni mammiferi (tra cui, ovviamente, la capra): caproico, caprilico e caprico, tecnicamente definiti acido esanoico, ottanoico e acido decanoico in base agli atomi di carbonio che li compongono (6, 8 e 10).

Il nome comune di questi tre acidi deriva dal latino e significa ovviamente capra, perché ricordano gli aromi pungenti del formaggio di capra. Cosa c’entra la cera? Questa è una domanda che mi ha sempre lasciato perplesso.

In realtà, sono gli acidi a catena più corta (quindi caproico e caprilico) a ricordare la capra, mentre l’aroma di quelli a catena più lunga (caprico e anche l’acido dodecanoico, detto acido laurico) ricordano più la cera (waxy), lo strutto (tallowy, che sarebbe il concentrato di grasso bovino) o alcuni saponi non profumati (soapy). In fermentazioni “normali”, ovvero senza contaminazioni da lieviti selvaggi o batteri, sarebbero più comuni gli ultimi due acidi rispetto a quelli a catena più corta, il cui aroma ricorda più da vicino il formaggio di capra.

Il confine tra la percezione “caprina” di questi aromi e quella, meno fastidiosa, della cera, è molto personale. Questi acidi possono essere prodotti, in piccola quantità, anche dai comuni lieviti Saccharomyces ma soprattutto dai Brettanomyces. I Brett sono in grado di esterificarli in aromi piacevoli che spaziano dall’ananas, alla banana fino alla mela (link).

Detto ciò, mentre mi è capitato di percepire qualche aroma “caprino” in alcune birre “selvagge” prodotte in casa (ma anche commerciali), non ho mai trovato aroma soapy o di cera in birre fatte in casa. A essere sincero, nemmeno in esempi commerciali. Sebbene infatti alcuni degli acidi nominati prima si trovino comunemente nella birra (soprattutto nelle basse fermentazioni, stando a questo articolo), raramente riescono a emergere superando la soglia di percezione.

Oppure, più semplicemente, non sono sufficientemente allenato a percepirli.

Avete avuto esperienze con questi difetti? Fatemi sapere, sono molto curioso.

6 COMMENTS

    • Sì, anche se non è così immediato. Sicuramente se si inocula troppo poco lievito, le cellule devono riprodursi (per divisione cellulare) di più dando luogo a cellule più deboli che possono andare in autolisi prima. Però, penso anche che uan birra fermentata con così poche cellule, oltre all’eventuale atuolisi (comunque non sicura al 100%), avrebbe anche molti altri problemi piuttosto evidenti.

      • due schede diverse di due giudici diversi in due concorsi diversi mi hanno fatto notare questa cosa, una era una bassa fermentazione e bassa og, l’altra una quadrupel
        Di altri problemi legati alla fermentazione non ne hanno riscontrati
        Poi una provocazione: siccome il lievito ce lo metti per forza per fare birra e pure l’ossigeno per quanto bravo ce ne finirà sempre dentro…dire che un difetto è generato da uno o dall’altro è un bel paracadute per chi giudica (e magari non ha alcuna esperienza in produzione).

  1. Una volta in una irish red ale fatta assaggiare ad un mio amico, che beve raramente e quando lo fa beve corona, mi ha detto che sentiva odore di salamoia, che fra l’altro fino a quel momento io non sentivo…così ho analizzato le situazioni che hanno portato ciò…in effetti il giorno della cotta, fatto il mash in apro il frigo per tirare fuori il mio starter di wyeast 1084 e mi accorgo che avevo dimenticato di farlo…ma ormai era tardi…così non avendo lieviti secchi adeguati ho imoculato senza starter 1 bustina direttamente nel mosti, tra l’altro a due mesi alla scadenza.
    Immagino he sia stato lì il problema, visto la bassissima quantità di malti tostati….

  2. Nell’ultima saison che ho fatto. Lievito WLP 565 Pure Pitch Next Generation inoculato ovviamente senza starter. Fermentazione liscia, ma niente cold crush a causa del frigo non disponibile. Imbottigliato tutto con zucchero, ma senza lievito di rifermentazione. Risultato: entrata fresca con finale leggermente caprino abbastanza persistente. Aggiungo come difetto il dolce in quanto dopo un mese dall’imbottigliamento, con bottiglie tenute a 15-17 °C ho una birra carbonata a metà e leggermente dolce! Direi che me lo merito! 🙂

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here