Non sono un grandissimo fan delle birre luppolate, con gli anni mi hanno stancato. Ma quando trovo in qualche pub una Double IPA fatta davvero bene, mi esalto. Produrre questo stile in casa è un’impresa non facile per via dell’alcol e delle massicce dosi di luppolo da gestire.
Questa è la mia terza prova con lo stile, riuscita decisamente meglio delle due precedenti.
RICETTA
Per quanto riguarda i malti, ho scelto una via di mezzo tra le due Double IPA che avevo prodotto in precedenza: la prima era venuta molto chiara, la seconda invece piuttosto carica, al limite dell’ambrato. Ho scelto una via di mezzo, utilizzando malti Pale e Pils senza alcun Cara.
La piccola dose di destrosio serve in parte a rendere la birra più secca (ma non credo che un 5% cambi granché, in questo senso), in parte perché lo aggiungo insieme al luppolo in dry hopping, stimolando la fermentazione e riducendo nel contempo l’ossidazione.
Pe quanto riguarda la luppolatura, mi sono mantenuto come al solito su luppoli piuttosto classici come Citra e Simcoe, di cui amo la parte agrumata e resinosa, con l’aggiunta di Azacca, che dovrebbe virare leggermente sul tropicale. Il Citra l’ho usato a caldo perché era disponibile solo in formato coni (nel keg di fermentazione avrebbero fatto un casino), mentre il Simcoe l’ho aggiunto post fermentazione per preservare la sua parte dank/resinosa. Delle modalità di dry hopping ne parlerò in dettaglio tra poco.
Per la fermentazione, mi sono affidato al solito BRY-97. Inizialmente avrei voluto utilizzarne due bustine (una e mezza in realtà), ma alla fine ho valutato che, inserendo lo zucchero post fermentazione, sarei partito da una OG non troppo alta (1.066). Nel fermentatore sono arrivati circa 11 litri, il che corrisponde ad un pitching rate di 1 g/L usando una sola bustina. Direi più che sufficiente, mi sono tenuto l’altra bustina per una cotta successiva.
Ho avuto parecchie perdite durante il processo, per via della pesante luppolatura e per i coni del Citra, che hanno assorbito parecchia birra a fine bollitura. Lo avevo previsto, anche se le perdite sono andate leggermente oltre. Poco male.
Ho utilizzato l’acqua dividendola a metà tra acqua di Roma filtrata a carbone attivo e acqua osmotizzata. Non sarebbe stato indispensabile – altre volte ho usato solo acqua di rete aggiungendo parecchio acido lattico – ma ho preferito sfruttare il mio impianto a osmosi per ridurre le aggiunte di acido lattico con l’obiettivo di rendere il profilo organolettico il più morbido possibile. Probabilmente una preoccupazione eccessiva, ma facendo pochi litri me lo posso permettere.
Ho modificato leggermente l’acqua per alzare i solfati, ma siamo sempre su valori molto bassi, probabilmente quasi ininfluenti sul risultato finale.
Ho portato in bollitura e poi nel fermentatore un mosto davvero limpido, il che mi ha reso molto orgoglioso del mio impianto. Anche qui, probabilmente, l’impatto della limpidezza del mosto prima della fermentazione sul risultato finale non è particolarmente significativo, ma vuoi mettere la soddisfazione?
FERMENTAZIONE E DRY HOPPING
Ho aggiunto nutrienti a fine bollitura per aiutare il lievito, inoculato senza reidratare e senza ossigenare. Fermentazione partita a 18°C. Tutto è andato liscio.
Al quarto giorno di fermentazione, con il krausen ancora alto, ho aperto il fermentatore e aggiunto la prima dose di dry hopping, insieme al destrosio. Non ho aggiunto antiossidanti in questa fase perché la fermentazione era ancora attiva: il lievito avrebbe assorbito eventuale ossigeno introdotto con il luppolo.
Il keg che utilizzo per fermentare le luppolate è un jolly da 19 litri, il coperchio è quello con il terzo connettore (questo, ovvero quello pensato per carbonare con la carbonation stone). Uso questo connettore centrale come allaccio del gas (quindi come blow-off durante la fermentazione), mentre all’altro – quello laterale – collego uno spinone tagliato che arriva poco sopra il fondo. Da questo attacco lascio passare CO2 a bassa pressione mentre apro il coperchio per il dry-hopping, in modo che ci sia sempre un flusso di CO2 dal basso che riduca l’ingresso di ossigeno durante l’apertura del coperchio.
Sempre tramite questo allaccio con spinone, faccio bubbling per una trentina di secondi una volta richiuso il coperchio mentre il gas esce tramite il blow-off. In questo modo cerco di far uscire altro eventuale ossigeno introdotto durante l’apertura.
Ho ripetuto questo identico passaggio al successivo dry hopping, quello post fermentazione. In questo caso, però, insieme al luppolo ho aggiunto 7,5 mg/L di metabisolfito di potassio + 7,5 mg/L di acido ascorbico (acquistato su amazon). Avevo già usato con successo il metabisolfito in questo passaggio (link), questa volta ho provato il mix con l’acido ascorbico per ridurre ulteriormente i solfiti, che potrebbero dare aroma solforoso (in passato mi è sembrato di avvertirlo con dosi di metabisolfito più alte).
L’idea di miscelare acido ascorbico e metabisolfito mi è venuta leggendo la formulazione chimica dell’antiossidante Antioxin della AEB. L’acido ascorbico (vitamina C) viene ampiamente utilizzato nell’industria alimentare come additivo antiossidante, senza particolari controindicazioni.
Il luppolo aggiunto durante la fermentazione è rimasto in contatto con il mosto fino al travaso nel fustino da 10L dove ho lagerizzato, quindi per circa 10 giorni. Molti temono che questo prolungato tempo di contatto porti all’estrazione di composti astringenti, ma a mio avviso questo effetto è trascurabile con questi piccoli volumi di produzione.
Dopo il trasferimento nel fustino da 10L, ho tenuta la birra in frigo per una quindicina di giorni. Ogni tanto attaccavo la bombola di CO2 e portavo a circa 20 psi, per arrivare piano piano alla carbonazione desiderata.
ASSAGGIO
Se, come dico sempre, l’indicazione della riuscita di una birra è misurabile tramite la velocità del consumo quando la attacco alle spine del frigo in cucina, questa birra ha battuto sul tempo tutte quelle fatte quest’anno. Ho dovuto imbottigliare di corsa qualche litro per evitare di berne troppa, dati gli effetti collaterali della gradazione non proprio irrisoria (parliamo di 8.1% ABV). Passato l’entusiasmo iniziale, mi sono ripromesso di fare altri assaggi più ragionati in bottiglia. Ecco cosa ne è venuto fuori.
ASPETTO Schiuma bianca, bolle molto fini, ottima persistenza. La birra è di colore giallo quasi dorato, buona limpidezza. Una leggera velatura che non dà fastidio alla vista.
AROMA L’intensità è buona. Non da strapparsi i capelli, ma più che accettabile. Direi media tendente al medio-alto. Arrivano subito al naso note agrumate di pompelmo e cedro, seguite da una venatura resinosa che ricorda gli aghi di pino. Leggerissima frutta tropicale in sottofondo, tendenzialmente a carattere acidulo, come passion fruit e mango. Piacevole e leggero aroma dank nelle retrovie. Fermentazione pulita. Malto quasi impercettibile, ricorda genericamente il cereale. Fermentazione pulitissima, nessun estere. Alcol non percepito al naso.
FLAVOUR Tornano le note fruttate percepite al naso, con aggiunta di una venatura grassy che non arriva però al vegetale. Piacevole. L’agrumato tende più alla scorza di limone con venature amarognole. Note resinose di media intensità e passion fruit nel retrolfatto. Amaro deciso ma armonico. Leggermente dolce – più fruttata che dolce, in realtà – a metà sorso, il finale non è secchissimo ma sufficientemente asciutto. Qualcosa da migliorare in termini di bilanciamento complessivo al palato c’è, ma nel complesso scorre molto bene. Fermentazione pulita. Leggero sapore di alcol che ricorda al cervello di non esagerare con il sorso.
MOUTHFEEL Corpo medio. Calore alcolico avvertibile, non brucia ma potrebbe essere nascosto meglio. Vaghissima astringenza che a me non dà alcun fastidio. Discreta cremosità che si riduce sul finale del sorso dove l’amaro è più tagliente. Carbonazione media, azzeccata.
CONSIDERAZIONI GENERALI
La birra nel complesso mi è piaciuta molto, senza dubbio la migliore Double IPA che ho prodotto fino ad ora. Stemperati gli entusiasmi iniziali, l’assaggio ragionato ha portato alla luce qualche piccola sfumatura da aggiustare.
L’aroma potrebbe essere ancora più intenso. Non credo che aumenterò ancora i dosaggi del luppolo, almeno non con questo formato di luppolo. Potrei però ricorrere al formato cryo e aumentare leggermente le dosi in dry hopping.
In generale, si potrebbe aumentare un filo la secchezza cercando di rendere l’alcol leggermente più morbido. Qui è difficile capire dove operare. Non credo che aumentare il tasso di inoculo del lievito possa fare miracoli, ma è una strada che si potrebbe percorrere. Condurre il mash a 65°C anziché 66°C potrebbe aiutare.
Al di là di queste sfumature, sono davvero contento di questa birra. La trovo molto fresca al palato senza il minimo sentore di ossidazione, nemmeno nelle bottiglie riempite direttamente dal fusto con il solito Counter Pressure Filler della Kegland, a quasi un mese di distanza dall’imbottigliamento.
Il nome della birra, come qualcuno immagino abbia intuito, è dedicato all’arrivo di un grande batterista nella formazione degli Slipknot: Eloy Casagrande.
mah…
se posso dirti la mia, mettere tutta quella chimica nelle nostre birrette casalinghe mi lascia un po’ perplesso.
sarebbe un’ottima prova , la prossima cotta simile che farai, spezzarla in due: la prima da portare a termine senza “aggiunte”, l’altra metà con.
sono convinto che non troveresti differenze.
buone birre!
La birra è chimica, amico mio. 🙂 I solfiti vengono naturalmente prodotti dal lievito durante la fermentazione, l’acido ascorbico è vitamina C. Le prove senza le ho già fatte nelle birre precedenti, questo approccio le ha sensibilmente migliorate. Poi, se uno non vuole usare quesot tipo di additivi, è liberissimo farlo.