Ammetto candidamente di essere passato per la fase negazionista. Per un periodo iniziale, quando ancora si parlava poco di contropressione o sistemi isobarici, ero convinto che le paure dell’ossidazione, a livello casalingo, fossero in buona parte ingiustificate. Raccontai le mie perplessità in un post di quasi tre anni fa, cercando di mettere in guardia chi iniziava a fare birra in casa da questa ossessione che sembrava dilagare tra i birrai casalinghi. Che poi, andando oltre il titolo del post – volutamente provocatorio, come sempre – non scrivevo cose assurde. La mia non era proprio una negazione dell’ossidazione, ma la constatazione che probabilmente il gioco non valeva la candela. Nella conclusione del post affermavo con determinazione: “Non credo mi vedrete mai mettere in piedi un sistema di imbottigliamento in contropressione, anche se non è escluso che un giorno non mi metta a fermentare nei fusti jolly”.
Oggi, tre anni dopo, fermento nei fusti jolly e ho messo in piedi un sistema di imbottigliamento in contropressione, anche se – in parte – continuo a rifermentare in bottiglia ed evito – per ora, ma non si sa mai – di imbottigliare birra già carbonata con sistemi isobarici, approccio più laborioso e impegnativo in termini di tempo. Non mi sento tuttavia di escludere qualche prova sul campo in tal senso, prima o poi nel futuro. Del resto, come ho detto e scritto più volte in queste pagine, solo gli stupidi non cambiano mai idea. Ma torniamo al negazionismo.
Sebbene nel post di cui sopra affermassi che l’ossidazione rovina la birra, specialmente quelle pesantemente luppolate, nel profondo ero convinto che tutto sommato si potessero produrre buone birre con abbondanti dosi di luppolo anche senza avere una bombola di CO2 in casa e un sistema di imbottigliamento quantomeno in contropressione, se non addirittura isobarico (con isobarico intendo un sistema in cui si termina la fermentazione in pressione e si imbottiglia birra già carbonata, dopo aver evacuato la bottiglia dall’aria tramite pompa per il vuoto e saturazione di CO2).
Sono ancora convinto che si possono produrre discrete birre luppolate anche senza attrezzature complicate ma devo ammettere che, da quando utilizzo il nuovo setup in contropressione, le mie birre luppolate sembrano nettamente migliorate. Proprio in tal senso ho fatto diverse prove negli ultimi mesi, in parallelo a uno studio approfondito sul luppolo partito dal libro di Scott Janish “The New IPA” (che, nuovamente, consiglio di acquistare, leggere e rileggere) ed esteso a diversi altri articoli trovati sul web. È arrivato il momento di fare il punto della situazione, alla luce delle ultime tre cotte di luppolate che riassumo sinteticamente nella tabella qui sotto (cliccando sull’immagine potrete vedere il testo ingrandito).
Le tre birre: osservazioni sparse
Tutte e tre le birre nella tabella sopra sono state fermentate nel fusto jolly con blow-off (quindi non in pressione) e trasferite in contropressione a fermentazione ultimata. Cinque litri di ciascuna birra sono andati in un fustino inox (precedentemente riempito di acqua pre-bollita e svuotato poi dall’acqua con CO2), i restanti litri sono stati trasferiti in bottiglia tramite Beergun (qui il procedimento). La birra nel fustino è stata carbonata forzatamente con applicazione di CO2 a pressione, quelle in bottiglia sono invece rifermentate con aggiunta di lievito da rifermentazione. Le birre nel fustino sono state sempre tenute in frigo, quelle in bottiglia hanno passato 5-6 giorni a temperatura ambiente per ricarbonare, da lì in poi sono state sempre in frigo. Mediamente, nel giro di un mese e mezzo, i 10 litri ottenuti da ogni batch sono terminati. Questa è la shelf-life che pretendo dalle mie birre luppolate, non mi interessa averne di più. Produco pochi litri anche per questo: consumare il batch in tempi ragionevoli senza ingozzarmi.
Il dry hopping, tranne in un caso (il Citra della Rye IPA, in cui ho usato coni: mai più) è stato fatto con pellet libero immesso dall’alto aprendo il keg. Dopo l’inserimento ho richiuso e insufflato un po’ di CO2 tramite pietra porosa che arriva quasi sul fondo. In questo modo spero di aver spinto la maggior quantità possibile di ossigeno fuori dal keg. Le luppolature con lievito ancora attivo sono meno rischiose in questo senso, perché la CO2 della fermentazione tende a spingere l’ossigeno fuori tramite il blow-off, il resto tendenzialmente lo dovrebbe assorbire il lievito senza grandi problemi. I coni mi hanno creato un sacco di problemi nel keg: non vanno a fondo bene anche se inseriti con sacca e pesi, tendono a tappare la linea della birra e inoltre, a causa della loro forma non compatta, introducono una maggiore quantità di ossigeno.
La seconda birra l’ho recensita nel dettaglio sul blog qualche tempo fa, la recensione della terza (la Rye IPA) arriverà a breve. La DDH Pale Ale era il primo esperimento di infustamento e imbottigliamento in contropressione, trovate solo alcune considerazioni generali sul processo e un accenno al problema che ho avuto con il diacetile nel fustino. Nel complesso, da quando utilizzo il nuovo approccio con fusto jolly, keg e Beergun, mi sembra di aver notato un netto miglioramento nel profilo della luppolatura. Oltre all’intensità, che mediamente viene fuori più grintosa, le birre ne hanno guadagnato anche in pulizia aromatica. Ho trovato gli aromi luppolati meno impastati, più cristallini e netti. Ovviamente si tratta di confronti basati su ricordi e impressioni, nessun test a triangolo alla cieca o confronto diretto tra le birre (che finivano prima di poter essere confrontate tra loro).
In generale le ho trovate migliori delle mie vecchie luppolate. Decisamente. Di queste vecchie produzioni, un paio riuscirono piuttosto bene (link1, link2) anche con il metodo classico, ma nella luppolata belga (la Dar Adal) ricordo nettamente un veloce imbrunimento del colore con sfumature quasi rosa e, probabilmente, una riduzione repentina della carica aromatica. Difficile operare confronti con i ricordi organolettici del passato, soprattutto per via del bias cognitivo causato dalla variazione dell’approccio produttivo: dopo aver speso soldi e tempo in nuova attrezzatura, i miglioramenti uno tende a sentirli anche se non ci sono. Le tre nuove birre mi sono sembrate comunque molto buone, pulite e fresche nell’aroma.
Tra le tre, la seconda e la terza mi sono sembrate migliori. Probabilmente perché avevo preso la mano con l’attrezzatura (la prima ha avuto problemi di diacetile nel fustino). Seconda e terza sono due birre molto diverse: una “semplice” session IPA la seconda, una birra con segale e lievito particolare la terza. Parliamo del Brett Trois, un ceppo che fermenta a temperature abbastanza alte (25-26°C) producendo aromi fruttati, spesso tendenti al tropicale. Come si nota dalla tabella sopra, ho sperimentato diverse luppolature: in termini di varietà di luppolo, di quantità impiegate e di metodologie per il dry hopping. Nella prima birra ho aggiunto il luppolo in un’unica gettata con fermentazione in corso alla temperatura di fermentazione; nella seconda ho diviso le gettate in due, una durante la fermentazione e l’altra dopo; nella terza ho usato un approccio simile alla seconda, ma ho ridotto le quantità e la seconda gettata l’ho fatta dopo aver abbassato la temperatura della birra a 10°C. Tutte e tre le birre hanno avuto il luppolo a contatto con il mosto, senza travasi né spurghi, per 15-20 giorni. E qui veniamo al primo argomento che vorrei affrontare.
Il luppolo e l’astringenza vegetale
Molte idee che abbiamo sul luppolo vengono dai primi esperimenti dei birrai casalinghi di molti anni fa, raccontati e tramandati in libri che ormai risultano inevitabilmente un po’ datati. Negli ultimi tempi, grazie anche all’avvento e alla diffusione delle New England IPA (dette anche NEIPA o Juicy/Hazy IPA), caricate con vagonate di luppolo, sono stati condotti molti nuovi studi che hanno portato evidenze empiriche in netto contrasto con le vecchie convinzioni. Una di queste impone di contenere i tempi di contatto tra birra e luppolo durante il dry hopping, pena una eccessiva estrazione delle componenti vegetali (polifenoli) dal luppolo. Questo porterebbe a un amaro tagliente, astringente, quasi da bustina di tè lanciata in bocca e masticata. Questo non è accaduto in nessuna delle mie tre birre, sebbene i tempi di contatto con il luppolo siano stati ben superiori ai classici 3-4 giorni. Un paio (le prime due) davano una leggera sensazione di vegetale sul finale, ma nulla di trascendentale. Del resto si assestano su dosaggi di luppoli medio alti, con la seconda (nella quale questa sensazione si notava anche meno della prima) che arrivava quasi a 8 g/L in dry hopping.
Che il tempo di contatto non influisca particolarmente sull’estrazione dei polifenoli è cosa nota e confermata da diversi studi. Cito un articolo particolarmente interessante, disponibile gratuitamente a questo indirizzo, da cui ho estrapolato i due grafici sotto che evidenziano l’estrazione dei polifenoli in funzione di tempo e temperature di dry-hopping.
Come si evince dai grafici, l’estrazione dei polifenoli si completa nel giro di 2-4 giorni. Nei successivi 14 giorni la loro concentrazione nella birra rimane costante, anzi, al 14esimo giorno inizia addirittura a diminuire (probabilmente per via della precipitazione sul fondo). Dai grafici emerge invece un’altra informazione importante: l’estrazione dei polifenoli diminuisce con la riduzione della temperatura. La dinamica di estrazione è la medesima e si completa sempre nel giro di pochi giorni, ma conducendo il dry hopping a 4°C si estraggono meno polifenoli. Quello che non si evince dal grafico è che a basse temperature si riduce anche l’estrazione di oli essenziali, quindi la scelta della temperatura a cui effettuare il dry hopping è sempre un compromesso tra estrazione di aromi ed estrazione di polifenoli. Quello che è certo, tuttavia, è che un tempo di contatto prolungato non incide sull’estrazione di sfumature vegetali dal luppolo. Consiglio quindi di evitare inutili travasi (sia tra keg che tra fermentatori classici) che non farebbero altro che introdurre ossigeno diminuendo la carica aromatica del luppolo. Lasciate che il luppolo si depositi sul fondo con un bel cold crash (abbattimento di temperatura di qualche giorno) e pescate dall’alto quando imbottigliate/infustate. Se si è dotati di fermentatore troncoconico con possibilità di spurgo, si può ovviamente spurgare dopo 3-4 giorni dall’inizio del dry-hopping, ma non è necessario.
Se non siete ancora convinti, vi rimando a questo articolo di Vinnie Cilurzo, fondatore del birrificio californiano Russian River e “inventore” – si dice – della prima Double IPA della storia, la Pliny The Elder. Cito testualmente: “For Pliny the Elder, we dry hop for 12 to 14 days”. Più avanti nell’articolo, dice anche che dopo 6 giorni aggiungono altro luppolo e rimettono in circolo i residui della prima gettata che nel frattempo si sono depositati sul fondo.
Unica nota da tenere a mente: Cilurzo spurga il lievito prima di fare dry-hopping. Sarebbe una cosa da fare effettivamente, per evitare che gli oli essenziali vengano “strippati” via dalle cellule di lievito. Tuttavia, non avendo un troncoconico, preferisco evitare questo passaggio per non fare travasi generando ossidazione. Sempre ragionando per compromessi e rapporto rischi/benefici.
Come funziona l’estrazione degli oli essenziali
Se il libro di Scott Janish ha un merito (in realtà ne ha molti), è quello di aver finalmente schematizzato in modo semplice la composizione degli oli essenziali nel cono di luppolo. Nel suo libro “The New IPA” c’è una sola infografica, ma è quella essenziale. Semplificando al massimo, le macro-classi di composti presenti negli oli essenziali sono tre: terpeni, terpeni ossigenati e composti dello zolfo. Semplificando ancora, possiamo associare a questi composti della grandi classi aromatiche:
- Terpeni = resinoso/balsamico/pino
- Terpeni ossigenati = agrumato/floreale/erbaceo
- Composti dello zolfo = tropicale e in alcuni casi aglio/cipolla
Queste tre classi di composti presentano una solubilità nel mosto molto diversa. I terpeni sono poco polari, quindi poco solubili. Questo significa che tendono a precipitare sul fondo della birra o del mosto in un tempo piuttosto breve. Se si è alla ricerca di una forte “botta” balsamico/resinosa nella birra, il luppolo va aggiunto il più tardi possibile nel processo. Meglio in questi casi un dry-hopping post fermentazione, possibilmente senza lievito in sospensione in quanto favorisce la precipitazione di questi composti (questo spiegherebbe anche l’approccio di Vinnie Cilurzo che rimette in circolo il luppolo dopo qualche giorno: la botta resinosa/balsamica della Pliny The Elder è incredibile).
I terpeni ossigenati sono invece molto più polari e si solubilizzano meglio nel mosto. Alcuni di loro incorrono anche nella famosa “biotrasformazione” (ne ho parlato in questo post), quindi ha senso fare in modo che passino attraverso la fermentazione facendo late hopping a fine bollitura o in hop stand, ovvero aggiunta di luppolo post bollitura e attesa di 20-30 minuti, con mosto sotto i 75°C; oppure, ancora, aggiungendoli proprio durante la fermentazione. Sono abbastanza volatili, non resistono alla bollitura e in parte si volatilizzano anche durante la fermentazione insieme alla CO2. Essendo però maggiormente solubili dei terpeni non ossigenati, sono i primi che saturano in soluzione: aggiungere luppolo oltre una certa quantità non li fa aumentare in concentrazione, mentre porta a un aumento in soluzione degli altri composti (come i mirceni resinosi ma anche i polifenoli). Questo spiega perché aumentare esageratamente la quantità di luppolo aggiunto in dry hopping non risulta sempre in un incremento dei toni fruttati/agrumati ma può addirittura renderli secondari e meno percepibili, andando ad aumentare le note resinose/balsamiche/vegetali. Facendo riferimento alle tre birre che ho prodotto, mi sembra di aver riscontrato questo fenomeno (ma c’è da dire che nella terza è stato significativo lo zampino del lievito).
Si trovano diversi articoli su questo tema, ne cito uno disponibile gratuitamente qui, da cui ho estrapolato il grafico seguente in cui i pallini bianchi indicano la concentrazione dei vari composti nel mosto dopo il dry hopping, mentre quelli neri la loro concentrazione nella materia vegetale spurgata dal dry hopping. Si vede chiaramente come i terpeni (sesquiterpeni e monoterpeni) siano finiti quasi per intero nella materiale vegetale rimasta nel fermentatore (o spurgata), mentre i terpeni ossigenati (in questo caso gli alcoli dei monoterpeni) si siano solubilizzati maggiormente nella birra.
Iso-coumulone e amaro pungente
Molti homebrewer, ma anche diversi birrai, sostengono che i luppoli con alta concentrazione di coumulone (uno degli alfa acidi responsabili dell’amaro) apportano un amaro più pungente e sgraziato. Questa è una convinzione che circola da molto tempo e che diversi libri citano quando si parla dell’amaro. Devo dire che personalmente ho sempre trovato difficile riuscire ad attribuire i difetti di astringenza e amaro pungente alla specifica varietà di luppolo, visto che può dipendere da molteplici fattori del processo come pH di bollitura, quantità di luppolo aggiunta in bollitura, polifenoli estratti dal malto, pH della birra finita, tempi di dry hopping e mille altri fattori. Sono quindi stato sempre piuttosto scettico su questo aspetto, ma ho anche pensato che magari sono io a non avere la capacità analitica per avvertire queste differenze.
Leggendo poi il libro di Janish, nello specifico a pag. 25, trovo citato proprio questo aspetto. Janish racconta che si tratta di una convinzione che risale a un articolo pubblicato nel 1972 che descrive un esperimento sensoriale in cui sono state messe a confronto diretto due birre: una prodotta con luppoli ad alto coumulone e la stessa ricetta prodotta con luppoli a basso coumulone. Peccato che una successiva analisi quantitativa sugli IBU delle due birre rivelò una sostanziale differenza di IBU effettivi nelle due produzioni, con una birra molto più amara dell’altra. Questo ha reso l’esperimento piuttosto inaccurato, ma non fu sufficiente a scardinare la convinzione che il coumulone porti un amaro più tagliente e ruvido. Personalmente non ho notato queste differenze, ma in molti ancora sostengono di sentirle. A posteri l’ardua sentenza.
Conclusioni
Come potete ben immaginare, conclusioni definitive non ce ne sono. I temi trattati in questo post, sebbene abbastanza corposo e lungo, coprono solo una parte ridottissima di tutto ciò che si può dire sul luppolo e sul suo utilizzo. Senza contare che molti aspetti e dinamiche sono ancora poco conosciuti. Quello che ci tengo però a sottolineare è che le variabili in gioco sono moltissime ed è importante sperimentare, senza necessariamente ridurre le opzioni per l’utilizzo del luppolo ai soliti tre o quattro suggerimenti stantii che girano da anni (alcuni effettivamente validi, altri quantomeno discutibili). A mio avviso è importante andare oltre e aprire la mente, leggere, studiare e sperimentare. Analizzare i risultati senza preconcetti, per quanto possibile.
Non esiste un unico modo “corretto” per fare il dry hopping, esistono diversi approcci che portano a risultati diversi. La luppolatura a fine bollitura non si può sostituire con il dry hopping e viceversa. A temperature più alte si estraggono più oli ma anche più polifenoli, a temperature basse l’erbaceo è più delicato ma si estrae meno di tutto. Più luppolo non significa necessariamente più aroma, spesso si traduce in aroma “diverso”. Si può luppolare durante la fermentazione, amplificando gli aromi fruttati ma prdendone una parte insieme al lievito che si deposita e alla CO2 che esce dal fermentatore; oppure si può luppolare a fermentazione finita per incrementare la componente balsamica ed erbacea. E questi sono solo alcuni aspetti, ce ne sarebbero mille altri da raccontare e altri ancora che nemmeno conosco.
Vi lascio con un video di quasi due ore di Homebrewing Pills, dedicato interamente al dry hopping e al luppolo. Una bella e interessante chiacchierata tra il sottoscritto e due homebrewer molto bravi ed esperti: Luca Cottini, il pioniere italiano della contropressione e dell’isobarico, e Giulio “Gus” Cervi, tecnicissimo e malato del luppolo (detto con grande affetto e soprattutto stima). Buona visione!
Bellissimo articolo!!! Grazie
Molto interessante, come sempre! Suggerisco anche il post https://bsgcraftbrewing.com/reevaluating-dry-hop-techniques che, pur essendo molto orientato alle dinamiche proprie di un birrificio, riporta diversi studi interessanti sul dry hopping “moderno”.
ciao Frank, posso dire con orgoglio che la tecnica di suddividere il dry hop in più gettate e in momenti differenti della fermentazione la utilizzo dalle mie prime cotte di luppolate nel 2012,
variando anche i tempi di contatto e temperature, limitandoli a 3 giorni (al tempo però travasavo) in tempi in cui gli addetti ai lavori e pure i muri sostenevano che se non mantieni il tempo di contatto almeno 10 giorni NON SUCCEDE NULLA!!
Ti ringrazio per l’articolo con vista dettagliata sul futuro, nuove conoscenze=più strumenti da utilizzare, non vedo l’ora che mi arrivi new hop. Big_up!!
Ciao Frank, ho visto che fermenti con blow-off, non in pressione, ma aggiungendo CO2 per mantenere il più possibile lontano il mosto dall’ossigeno. Ci stavo pensando anch’io, ma sono un po’ incerto sulla procedura. Provo a farti qualche domanda (magari stupida, ma per ora non ci arrivo da solo) se puoi rispondermi te ne sarei grato. Con un normale fermentatore troncoconico da hobbista, come posso fare per riempirlo di CO2 alla fine della fermentazione turbolenta e senza aprirlo. Va modificato in qualche modo? E come faccio a capire come e quando devo insufflare di nuovo CO2? Ed è una cosa che vale la pena fare solo con le luppolate o anche con birre meno sensibili all’aria, come una Kolsh o una Tripel? Sto leggendo un po’ di opinioni su facebook, ma mi perdo nelle discussioni. 🙁
Non capisco perché lo vuoi riempire di CO2 dopo la fermentazione (quando è già pieno di CO2). Forse intendi dopo averlo aperto per il dry hopping? In quel caso ti servono i corretti allacci, no è semplicissimo ma si fa. Certo se poi non mantieni il ciclo in contropressione per imbottigliare serve a poco. Limitare il contatto con l’ossigeno fa bene a tutti gli stili, sempre, poi possiamo discutere sulla rifermentazione (che per alcuni è essenziale, per altri invece assolutamente no).
Ciao Frank!
Volendo fare dry hopping in una saison con luppoli europei in un fermentatore senza tenuta di co2, consigli di farlo i primi giorni per fare si che il lievito consumi l ossigeno che inevitabilmente si introdurrà esponendo però il luppolo a temperature a partire 24-25 gradi a salire oppure di metterlo a temperature più basse a fine fermentazione rischiando però l’ossidazione?
Hai ben esposto il problema, ora la scelta è tua 🙂 Come ho scritto nell’articolo, si tratta sempre di trovare il giusto compromesso. Le aggiunte durante la fermentazione e quelle dopo la fermentazione, a temperature più basse, non apportano lo stesso contributo aromatico. Fai delle prove, vedi come ti trovi.
Hai ragione, come spesso accada nell’HB non c’è una risposta univoca 🙂 vedrò di splittare il batch per valutare al meglio le differenze 😉
Grazie!
Ciao Frank, mi sfugge una cosa: se ho capito bene è meglio ritardare i dry hop di luppoli resinosi (idrocarburi), mentre conviene anticipare anche in late boil i luppoli agrumati (composti ossigenati). Per i composti dello zolfo responsabili degli aromi tropicali invece? Ti ringrazio =)
Sì, diciamo che non è che “conviene”: dipende da quello che si vuole ottenere. I composti dello zolfo da un lato sono in genere maggiormente volatili (tendono quindi a sfuggire durante la fermentazione), ma dall’altro ci sono diverse ricerche che dimostrano come questi composti possano attraversare diverse importanti biotrasformazioni durante la fermentazione. Come sempre, non c’è una legge precisa ma è tutto frutto di compromessi tra varie componenti.
Ciao Frank! Io uso il fermentatore non in pressione a cui attacco il tubo per il blow off anzichè il classico gorgogliatore. Per il dry hopping apro il tappo del fermentatore e getto i luppoli. Mi chiedevo se, per ridurre l’introduzione di ossigeno durante l’apertura del tappo potrebbe aver senso versare i luppoli nel tubo del blow off senza aprire il tappo. Secondo te, prelevando un pò di mosto e sciogliendo i pellet e poi versando il tutto nel tubo del blow off potrei ridurre l’introduzione di ossigeno? Grazie!
Seconde me uno sbattimento con scarsi vantaggi. se non si usa la contropressione e non si ha la strumentazione per fare bubbling di co2 dopo l’inserimento del luppolo, il resto conto davvero poco. Con questo non voglio dire che non si possano produrre buone birre luppolate, ma non credo che impiccarsi a inserire una miscela di luppolo e mosto dal blow-off possa migliorare sensibilmente la birra, ecco.
Ciao Frank, riguardo alla bio trasformazione dei terpeni ossigenati, fai riferimento ad una concentrazione che porta a saturazione la soluzione, rendendo quindi controproducente ai fini degli aromi fruttati un dry hopping particolarmente abbondante. Sai darmi riferimenti su dove trovare le caratteristiche di questa saturazione? Immagino dipenda in gran parte dal luppolo utilizzato, ma anche dalla densità del mosto. Sai consigliarmi articoli o libri a riguardo? Grazie mille per la splendida opera di divulgazione che porti avanti! 💪🏻
Non credo esistano dati quantitativi con questo livello di dettaglio. Il libro di riferimento per questi temi è comunque sempre The New IPA di Scott Janish.
Ciao Frank, sempre impeccabile e chiaro nell’esposizione dei tuoi ragionamenti. Complimenti. Volevo però capire alcuni dettagli. Dici che riducendo la temperatura oltre ad una riduzione di estrazione dei polifenoli si riduce anche quella degli oli essenziali. Tuttavia avevo letto su un altro blog autorevole dove ogni tanto appare anche qualche tuo articolo che, al contrario degli α-acidi e dei polifenoli, la quantità di estrazione degli oli essenziali non risente particolarmente delle temperature ma piuttosto del livello alcolico già presente nel fermentatore. Forse ho interpretato male òa cosa ma se così fosse varrebbe la pena effettuare il DH subito prima di abbattere la temperatura, non credi?
Ciao Max, ora non ricordo precisamente. Sicuramente l’estrazione degli oli dipende molto meno dalla temperatura rispetto a quella dei polifenoli. Probabilmente a bassa temperatura l’estrazione degli oli rallenta, quindi a parità di giorni di dry hopping è probabile se ne estraggano meno. Senza dubbio, più la soluzione è alcolica, più se ne estraggono.
Ciao Frank, ottimi spunti e grazie per condividere le tue esperienze. Volevo provare a fare dry hopping con fermentazione primaria in corso al secondo giorno. Sto utilizzando un fermentatore tradizionale ed ovviamente in questa fase della fermentazione c’e’ molta schiuma che non vorrei toccare. Ho qualche dubbio sulla procedura – aggiungo i pellets sulla schiuma oppure creo dello spazio per meglio raggiungere il mosto, con maggior rischio di ossidazione? Grazie e a presto.
Con la fermentazione attiva non ci sono grandi rischi di ossidazione, eventuale ossigeno viene riassorbito dal lievito o mandato fuori dal mosto insieme alla CO2.
Grazie mille Frank. Quindi muovo la schiuma per far spazio e aggiungo i pellets nel mosto invece che sulla schiuma? Buona giornata
Quello valutalo tu 🙂 Io li aggiunsi senza muovere nulla, tanto credo che affondino.
Grazie mille. A sensazione anche io non muoverei nulla. Provo così!
Ciao Frank, visto che il dry hopping è ricco di variabili (temperature, tempo di contatto, tipi e quantità di luppoli, FG, pH ecc…) e visto che il tutto si svolge durante la fermentazione/maturazione, ti chiedo se assaggi la birra durante questo processo per capire come sta andando, oppure pianifichi a tavolino e aspetti la fine senza correzioni durante la fermentazione? Se fai assaggi, che cosa ricerchi e quali sono le correzioni che si possono fare durante questa fase? Grazie!
Difficile valutare l’effetto del dry hopping dall’assaggio diretto durante la fermentazione. Si fanno prove con diverse tecnica, poi si assaggi la birra e si prendono appunti. E sì: ci vuole tempo. 🙂
Ciao Frank, ho bisogno di un piccolo aiuto: sto brassando una ricetta che prevede DH dopo la fase tumultuosa.
La ricetta recita così:
-Dopo la prima fase di fermentazione (circa 1 settimana) procedere con il travaso
-Dopo il travaso aggiungere il luppolo in dh
-Portare il fermentatore a una temperatura di 4 gradi per circa 15-20 giorni
Non ho capito però i tempi; se devo abbattere la temperatura subito dopo il DH oppure no.
Tu suggerisci di aspettare qualche giorno prima del crash cooling?
Grazie mille
Prima regola: non travasare. Secondo me intende dry-hopping a temperatura di farmentazione per 2-3 giorni, poi cold crash di 15-20 giorni. Puoi fare tranquillamente tutto senza travaso (anzi meglio, riduci l’ossidazione). Cold crash di 20 giorni è anche lungo, potresti anche accorciare a 7-10.
grazie mille!
lo sospettavo… e a dirla tutta il non travasare mi torna anche utile 😉
ciao
ciao Frank, tirando un po’ le somme di tutto il tuo articolo e dei commenti, e’ giusto arrivare ad FG stabile e poi abbassare di qualche grado (non intendo cold crash, magari da 18 gradi calo fino a 15) e poi fare dry hop per una settimana ? saluti
Non è che ci sia un metodo in assoluto più “giusto” di altri in assoluto, ma mi sembra in buon approccio,
ti ringrazio