Nei primi anni di vita del blog, ho letto moltissimi libri su stili e produzione e pubblicato parecchie recensioni (link). Praticamente acquistavo ogni nuovo libro di birra che usciva, in italiano o in inglese, me lo leggevo e lo recensivo sulle pagine di questo blog.

Con il tempo, le recensioni si sono sensibilmente ridotte. In parte perché nel giro di pochi anni ho recuperato le lacune sulla lettura dei grandi classici, pubblicati prima che iniziassi a fare birra. In parte perché le nuove uscite hanno iniziato a incuriosirmi meno: vengono spesso ripetuti gli stessi concetti in formati diversi.

Quando però ho saputo dell’uscita di questo “Modern Lager Beer“, mi sono incuriosito. Può sembrare strano, ma sulla produzione delle birre lager, a livello scientifico, si sa ancora relativamente poco. Ne ho parlato qualche tempo fa in un post dedicato alla lagerizzazione, nel quale racconto come ancora si stia cercando di capire esattamente cosa avvenga durante i lunghi periodi che molte birre lager passano al freddo. Se davvero un lungo periodo al freddo possa rendere alcune birre migliori, e fino a che punto.

Le tecniche di produzione delle birre a bassa fermentazione, per molti aspetti, sono ancora legate a processi tramandati dalla tradizione, di cui si fatica a capire i veri effetti sul prodotto finito. Con gli anni si sono create fazioni che supportano con vigore l’uno o l’altro approccio – si pensi alla decozione -, ma ancora oggi non sembrano esserci certezze granitiche.

Gli ultimi libri dedicati alle birre a bassa fermentazione che ho letto sono quelli di Peter Bouckarert (Lager) e l’altro di Mark Dredge (dal fantasioso titolo Lager). Entrambi, specialmente il secondo, molto focalizzati sulla storia e pochissimo sulla tecnica. Lo storico libro più tecnico sul tema, quello di Greg Noonan (New Brewing Lager Beer), rimane una pietra miliare ma è molto focalizzato sulla produzione professionale, piuttosto dogmatico su alcuni aspetti (del tipo si fa così perché è così) e piuttosto vecchiotto. Credo sia anche fuori stampa, quindi trovarlo non è così facile.

Veniamo al nostro nuovo Modern Lager Beer, degli americani Hendler e Connolly.

MODERN LAGER BEER

Ammetto che dei due autori non avevo mai sentito parlare prima di acquistare questo libro. Hendler è il fondatore del birrificio americano Jack’s Abby Craft Lager, mentre Connolly è il direttore commerciale dello stesso birrificio. Sono sincero, non conoscevo nemmeno il birrificio, attivo dal 2011. Ma questo importa poco.

Il libro è stampato dalla Brewers Publications, editore piuttosto autorevole nel settore. Ha stampato libri come How To Brew di John Palmer, tutta la serie sul Belgio – tra cui Brew Like a Monk – e diversi libretti monotematici dedicati agli stili. Le premesse sono ottime.

L’indice di Modern Lager Beer mostra un percorso tematico simile ad altri titoli, con alcuni approfondimenti interessanti. Si parte dal definire cos’è una birra lager, per passare poi alle materie prime e arrivare alla fermentazione. Fino a qui, nulla di particolarmente eccezionale.

Si passa poi alla decozione, a cui viene dedicato un intero capitolo. Segue un capitolo sull’anidride carbonica e uno sulle tecniche meno diffuse per produrre e servire birre a bassa fermentazione.

Chiude con una serie di ricette di vari stili a bassa fermentazione, recuperate da famosi birrifici.

I CONTENUTI

Sulla prima parte, quella dedicata agli ingredienti, c’è poco da dire. Scritta bene,  abbastanza standard e non particolarmente approfondita. Utile per chi non ha mai sentito parlare di birre a bassa fermentazione, meno per chi mastica già qualche concetto. Ci sta.

Dal capitolo sulla fermentazione, la lettura inizia a complicarsi. Non tanto perché sia eccessivamente tecnica, ma perché vengono introdotte le innumerevoli variabili che possono influenzare il processo di produzione. Questioni che per lo più valgono anche per le alte fermentazioni, ma per le basse – dove spesso l’equilibrio delle varie componenti si regge su un filo sottile – ogni dettaglio acquisisce un rilievo maggiore.

Si parla delle modalità classiche di fermentazione (senza la pausa diacetile), di come si siano evolute nel tempo e per quali esigenze pratiche. Viene spiegato l’impatto del tasso di inoculo del lievito, dei nutrienti, delle temperature di lagerizzazione, dell’aerazione e di molto altro sul processo di fermentazione. Si inizia a intuire come sia difficile individuare delle certezze, e come, passando da un birrificio all’altro, ci si imbatta in approcci diametralmente opposti che portano a risultati altrettanto buoni. Le certezze iniziano a vacillare.

Il successivo capitolo, dedicato alla decozione, è abbastanza approfondito e ricco di esempi. Vengono descritti diversi profili di decozione, molto diversi l’uno dall’altro. Anche qui, si evince chiaramente come non esista una decozione universale: gli approcci sono molto vari e – per ovvie ragioni – conducono a risultati diversi.

Viene confermato che, con i malti moderni, la decozione non solo non è necessaria, ma può avere un impatto organolettico decisamente ridotto – se non nullo. Tanto che alcuni birrifici americani richiedono alle malterie orzo con un minore livello di modificazione per ottenere il profilo organolettico desiderato attraverso la decozione.

Tuttavia, il dubbio rimane. Per il mio stupore, sembrerebbe che non esistano esperimenti o prove consolidate che possano provare – o almeno suggerire in modo concreto – che la decozione abbia un effetto significativo sul profilo organolettico del prodotto finito. Qualche prova è stata fatta, ma non sono stati ricavati risultati significativi. Almeno così sembrerebbe, leggendo questo libro.

Viene  raccontato come la decozione, storicamente, non sia stata inventata per ottenere temperature di ammostamento più consistenti (come tante volte si sente dire). Probabilmente – utilizzando i malti poco modificati di una volta – attraverso la decozione si produceva un mosto meno fermentabile che rendeva più efficace la conservazione della birra durante i mesi estivi, grazie a una continua e lenta fermentazione a basse temperature.

Il problema di questo capitolo è che in realtà non dice molto dal punto di vista pratico. Non è chiaro se la decozione produca un mosto più o meno fermentabile. Sembrerebbe che questo dipenda dalle temperature degli step di ammostamento e non dalla decozione in sé, il che non mi sembra una grandissima scoperta.

Ci viene raccontato che per i birrifici moderni la decozione ha obiettivi totalmente diversi rispetto a quelli di un birrificio tradizionale, ovvero ottenere un mosto più fermentabile e birre più secche. Però, ripeto, sono obiettivi che si raggiungono facilmente anche senza decozione. Ma poi non è nemmeno del tutto vero, semmai è vero per una buona parte dei birrifici tedeschi.

Capitolo tutto sommato interessante, ma che gira troppo intorno al punto. Non mi ha entusiasmato, devo essere sincero. Capisco che il tema sia complesso e che non ci si potesse aspettare di arrivare a una conclusione definitiva. Ma le informazioni che vengono snocciolate, alla lunga, sono contraddittorie e poco pratiche.

Il successivo capitolo, dedicato alla carbonazione, mi è sembrato tirato un po’ troppo per le lunghe. Di fatto sostiene la teoria, largamente diffusa, che la carbonazione tramite spunding sia migliore della carbonazione forzata. Arriva anche a dire – come si legge e sente dire spesso – che la carbonazione con spunding produca una schiuma con bolle più fini. Le prove? Nessuna. Lo affermano gli stessi autori nel capitolo. Un approccio troppo dogmatico al tema della carbonazione, che avrebbero potuto snocciolare in un paio di paragrafi.

Segue un capitolo breve con accenni alle kellerbier, alle fermentazioni aperte, all’importanza del servizio, alle steinbeer. Carino, ma molto ad alto livello.

Si chiude con un capitolo con alcune ricette di birrifici famosi, utile per trarre qualche ispirazione da mettere in pratica.

IN CONCLUSIONE

Nel complesso, sicuramente un libro scritto molto bene e piuttosto interessante. Chi non ha molta dimestichezza con la produzione di basse fermentazioni troverà sicuramente tante nozioni da fissare bene in mente.

Quando si finisce di leggere il libro si ha la consapevolezza di quanto il mondo delle basse fermentazioni rappresenti ancora – per tanti aspetti – un mistero da sviscerare. Se da una parte lo sviluppo e l’applicazione di processi ultra-moderni ha portato al consolidamento di pratiche produttive universali, industriali e ben conosciute, dall’altra si sa ben poco sull’effettivo impatto dei processi più tradizionali come decozione, spunding e fermentazioni aperte.

Il libro apre a tutte le strade, come è giusto che sia. Da ingegnere quale sono, curioso delle spiegazioni tecniche che si nascondono dietri ai processi produttivi, sono però rimasto leggermente deluso. Rimane l’impressione che tutto, alla fine, sia lasciato al birraio e alle sue convinzioni, e che con approcci diametralmente opposti si possa ottenere, in fin dei conti, lo stesso ottimo risultato. Probabilmente è così, ma avrei gradito spiegazioni tecniche con evidenze più solide.

2 COMMENTS

  1. A me non è dispiaciuto. Non sono espertissimo di basse fermentazioni, per cui ho trovato interessante questo punto di vista statunitense sulle Lager. Poi sono un grezzo a fare birra, e gli approndimenti meno romantici e più tecnici mi annoiano un po’. Ciao Frank!

    • Certamente non è un brutto libro, anzi. Si legge bene. Purtroppo non dice nulla di nuovo, ma per chi ne sa meno – o per chi è meno tecnico – è senza dubbio una lettura valida.

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