Sempre in bilico tra la voglia di sperimentare e il poco tempo libero a disposizione (oltre al ristretto spazio), qualche mese fa ho adottato un metodo semplificato per provare nuovi lieviti e batteri: ogni volta che faccio una cotta, produco cinque litri di mosto in più e lo metto in una damigiana di vetro. Dopodiché scelgo un lievito particolare o un mix di lieviti e batteri e lascio andare la fermentazione a temperatura ambiente, senza alcun controllo della temperatura.
Questo approccio ha prodotto diverse birre interessanti, come la Santa Claussen, una fermentazione 100% Brett, la Erin Go Brett, una farmhouse ale e una discreta Belgian IPA di cui non ho parlato nel blog (nata dal mosto base della Negan IPA).
Questa volta sono partito dalla base della Cuppocoffee, una Irish Extra Stout, a cui ho aggiunto chips di rovere e Brettanomyces Claussenii. L’idea era di emulare le fermentazioni in botte tipiche delle porter agli inizi del 700. La birra di base, prodotta per festeggiare San Patrizio, era molto buona, forse una delle migliori ricette del blog. Vediamo dove ci ha portato questo percorso alternativo.
FERMENTAZIONE
Nella ricetta originale della Cuppocoffee ho utilizzato il lievito Irish Ale della White Labs (WLP004) con adeguato starter. Per questa fermentazione parallela, ho invece ripiegato su un lievito secco che avevo in frigo: il Workhorse della Mangrove Jack’s (M10). In inglese workhorse significa “cavallo da soma” ed in effetti questo lievito è un trattore: in soli due giorni di krausen è arrivato alla stessa densità finale che il lievito liquido Irish Ale ha raggiunto in una settimana.
Contemporaneamente al Workhorse ho inoculato una fialetta di Brettanomyces Claussenii della White Labs (WLP645) con data di scadenza a 4 mesi dal giorno dell’inoculo (quindi piuttosto fresco). Non ho preparato starter dato che volevo che partisse successivamente alla fermentazione dell’M10. E così è stato.
La temperatura durante la fermentazione primaria si è attestata intorno ai 23°C (temperatura del mosto) per poi stabilizzarsi alla temperatura ambiente di 21°C. Dopo un mesetto, con l’arrivo della primavera, la temperatura ambiente è salita a 22°C per scalare a 25°C nel corso delle ultime settimane di fermentazione.
A distanza di tre settimane dall’inoculo ho effettuato il primo e unico travaso. Complessivamente, la birra è rimasta nella damigiana per tre mesi e 10 giorni. Ho fatto molta attenzione ad aprire la damigiana il meno possibile per limitare l’ingresso di ossigeno che induce i Bret a produrre acido acetico.
I primi segni dell’azione dei Bret sono arrivati dopo un mesetto, con la formazione di una pellicola e alcune bolle in superficie.
Non avendo registrato alcun calo di densità nell’ultimo mese di fermentazione (letture da rifrattometro a inizio e fine mese), ho deciso di imbottigliare anche se la densità era ferma a 1.018.
Teoricamente si sconsiglia di passare le birre brettate in bottiglia se la densità non è scesa sotto il minimo sindacale di 1.010, ma il trasloco impellente mi ha impedito di aspettare ulteriormente. Se la massiccia presenza di malti scuri limita solitamente l’attenuazione dei lieviti “standard”, con i Bret bisogna stare attenti perché generalmente sono in grado di mangiare anche zuccheri complessi. Non avendo alternativa, sono stato costretto a imbottigliare avendo l’accortezza di usare bottiglie con vetro spesso e limitare i volumi di carbonazione.
OAK CHIPS
La mia esperienza con le chips di rovere non è stata felice. Le ho aggiunte una volta in una imperial stout con risultati deludenti: gushing e aroma di legno nullo. All’epoca le avevo anche imbevute nel Talisker per diverse settimane, dopo averle bollite per cinque minuti. Il dosaggio è stato di 1 grammo per litro di birra, con un tempo di contatto di 5 giorni. Inizialmente pensavo che la birra si fosse infettata, ma il confronto con la versione senza chips, anch’essa sovracarbonata, mi ha tolto questo dubbio. Evidentemente le chips avevano lasciato dei piccoli pezzetti di legno nella birra che hanno agito come punti di nucleazione per la CO2, dando luogo all’effetto gushing.
Per questa birra ho aumentato la dose, utilizzando 10 grammi di chips per 5 litri di birra (2 g/L). Il tempo di contatto è stato di 5 giorni. Per sanitizzare le chips e attenuare l’effetto astringente del legno, ho portato a ebollizione un po’ di acqua, ho spento il fuoco e ho lasciato le chips a bagno per 15 minuti.
Le chips sono quelle francesi della Vinoferm a media tostatura (link).
IMBOTTIGLIAMENTO
Per questa birra ho sperimentato un metodo di imbottigliamento diverso che credo da ora in poi utilizzerò per tutte le birre fermentate in damigiana. Anziché travasare in un fermentatore e aggiungere lo zucchero per il priming, ho aggiunto una soluzione di zucchero e acqua direttamente nelle bottiglie (che erano poche vista la modesta quantità da imbottigliare). Il travaso dalla damigiana alle bottiglie è avvenuto tramite sifone e la classica asta da travaso.
Per il calcolo della quantità di zucchero da utilizzare nella soluzione di priming consiglio di utilizzare il file di Sgabuzen Homebrewing (link). Io ho fatto di testa mia rendendomi conto solo successivamente di aver sbagliato, per fortuna in difetto: la carbonazione obiettivo era di 1.8 volumi, credo di essere arrivato massimo a 1.5 volumi.
Dopo aver travasato tutta la birra nelle bottiglie, sempre con la stessa siringa, ho aggiunto lievito da ricarbonazione CBC-1 della Lallemand in ogni bottiglia (0.04 g/L).
ASSAGGIO
Premetto che questa birra andrebbe invecchiata per almeno 6 mesi, ma anche un anno, prima di poter godere appieno dell’effetto dei Brett. Come sempre, mi sono comunque lanciato in un assaggio “prematuro” in modo da avere un punto di riferimento per gli assaggi futuri.
Sempre a causa del trasloco, non ho purtroppo potuto mantenere le bottiglie alla giusta temperatura. Le ho trasferite in una pseudo cantina seminterrata dove la temperatura, d’estate, arriva facilmente intorno ai 30°C. Ce ne faremo una ragione. 🙂
La buona notizia, anzi ottima direi, è che la birra ha rifermentato senza sovracarbonare, nonostante il gran caldo. A distanza di due mesi dall’imbottigliamento, la carbonazione si è mantenuta su un livello medio basso. Speriamo si mantenga nel tempo.
Nel bicchiere si forma una discreta schiuma a bolle medio/fini, di color cappuccino, che quasi scompare del tutto in breve tempo.
Al naso l’aroma è di media intensità con note decise di caffé e cioccolato amaro. Fanno capolino delle venature ferrose e un tenue aroma funky (molto, molto tenue). Il legno è ben presente, con note di tabacco. Il Bret si sente pochissimo, possibile anche che la mia sia solo suggestione.
Al palato si presenta con una carbonazione molto bassa, quasi impercettibile. Entra piuttosto intensa con note decise di caffé e cioccolata. L’amaro è di media intensità e l’astringenza è sotto controllo. Lascia un retrogusto dolciastro che ricorda la cioccolata al latte, con evidenti note legnose discretamente piacevoli. Il corpo è medio/esile.
Un esperimento davvero interessante, da cui mi aspetto una buona evoluzione con il passare del tempo. Tra qualche mese, se le altre bottiglie non esploderanno nel frattempo, proveremo un nuovo assaggio.